Musiche cardelliniche

 

Però, che so?, della loro bellezza io non dirò nulla, essendo convinto che sia molto meglio rilevarla semplicemente guardandoli: dal vivo, in immagini fotografiche, nelle numerose raffigurazioni che ne sono state fatte nella pittura.

E nemmeno dirò qualcosa sulle loro caratteristiche, giacché non sono un ornitologo né qualche altro tipo di scienziato.

Nemmeno dirò qualcosa sul canto dei cardellini: penso che avrebbe proprio ben poco senso sfornare una filza di aggettivi enfatici e inevitabilmente "impressionistici"; né voglio cimentarmi in ardite onomatopee con il rischio, tra l'altro, di non sfuggire anche in questo caso all'"impressionismo" quando già numerose sono state tentate: da quella in verità un po' sorda di Giovanni Pascoli che, in una poesia di Canti di Castelvecchio, "The hammerless gun", parla di

 

«(...) un tac tac di capinere,

(...) un tin tin di pettirossi,

un zisteretetet di cincie, un rererere

di cardellini. (...)»

 

a quella che definirei irripetibile e inarrivabile di Gerard de la Bassetière:

 

«tirepetieutirepetieutiretititiretipétieu;

tipititipititirruittpiti; tibituruihitiu; spittspitt,

tirilli; pitziheilleiyei; pidziturui; tzuipeireitiépeireitié;

turiturutitipétieutipetieutieutieutieutiurrritzui»

 

 

 

Sono innumerevoli, in musica, le composizioni richiamantesi agli uccelli o evocanti il loro canto. Da Händel a Vivaldi; da "L'uccello profeta" della suite pianistica delle Waldszenen di Schumann al canto del falcone ne La donna senz'ombra di Richard Strauss; dall'uccello nella foresta del Sigfrido di Wagner al cuculo della Prima sinfonia di Mahler; dal Gallo d'oro di Rimski-Korsakov a L'usignolo di Stravinskij; da Gli uccelli di Respighi a L'uccello incantato di Villa-Lobos; dal secondo movimento (Andante molto mosso) della Sesta sinfonia ("Pastorale") di Beethoven, dove gli interventi solistici del flauto, dell'oboe e del clarinetto imitano rispettivamente l'usignolo, la quaglia e il cuculo, alle pagine per pianoforte e orchestra del Catalogo degli uccelli e di Uccelli esotici di Olivier Messiaen, che ha ribadito la sua inequivocabile passione ornitologica anche nell'unica sua composizione operistica, San Francesco d'Assisi, nelle cui duemila pagine di partitura ha inserito anche una lunghissima "Predica agli uccelli" in cui il santo li benedice discernendo le virtù di ciascuna specie. Poi gli uccelli se ne vanno a stormi verso i quattro punti cardinali disegnando nel cielo una croce.

Quel che bisogna assolutamente ascoltare è però, ovviamente, il Concerto in re maggiore n. 3 op. 10 per flauto traverso, oboe, violino, fagotto e basso continuo di Antonio Vivaldi ovviamente, perché questo concerto si intitola Il Gardellino.


 

Antonio Vivaldi

Concerto in re maggiore n. 3 op. 10 per flauto traverso, oboe, violino, fagotto e basso Il Gardellino


È passato il cardillo

 

Di tutto questo non dirò nulla, anche perché proprio a proposito della voce si intrufolano subito, provenienti da Il cardillo addolorato, queste parole di Anna Maria Ortese:

 

«Questa voce, che nasce da un desiderio e un sogno generale di bene, non è di un uccello, e questo uccello, perciò, non lo troverete mai. Questa voce è connaturata alla primavera... alle stelle... alle buone notti d'estate... Fa piangere e diventare buoni. Vi accorgete da ciò, da questa memoria e questo desiderio pungente e disperato di bene, che è passato il Cardillo... È che la vostra vita vi appare non buona, vi pare che ve ne sia un'altra, più buona... più mite, e con quella vorreste cambiare la vostra povera vita...»

 

Dirò invece di alcune letture racconti, romanzi, poesie nelle quali si incontra un cardellino. Niente di rigoroso, beninteso; nonHÛi tratta di una rassegna derivante da un'indagine capillare, accurata, sistematica. Si tratta di nient'altro che di alcune soste in un'accentuatamente viziosa pratica di lettura. Viziosa perché praticata principalmente per piacere, nella convinzione che, come diceva Leopardi, «il dilettevole sia più utile che l'utile».

 


Perché nulla possa sfuggire sarebbe forse opportuno tenere d'occhio i cardellini ancor prima che nascano, quando stanno nel nido ancora dentro il chiuso delle uova. Questo tentativo però lascia nell'incertezza: scrive infatti Paolo Bertolani nella poesia Coà:

 

«E ève picetà

'nta coà.

 

... Picetà de turchín,

l'èn de passuéta

o de cardaín?

O de l'usèlo

che disa: G'è-chí g'è-chí,

chi ciàme... spèta...

èco: sperlinséa,

e i nó smeta

che aa sea?

 

Nó dimandae, che avóa

a nó savièi destingue

na tordéna da 'n luí.»

 

(Nido. Le uova picchiettate / nel nido. // ... Picchiettate di turchino, / sono di passerotto / o di cardellino? / O dell'uccello / che dice: È-qui è-qui, / che chiamano... aspetta... / ecco: sperlinsèa, / e non smette / che alla sera? // Non domandare, che ora / non saprei distinguere / una tordella da un luí.)


 

Jan Davidsz De Heem (1606-1684), Still life xith Bird-nest, olio su tela, cm 89 x 72, Dresda, Gemaldegalerie

 

Abraham Mignon (1640-1679), Natura morta, Dresda, Gemäldegalerie

Evidentemente non era il momento giusto; allora è forse opportuno lasciar perdere e andare oltre, anche per non correre il rischio, attardandosi troppo accanto a un nido con le uova, che questo venga abbandonato o di venire assaliti con disperata furia dai padroni di casa di ritorno.

Andiamo oltre, dunque. E dove? In quale direzione? Si può seguire il sole, per esempio.In questo caso, dalla Liguria dell'estremo levante di Bertolani (il dialetto della poesia è quello della Serra di Lerici, in provincia di La Spezia), camminando camminando, verso ponente, si arriva poi nell'imperiese, e lì c'è un posto che si chiama Apricale, dove bisogna fermarsi perché c'è un cardellino in una delle Canzonette di Nico Orengo:

 

 

«Il cardellino di Apricale

vola bene

ma è senza fiato

quando sale le scale.»

 

Da Apricale, dopo un'adeguata sosta che consenta a tutti di riprendere fiato e di assaporare il più possibile il volo del cardellino indigeno, riprendendo il cammino per ponente, si potrebbe arrivare anche in Estremadura, dove si troverebbe, in mezzo ai Relitti di Rafael Sánchez Ferlosio, addirittura il cardellinotauro e, qualora si fosse a fine giugno, la sua festa.


«Fra i rami degli olmi centenari che crescono lungo la riva destra del fiume Alagón nel punto in cui scorre ai piedi di Coria, là dove la città, circondata più in alto da mura, ha il suo parco e il campo per le fiere, nidifica e si riproduce il cardellinotauro. Da sempre i coriani considerano questo singolare animale sacro e benefico; tuttavia, come i naturalisti si sono spremuti inutilmente le meningi per elaborare un'ipotesi sulla sua filogenesi, così gli antropologi hanno fallito nel tentativo di dare una qualunque plausibile interpretazione totemica di una tale devozione, non trovando altro che un naturale sentimento di delicata simpatia dei coriani nei confronti di quest'uccellino autoctono del loro olmeto, che sanno essere unico in Estremadura e nel mondo. Nemmeno i più vecchi annali registrano il momento in cui venne scoperta la ricettività mimetica del volatile all'imitazione del suo canto da parte dello zufolo dei tamburini del luogo; un canto in cui, sebbene continui a riconoscersi quello del cardellino, s'indovina dovendosi adattare alla diversità fra un becco duro e un muso carnoso una tenue e remota connotazione bovina. Ma proprio in questa ricettività sta il fondamento e l'origine della festa coriana del cardellinotauro. A fine giugno, quando i nuovi nati arrivano all'età adulta, sul far dell'alba, scendono all'olmeto sei tamburini con soltanto i loro zufoli e ventiquattro ragazze vestite da contadinelle che camminano ballando al loro ritmo. Ben presto, dagli olmi, risponde col suo canto qualche giovane cardellinotauro e, non appena i suonatori e le danzatrici si accorgono che, di ramo in ramo, accorre al loro richiamo, ritornano indietro verso la città. Perché il cardellinotauro si arrischi ad entrare dalle sue porte e percorrere le sue strade, queste debbono essere deserte e silenziose, mentre tutti i coriani osservano da dietro i vetri. Segue soltanto gli zufoli e le ballerine, che non si possono fermare, ma su tutti i davanzali e tutti i balconi ci sono offerte di cibo e piccole ciotole d'acqua, affinché il cardellinotauro si fermi a becchettare e a rinfrescarsi, gesto considerato una benedizione per la casa. Nulla di più aggraziato della delicatezza con cui affonda nell'acqua le sue fragili corna di calamo di penna e le alza e scrolla per spruzzarsi il dorso.»

 

Ma, come tutti ben sanno, fine giugno non è, e così non rimane che tornarcene in Francia. E lì, dentro alle Storie naturali di Jules Renard, «su d'un ramo biforcuto del nostro ciliegio», c'è un altro nido. Questo è sicuramente un nido di cardellini, perché lo dice il titolo stesso del racconto; non sappiamo se le uova siano o no "picetà de turchín", ma ha poca importanza perché nel nido ci sono quattro piccoli appena nati.

 

«(...) Dissi a mio padre:

Ho quasi voglia di prenderli per allevarli.

Mio padre m'aveva spiegato spesso che è un delitto mettere in gabbia gli uccellini. Ma quella volta, certo stanco di ripetere la stessa cosa, non trovò nulla da rispondere. Pochi giorni dopo gli dissi:

Se voglio, sarà facile. Metterò prima il nido in una gabbia, attaccherò la gabbia al ciliegio, e la madre nutrirà i piccoli attraverso le sbarre, fino a che non avranno più bisogno di lei.

Mio padre non mi disse che cosa pensava di questo sistema.

Così installai il nido in una gabbia, la gabbia sul ciliegio, e avvenne come avevo previsto: i cardellini vecchi venivano dai piccoli col becco pieno di bruchi. E mio padre osservava di lontano, divertendosi quanto me, il loro andirivieni fiorito, il loro volo colorato di rosso sanguigno e di giallo sulfureo.

Una sera dissi:

I piccini sono abbastanza pennuti. Se fossero liberi, volerebbero. Facciamo passare un'ultima notte in famiglia, e domani li porterò a casa, li appenderò alla mia finestra, e ti prego di credere che non ci saranno al mondo cardellini meglio custoditi.

Il babbo non disse il contrario.

Il giorno dopo trovai la gabbia vuota. Mio padre era lì, testimone del mio stupore.

Non sono curioso, feci io, ma vorrei un po' sapere chi è l'imbecille che ha aperto la gabbia!»

 

I cardellini di Renard ce l'hanno fatta, qualcuno ha aperto la gabbia e loro se ne sono andati via, nel vasto mondo. Non per tutti è così. Per esempio, in una delle sue Leggende Leonardo da Vinci scrive che

 

«Il calderugio dà il tortomalio a' figlioli ingabbiati. Prima morte che perdere libertà.»

 

Questa storia, narrata e rinarrata a più riprese, è stata anche "tradotta" da Bruno Nardini che, in Leonardo da Vinci, Favole e leggende (Giunti-Nardini, Firenze 1972), la racconta così:

 

«Quando ritornò nel nido, con un piccolo verme in bocca, il cardellino non trovò più i suoi figlioli. Qualcuno, durante la sua assenza, li aveva rubati.

Il cardellino incominciò a cercarli dappertutto, piangendo e gridando; tutta la selva risuonava dei suoi disperati richiami, ma nessuno gli rispondeva.

Un giorno un fringuello gli disse:

Mi pare di aver visto i tuoi figlioli sulla casa del contadino.


Il cardellino partì, pieno di speranza, e in breve tempo arrivò alla casa del contadino. Si posò sul tetto: non c'era nessuno. Scese sull'aia: era deserta.

Ma nell'alzare la testa vide una gabbia appesa fuori dalla finestra. I suoi figlioli erano lì dentro, prigionieri.

Quando lo videro, aggrappato alle stecche della gabbia, si misero a pigolare chiedendogli di portarli via; e lui cercò di rompere col becco e con le zampe le sbarre della prigione, ma invano.

Allora, con un gran pianto, li lasciò.

Il giorno dopo, il cardellino tornò di nuovo sulla gabbia dov'erano i suoi figli. Li guardò. Poi, attraverso le sbarre, li imboccò uno per uno, per l'ultima volta.

Infatti egli aveva portato alle sue creature il tortomalio, che era un'erba velenosa, e i piccoli uccellini morirono.

Meglio morti disse che perdere la libertà.»



 

Come si tiene un cardellino attaccato a un filo

 

La libertà è vivere senza sbarre, ma soprattutto senza fili. Si poteva un tempo del cardellino fare un meraviglioso e crudele giocattolo, attaccandogli un filo a una zampa. È così infatti, che lo vediamo ritratto da Jacopo del Casentino nella Madonna del Rosario della Chiesa di Santo Stefano a Pozzolatico (vicino Firenze), e così pure lo raffigura quel grande e appassionato pittore di madonne e cardellini che fu Carlo Crivelli.

Jacopo del Casentino, Madonna del Rosario, Chiesa di Santo Stefano a Pozzolatico (Firenze)

Carlo Crivelli (c. 1430 - c. 1511), Madonna con Bambino (c. 1480), tempera su tavola cm 21 x 15, Ancona, Pinacoteca Civica


Non molto meglio vanno le cose per questo cardellino dipinto da Rubens, che ora vive a Colonia, sul quale torneremo

Pieter Paul Rubens (1577-1640), Sacra Famiglia (1632-1634 ca.), olio su tela, Colonia, Wallraf-Richartz Museum

Per capire di più su questi cardellini che per eccesso di familiarità hanno finito per vivere appesi a un filo, bisogna andare in America. Prima di tutto perché è a New York che si trova la Madonna del cardellino del Tiepolo...

Giambattista Tiepolo (1696-1770), Madonna del cardellino (1767-70), olio su tela, cm 62 x 49,5, New York, National Gallery of Art, Collezione Seligman

 

dove la grazia del filo tenuto molle, non inganna per niente il cardellino, che infatti sembra guizzare dal pugno (e forse a luci spente strilla di dolore e di liberazione...)


E poi perché, a Washington, dentro la National Gallery of Art, c'è un cardellino, dipinto dal Guercino, che è addirittura riuscito a liberarsi

Giovanni Francesco Barbieri (Il Quercino) (1591 - 1666), Madonna col Bambino e un cardellino che scappa (intorno al 1630), gesso rosso su carta vergata sottile; laid down cm 26,3 x 20,3, Washington, National Gallery of Art

 

E per non fare scappare un cardellino attaccato a un filo? Beh, basta sostituire la mano con un muro, come ci mostra Carel Fabritius nella sua più celebre tela, intitolata, appunto, Il cardellino

 

Carel Fabritius, The goldfinch (1654), olio su tela, cm 33,5 x 22,8, Mauritshius, The Hague

 

Bruttissima storia, legare a un filo la vita del povero cardellino. Anche se era così, allora, che i bambini scoprivano nel pugno la pulsazione del mondo naturale, la meraviglia del battito frequentissimo (fino a 180 pulsazioni al minuto) sotto il tepore delle piume colorate.



Cardellini in gabbia

 

E storia ancor più brutta quella di tenere i cardellini in gabbia.

Guardate qui la gabbia dipinta da Hogarth per i bambini Graham...

William Hogarth (1697-1764), I bambini Graham (1742), olio su tela, Londra, Tate Gallery

... e quella a più posti di Goya per il divertimento di Manuel Osorio Manrique de Zuñiga...

Francisco Goya, Manuel Osorio Manrique de Zuñiga (1788), olio su tela, New York, Metropolitan Museum of Art

... per non dire di quella in cui alla tortura della reclusione si aggiunge la minaccia di un gatto, cosa che all'illuminista Baldrighi non faveva un baffo ...

Giuseppe Baldrighi, Autoritratto con la moglie (dopo i1 1756), olio su tela, 125x160, Parma, Galleria Nazionale.

Tutte gabbie molto diverse, e non è certo solo una questione di stile, dalla "monoposto" di Nord Sud dipinta da Mirò,

Joan Mirò (1983-1983), Nord Sud (1917), olio su tela cm 62 x 70, Parigi, Galleria Maeght

 

perché questa qui è sfondata da più lati, come per una libertà imminente e vittoriosa, che fa tornare in mente il fortunato cardellino in fuga del Guercino (e anche quello di Rubens).


 

All'estremo opposto, se ci mettiamo dal punto di vista del cardellino, non c'è tela più crudele di questa di Bouguereau, l'implacabile nemico degli impressionisti. Da un conservatore come lui possiamo aspettarci anche questo: far uscire un cardellino dalla gabbia non per liberarlo, ma così, per guardarselo un po', e poi (presumiamo) risbatterlo dentro.

Adolphe-William Bouguereau (1825-1905), L'oiseau cheri (1867), olio su tela, cm 82 x 66, New York, coll. priv.


Le gabbie, agli allevatori di cardellini, servono a incrociare: lui con la lucherina, la verdona, la ciuffolotta, oppure lei con il lucherino, il verzellino, ma anche il fanello, l'organetto, lo zigolo giallo, il crociere... senza contare l'incrocio più famoso, quello tra cardellino e canarina.

Invece i cardellini liberi, all'inizio di aprile, possono cominciare a toccarsi affettuosamente becco a becco. Alla fine del mese faranno il nido, finemente intessuto all'estremità di un ramo. Di solito le uova sono cinque (da quattro a sette), bianco-bluastre con macchiette scure, e si schiudono dopo un'incubazione di quindici giorni curata dalla femmina e alimentata dal maschio. In altri quindici giorni i piccoli lasceranno il nido, già cantando.

Perché, di meraviglioso, il cardellino ha soprattutto il canto.

 

Ai due fraseggi fondamentali se ne aggiungono molti altri: se si tratta di richiamare i compagni il cardellino fa "dudidelett" o "didudid", a più riprese, intervallandoli con un acuto "zidid". Ma durante le scaramucce emette un acido "tscerr". Appena fuori dal nido i piccoli se ne vanno con un "d-wet-wet-d-wet-wet". Gli amori del maschio, non potendo esibire, come in altri uccelli, una parata, sono musicali (un gorgheggio alquanto irriproducibile) e quel che è bello è che l'accompagnamento sonoro non si lascia indebolire dall'avvento dei piccoli, ma anzi si esprime al suo meglio durante l'incubazione. Un canto, dunque, "disinteressato", biologicamente difficile da spiegare.

E infine il "cinguettio liquido", una rielaborazione del richiamo di volo con variazioni e permutazioni modulate. Canti solo in parte determinati geneticamente: l'etologo Jurgen Nicolai ha dimostrato che, a poco a poco, il che significa, nel matrimonio degli uccelli, pochi giorni, parlano un proprio dialetto familiare.

 

C'è un luogo dove si ritrovano, tutti insieme, il canto, il cardellino, la gabbia, il Cristo, e il suono del liuto. Questo luogo è il genio tormentato del Caravaggio.

Nella versione newyorkese del celebre Suonatore di liuto (avviata dallo stesso Caravaggio) compare, sulla sinistra, al posto dei fiori dell'Ermitage, una gabbia con dentro un cardellino. Il suonatore dello strumento angelico e il cardellino nella gabbia sono, forse, entrambi, Cristo [M. Calvesi]. Entrambi imprigionati, entrambi capaci di cantare divinamente (e forse più divinamente quando sono in gabbia).

Michelangelo Merisi (il Caravaggio) (1573-1610), Suonatore di liuto (1594?), olio su tela, cm 94 x 119, San Pietroburgo, Ermitage, * copia Michelangelo Merisi (il Caravaggio) (?) (ed altri?), Suonatore di liuto (1594?), olio su tela, cm 94 x 119, New York, coll. priv.

E c'è anche un luogo in cui il mesaggio profetico del cardellino si disvela con crudezza e si generalizza, diventa una filosofia. Questo luogo, naturalmente, è Roma, dove, nella Galleria nazionale d'arte antica, da un ramo malamente troncato si sporge in avanti, verso la morte, un arruffato memento mori vivente.

 

Giovanni Francesco Barbieri (Il Quercino) (1591 - 1666), I pastori d'Arcadia (1618 circa), olio su tela h cm 82, Roma, Galleria nazionale d'Arte antica.


Però di bello il cardellino ha soprattutto il canto

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