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Angelo o demone che tu sia, nobile
cardillo
Questo difetto che noi due abbiamo, di raccogliere cardellini
nei quadri e nelle pagine, inizialmente, non ebbe conseguenze
rilevanti. Ci comunicavamo che anche Lorenzo Lotto, che anche
Elsa Morante, avevano dipinto e scritto di cardellini e questi
ritrovamenti ci piacevano in sè, non avevamo alcuna intenzione
di dare loro un significato. Un'accumulazione: anche Bosch e
anche Anna Maria Ortese, anche Goya e anche Leonardo da Vinci,
anche Caravaggio e anche Mallarmé, anche Raffaello e anche
Pirandello, anche Mirò e anche Calvino... Questo gioco
primitivo dell'addizione di cardellini, era divertente perché
assolutamente inutile, come tutti i giochi. Si poteva
chiacchierare del Rinascimento italiano con la stessa barocca e
appassionata insistenza con cui si parla di calcio nei bar,
indugiando su particolari così minuti, su circostanze così
malamente correlate, che si doveva alla fine per forza ridere di
noi. Abbiamo anche imparato un sacco di cose per scherzo.
Ma poi le cose sono andate diversamente. Se vogliamo cercare
un momento, è stato quando abbiamo trovato due penne di
cardellino, due penne vere, belle gialle e nere, proprio sotto
casa mia. In tutta una vita dedicata allo studio della natura
del Mediterraneo, di cui il cardellino è un familiare
rappresentante, quasi un simbolo alato, non era mai capitato una
volta.
Dal momento di quel profetico ritrovamento abbiamo smesso di
giocare candidamente all'addizione. Avvelenati dalla febbre del
significato, che si manifestò in forma di delirio tassonomico,
abbiamo dovuto risolverci a definire una nuova entità
biologica, Carduelis carduelis picta, da cui nel tempo
abbiamo fatto discendere una imbarazzante moltitudine di varietà.
Ormai i ritrovamenti, che non cessavano, dovevano avere
un contenitore, una gabbia in cui sistemarli. E proviamo
vergogna, oggi, per il modo inutilmente bugiardo con cui abbiamo
forzato non so quanti cardellini nella gabbia che ci faceva più
comodo. Né ormai ci facevamo scrupolo di escludere cardellini
che non quadravano con i nostri più recenti preconcetti. Quelle
penne scrissero il nostro destino come una firma, non
diversamente da quanto accadde, come vi è certamente noto, ad
Antonio da Crevalcore. Furono l'inizio di una trasmutazione
simile a quella di cui fu vittima Giacomo Desti, il pittore
cremasco che volle chiamarsi, semplicemente, "Il
Cardellino". Misero sulla nostra esistenza una pietra
tombale, come quella, per capirci, su cui se ne stanno i
cardellini del Ghirlandaio (Carduelis carduelis picta
sylvestris intermedia). Il nostro carattere si plasmò sulla
doppiezza dei cardellini di Bosh e, ancor più, su quella del
cardellino di Lorenzo Lotto (Carduelis carduelis picta ambigua).
Provammo la superiore indifferenza del cardellino del Montagna (Carduelis
carduelis picta profetica), il dolore di essere attaccati a
una corda nei quadri, tesa e rozza che fosse, come in quelli del
Crivelli (Carduelis carduelis picta familiaris captiva
stricta) oppure mollemente distesa, come in quelli del
Tiepolo o, massimamente, di Rubens (Carduelis carduelis picta
familiaris captiva mollis). Provammo la stretta tenera tra
le mani dei Bambini di Raffaello (Carduelis carduelis picta
familiaris) e quella arrogante di Giovanni dei Medici del
Bronzino (Carduelis carduelis picta familiaris ferocis)...
Per intelligenza, nessuno di noi due può essere paragonato a
Charles Darwin. Ma è anche vero che i cardellini sono anch'essi
fringuelli, come quelli delle Galapagos. Così delle due
condizioni per paragonare questo lavoro al celebre esperimento
che aprì le porte alla biologia moderna, ce ne manca in fondo
soltanto una.
Ed è questo che ci ha incoraggiato ad illustrare qui in
dettaglio la morfologia e il comportamento, le distribuzioni e
le occorrenze, il fenotipo e la filogenesi, la sistematica e la
varianza, l'istinto, l'indole, la capacità simbolica ed
espressiva di questo leggerissimo e musicale miscuglio di
bianco, rosso, giallo e nero.
Tutto ciò ci ha profondamente cambiati. Oggi vivamo a New
York, in una gabbia sistemata nella tela di Francisco Goya, nel
Metropolitan Museum. Si può uscire e cantare solo di notte,
perché Manuel Osorio Manrique de Zuñiga si è attaccato a un
filo una cornacchia nient'affatto amichevole, per non parlare
del gatto che è alla vostra sinistra. Abbiamo altri compagni e
compagne nella gabbia, e ci danno regolarmente da mangiare, ma
non siamo felici.
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Meglio non averlo imparato, il
linguaggio degli uccelli
Mio padre non era svizzero, non era un vecchio conte, e non
aveva un unico figlio. Aveva un solo figlio maschio, questo sì,
ma non era sicuramente e lo dico con baldanzoso puntiglio non
era sicuramente quel padre di cui avevano parlato Jacob e
Wilhelm Grimm. Questi, infatti, parlando di quel vecchio conte
svizzero, per giunta dicevano che il suo unico figlio era «così
stupido che non riusciva a imparar nulla». Ebbene, no; mio
padre non aveva davvero un figlio così.
E nemmeno era mio padre, intendo quel «ricco mercante» di
cui parla Italo Calvino nelle Fiabe italiane, il quale «aveva
un figliolo a nome Bobo, sveglio d'ingegno e con gran voglia
d'imparare». Certo, trovarsi a essere e chiamarsi Bobo non è
cosa da poco, ma quella definizione di «sveglio d'ingegno» e
l'affermazione relativa al desiderio di sapere potrebbero
stuzzicare vanità anche ben meno accentuate di quella che ha
frequentato da sempre l'unico figlio maschio di mio padre.
Individuo, questo il figlio, intendo , che, in cambio di tali
caratterizzazioni, forse con non più che qualche mugugno,
comunque finito in sé avrebbe sicuramente anche accettato il
pur disperante nome di Bobo. Ma queste sono solo congetture,
perché per davvero non è andata così.
Niente Svizzera, quindi; e niente conte, e niente ricco
mercante. E niente, dunque, figlio tanto stupido da non riuscire
a imparare nulla né tanto sveglio d'ingegno e provvisto d'acuto
desiderio di sapere.
E infatti, a differenza del vecchio conte e del ricco
mercante, che affidarono i figli l'uno a un «maestro famoso»
perché si provasse a ficcargli qualcosa nella testa e l'altro a
«un maestro assai dotto, perché gl'insegnasse tutte le lingue»,
mio padre non affidò il suo unico figlio maschio ad alcun dotto
o famoso maestro; si limitò a fargli frequentare la scuola
pubblica, dove peraltro si cimentò con il leggere e scrivere e
fare di conto sotto la guida di una maestra; maestra che non so
bene quanto dotta fosse, e che probabilmene era allora diventata
famosa non per altro che per il carico d'anni che aveva
accumulato.
Da parte sua, mio padre, al suo unico figlio maschio e al di
là di quanto costui ne abbia effettivamente imparato, che è
argomento che qui non interessa , insegnò delle cose: ad andare
nei boschi con il cane; ad aiutare in casa, nei lavori
domestici; a costruire zufoli; a ricercare un'etica; a
incantarsi alle storie. E ne ha narrate tante, di storie, mio
padre: fiabe, leggende, favole, vicende d'ogni giorno, vicende
di misteri, vicende di animali.
Tra tutte queste storie, raccontò anche quella del vecchio
conte svizzero, I tre linguaggi, dei fratelli Grimm. Dove
si racconta che quel figlio così stupido viene mandato da tre
famosi maestri perché impari qualcosa. E qualcosa l'impara,
quello stupido, ma tutt'e tre le volte con il risultato di
aumentare lo sconforto e la rabbia del padre: effetto che è lo
stesso prodotto in colui che aveva affidato il figlio al «maestro
assai dotto» di cui si racconta nella fiaba Il linguaggio
degli animali di Calvino. Medesimo effetto come medesimi
sono gli apprendimenti dei figli: tanto lo stupido quanto lo
"sveglio d'ingegno" imparano infatti nient'altro che
il linguaggio degli animali.
A prescindere per un momento dagli sviluppi immediati delle
due vicende visto che entrambi i padri decidono di disfarsi dei
figli facendoli uccidere so per certo che all'unico figlio
maschio di mio padre l'apprendere quel linguaggio avrebbe
procurato nient'altro che un piacere ben più che infinito.
Ma così non è stato, ed ora è senz'altro un po' tardi un
po' troppo.
Ora è arrivato un tempo diverso. Mio padre non c'è più,
quei maestri chissà dove sono forse in un certo reame, in un
certo stato, in un paese lontano lontano , e anche il cammina
cammina è sempre più costellato da soste. E poi m'è
intervenuta un'altra cosa a me, sì, giacché sono io
quell'unico figlio maschio di mio padre : m'è sopravvenuto un
bisogno. E butterò lì un sospetto, un sospetto-timore: quando
interviene un bisogno di questo tipo è forse davvero
irrimediabilmente lontano il tempo di «quando desiderare era
ancora possibile». E forse è davvero così, perché il bisogno
sopravvenuto è nient'altro che questo: trarre qualche
consolazione comunque, da tutto e sopra di tutto.
E così m'è accaduto di fare una pensata: meglio che sia
andata così, meglio che non abbia imparato il linguaggio degli
animali, perché mi sarebbe poi stato inevitabile finire male.
Non certo per le conseguenze immediate di quell'apprendimento,
giacché sia il figlio stupido sia quello sveglio d'ingegno non
muoiono, bensì per le conseguenze estreme, quelle sulle quali
si chiudono le due fiabe.
Infatti a quei due figli non andò come in quell'antica fiaba
russa, Il linguaggio degli uccelli, in cui Afanasjev
racconta che «vivevano in una certa città un mercante e una
mercantessa, e il Signore diede loro un figlio con una
intelligenza superiore alla sua età, che aveva nome Vasilij».
Vasilij, quando i genitori scoprono che conosce il linguaggio
degli uccelli, viene sì abbandonato in alto mare, ma, dopo
essersi salvato da questa conseguenza immediata, vive vicende
che lo portano infine, come è giusto, a sposare la principessa
e a vivere felice e contento.
Un percorso di questo tipo, insieme a quella faccenda della
«intelligenza superiore alla sua età», a me sarebbe andato
benissimo, ma mio padre non mi raccontò la fiaba di Afanasjev,
bensì quella dei Grimm. E allora, ora mi dico cercando una
consolazione, meglio non averlo imparato, il linguaggio degli
animali. Sì, perché mi sarebbe accaduto esattamente come al
figlio stupido del vecchio conte e al Bobo della fiaba di
Calvino mi sarebbe accaduto di diventare papa. Pare che sia
inevitabile; dice Calvino che «è una vecchia tradizione
europea (...), una leggenda (che serba qualcosa dell'episodio
biblico di Giuseppe) attribuita ai papi Silvestro II e Innocenzo
III». No, grazie, non è il caso. «Preferirei di no», ridico
strenuamente col Bartleby di Melville. Meglio non avere imparato
il linguaggio degli animali.
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Anche perché Calvino rielaborò la storia dalle Fiabe
mantovane raccolte nel 1879 da Isaia Visentini, e ancora
cent'anni dopo, nel 1976, sempre a Mantova, in mezzo a Ventisette
fiabe raccolte nel Mantovano di Giancorrado Barozzi, è
stato possibile avere questa incontrovertibile verità:
«La notte di Sant'Antonio le bestie, per celeste prodigio,
acquistano la favella e parlano tra loro; ma nessuno, a scanso
di qualche accidente, deve tentare di sorprenderle nei loro
segreti colloqui: è un precetto del Santo. Un giovane incredulo
e senza scrupoli osò sfidare il tabù rimanendo a vigilare
nella stalla, acquattato tra la paglia, attento a non perdere
una sillaba. Ed ecco che a mezzanotte, da ogni posta, s'alza un
brusio confuso, che non è del ruminar solito dei bovini.
All'orecchio del giovane in ascolto entrano ben presto suoni
articolati, voci e parole di un dialogo ben chiaro e tremendo:
"Cosa farem a dman?"
"Na cassa da mort."
"E par chi?"
"Par quel ch'a stà in scolton."
La mattina dopo, non c'è che dire, il giovane intruso fu
trovato morto di spavento.»
Una consolazione sola però è ben poca cosa, e così me ne
sono presa un'altra; piuttosto amara, se si vuole, ma utile per
sopravvivere. L'ho trovata in un libro di Carlo Emilio Gadda, Il
primo libro delle favole, dove c'è una storia (la
centoottantesima) dolorosa e bellissima in cui si racconta che
tra il passero e gli altri uccelli, la sera, circa il ramo sul
quale trascorrere la notte, le cose vanno esattamente così:
«Il passero, venuta la sera, appiccò lite a' compagni da
eleggere ognuno la su' fronda, e 'l rametto, ove posar potessi.
Un pigolio furibondo, per tanto, fumava fuore dall'olmo:
ch'era linguacciuto da mille lingue a dire per mille voci una
sol rabbia.
D'un'aperta fenestra dell'ipiscopio com'ebbe udito quel
diavolìo, monzignor Basilio Taopapagòpuli, arcivescovo di
Laodicea se ne piacque assaissimo: e dacché scriveva l'omelìa,
gli venne ancora da scrivere: "inzino a' minimi augellini,
con el vanir de' raggi, da sera, e nel discolorare de le spezie
universe, e' raùnano a compieta: e rendono a l'Onnipotente
grazie di chelli ampetrati benefizi ch'Ei così magnanima mente
a lor necessitate ha compartìto, et implorando de le lor
flebile boci, contro a la paurosa notte sopravvenenti el Suo
celeste riparo, da sotto l'ala richinano 'l capetto, e beati e
puri s'addormono".
Ma i glottologi del miscredente ottocento e' sustengono che
'n sua favella, ciò è delli storni e de' passeri, quel così
rabbioso e irreverente schiamazzo che fuor d'onni fronda vapora,
o tiglio o càrpine od olmo, non è se non:
"di sò, el mi barbazzàgn, fatt bèin in là..."
"ditt con me?"
"proppri con te, la mi fazzòta da cul!..."
"mo fatt in là te, caragna d'un stoppid..."
"t'avèi da vgnir premma, non siamo mica all'opera
qui..."
"sto toco de porséo..."
"va a ramengo ti e i to morti!..."
"quel beco de to pare..."
"e po' taja, se no at mak el grogn,... tel dig me,... a
te stiand la fazza..."
"in mona a to mare..."
"lévate 'a 'lloco, magnapane a tradimento!..."
"né, Tettì, un fa' o' bruttone..."
"i to morti in cheba..."
"to mare troja..."
"puozze sculà!..."
"'sta suzzimma, 'e tutte 'e suzzimme!"
"piane fforte 'e loffie!..."
"chitarra 'e stronze!..."
"mammete fa int' 'o culo..."
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"e soreta fa int' e' rrecchie..."
"a tte te puzza 'u campà..."
"léati, porco, 'e cc'ero prima io..."
"e cc'ero io, invece!... l'è mmaiala!"
"... mandolin 'e mmerda!..."
"... sciu' 'a faccia tua!..."
"chiàveco!..."
"sfacimme!..."
"recchio', te ne metti scuorno o no!"
"è 'ttrasuta donn'Alfunsina!"
"e cc'ero io, maledetta befana, costassù costì l'è la
mi casa!..."
"vaffangul' a mammeta!"
"abbozzala, pezzo di merda, o ti faccio fori..."
"levate da' ccoglioni... accidenti a la buhaiòla 'he
tt'a messo insieme!..."
"to màae..."
e altre finezze, e maravigliose e dolce istampite del trobàr
cortés.»
Consolazione amara davvero, non può esserci dubbio, e
tuttavia sicuramente preferibile tanto all'ingannevole
supposizione di monzignor Taopapagòpuli quanto al rude
disvelamento dei miscredenti glottologi ottocenteschi. Meglio
non averlo imparato, il linguaggio degli uccelli. Che farsene,
infatti, di un linguaggio che altro non dice se non quel che
ognuno può sentire dagli umani a un qualunque semaforo, un
parcheggio, un supermercato, uno stadio, un ufficio postale o
d'anagrafe?
Però anche le consolazioni, pur utili in molti frangenti,
prese in sé si rivelano essere poi ben poca cosa. Sono solo un
ripiego, una pezza, un rimedio posticcio, la scala antincendio
nella casa che brucia. Di grande utilità, senza alcun dubbio, e
però niente più di qualcosa che al massimo può consentire di
sopravvivere e mai invece qualcosa per cui possa valere la pena
di vivere.
Di quello per cui val la pena di vivere non è forse qui il
caso di dire, soprattutto perché sarebbe comunque un parere
inevitabilmente personale, non trasferibile, non elevabile a
valore assoluto soltanto una deroga mi verrebbe da fare: questa:
una cosa per cui val la pena di vivere è il cercare ma dentro
di sé e per sé, e quindi si torna daccapo il cercare qualcosa
per cui valga la pena di vivere. Sia chiaro: il cercare,
ché circa il trovare è molto dimolto diverso il
discorso.
E così mi viene da pensare che, se delle consolazioni e
delle ragioni per vivere è poco sensato parlare, non resta
forse nient'altro che il dire di quello che sa dare vita e
rimettere in vita; il dire, quindi, di qualcosa che, pur non
essendo ragione di vita né strumento di bieca sopravvivenza, è
molto più vicino a quella che a questa di questa essendo anzi
in ogni caso la negazione, lo spazzamento.
Sì, certo, anche questo non può che collocarsi nell'ambito
del personale, ma a differenza delle "ragioni di
vita", sempre da continuare a cercare, mai conseguibili una
volta per sempre con la consistenza di forza e di valore che
deriva da verifiche effettuate, da prove provate, da esperienze
esperite. E quindi, se non proprio "oggettivabili",
senz'altro almeno comunicabili; senza pretesa di scienza ma con
respiro di conoscenza.
A chiunque, più volte, è successo e succede di ritornare a
vivere. È successo e succede anche a me, più e più volte,
quali che fossero e siano e qui non ne dirò le cause
dell'andarsene, del venire a mancare. E dirò che a ridare la
vita non sono le ragioni per cui val la pena di vivere; almeno
come elemento immediato, se non altro perché sempre troppo
complesse e articolate, sempre troppo ancora da definire
ulteriormente, sempre troppo ancora in movimento, sempre ancora
da cercare, ancora e ancora, camminando camminando nel cammina
cammina. O, forse, chissà...
A rimettermi in vita è stato il vento, un amore, la musica,
alcune storie e le parole che ci sono dentro: nel vento, in un
amore, nella musica, dentro le storie. Ma dell'amore e del vento
sarà però forse bene dire altrove, se non altro perché,
forse, chissà... E delle storie qui mi limiterò a ricordarne
soltanto qualcuna: quelle di Herman Melville, di João Guimarães
Rosa, di William Faulkner, di Lev Tolstoj, di Elsa Morante, Chiamalo
sonno di Henry Roth, Casa d'altri di Silvio D'Arzo, Don
Chisciotte di Miguel de Cervantes, L'isola del tesoro
di Robert Louis Stevenson, Il sogno del pongo...
Vorrei invece, piuttosto, dire qualcosa della musica. Ma ha
senso parlare della musica? Non ha forse più senso suonare e
cantare e ascoltare? È sicuramente così, allora mi limiterò a
dire che capisco bene quello che succede in due bellissime
storie.
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In un racconto di Cechov, Il violino di Rotsild, Jakov,
angosciato dalle perdite, «poneva accanto a sé, sul letto, il
violino e, quando ogni sorta di assurdità gli passavano per il
capo, toccava le corde, il violino nella tenebra emetteva un
suono ed egli si sentiva sollevato». E più avanti, quando
l'assistente sanitario, il fel'dser Maksim Nikolaic «gli
ordinò di applicarsi sulla testa delle compresse fredde, gli
diede delle polverine, e dall'espressione del suo viso e dal
tono Jakov capì che l'affare era brutto e che ormai nessuna
polverina avrebbe giovato», non ne risultò nemmeno troppo
disperato; anzi, «andando a casa rifletté che dalla morte non
si trae altro che vantaggio: non c'è più bisogno né di
mangiare, né di bere, né di pagare le imposte, né di
offendere la gente, e poiché un uomo giace nella tomba non un
anno, ma centinaia e migliaia di anni, se si fanno i conti il
vantaggio risulta enorme». E così Jakov «non rimpiangeva di
morire, ma non appena, arrivato a casa, vide il violino, gli si
strinse il cuore e sentì rimpianto».
Nel romanzo di Torgny Lindgren, Il sentiero del serpente
sulla roccia, Jani, rivolgendosi a Dio, racconta di non
avere mai conosciuto suo padre perché ancor prima che lui
nascesse «te lo sei portato all'ospedale di Pitholmen, dove s'è
spento piano piano ed è morto. Al suo posto [corsivo
mio] avevamo quell'armonio che il padrino della mamma, Rönn, il
falegname di Tjöln, le aveva costruito e che con la sua
frivolezza, soprattutto se si mettevano i registri Principale e
Flauto, ci procurava ogni tanto qualche crosta di pane».
E in tutto il romanzo la musica è costantemente presente e
assume anche una funzione specificamente liberatoria e
gioiosamente vitale, e questo di per sé, in assoluto, per così
dire, ma anche come contrapposizione al gretto, al violento, al
mercantile.
Certo, la musica è "inutile", non
"produce", non "rende" nulla, come ben
evidenzia lo sconfortante incontro tra Jani e la madre di colei
che diventerà sua moglie:
«Mia mamma ha suonato per tutta la sua vita, dissi io.
Io non la conosco, disse la madre di Johanna. Così non ne so
niente.
Per molti la musica è come una fonte di gioia, dissi io. La
mamma s'è sempre consolata con la musica.
E come le è andata? disse la madre di Johanna. Come se l'è
cavata nella vita?
Allora non dissi più niente, avremmo potuto discutere chissà
fino a quando sulla musica, i cani litigavano per il pesce, lei
non domandò niente su Johanna e non domandò nemmeno chi ero o
da dove venivo, e non vide che il mio braccio sinistro pendeva
come il pendolo di un orologio, e avevo fame ma lei non tirò
fuori nemmeno una crosta di pane.»
La musica non è "utile", non "produce",
non "rende" nulla, ed è forse proprio nella sua
gratuità, nella sua primordialità, che risiede la sua forza,
il suo potere magico. Però esistono autentici per niente
metaforici imperi fondati sulla musica; imperi economici, ben
forniti di un potere che non ha nulla di magico; e qui non è di
questo che volevo parlare, qui volevo parlare soltanto della
"fonte di gioia", di quella cosa che permette alla
madre di Jani di dire di non avere «mai bisogno di accendere
delle candele di sera (...) perché abbiamo la musica».
A. Naumann, Vögel Mitteleuropas, Gera, 1900
Allora, forse, sarà meglio cautelarsi molto attingendo
soltanto là dove la "fonte di gioia" è limpida,
priva dei fastidiosi fruscii delle banconote; e non solo, ma
anche robustamente rinforzata da un altro elemento, precluso
agli umani e anch'esso almeno altrettanto fonte di gioia: il
volo. Certo, precluso agli umani, perché, come diceva Umberto
Saba in un epigramma dedicato a un aviatore,
«Vai con macchina in alto, sì, ma ignoto
resta il gaudio del volo.
Non può chi va in barchetta dire: Io nuoto.»
Si dovrà allora attingere agli uccelli; ai quali, non a
caso, Giacomo Leopardi dedicò uno straordinario Elogio,
nel quale come anche in diverse pagine dello Zibaldone ne
evidenziava il prezioso assommare in sé e il canto e il volo,
liberi e gratuiti, espressioni di letizia e piacere, e di
piacere e letizia sorgenti rigogliose.
Vorrei però qui, per un momento almeno, fermarmi su un
problema; pormi e porre almeno una domanda. Domanda e problema
per i quali mi servirò di George Orwell, dal momento che una
cinquantina d'anni fa se li era posti e poi aveva fornito una
risposta di squisita saggezza. Scriveva infatti Orwell in Elogio
del rospo, un breve testo del 1946 pubblicato in italiano
nel volume di saggi Tra sdegno e passione, a cura di Enzo
Giachino (Rizzoli 1977), e successivamente in Nel ventre
della balena e altri saggi, curato da Silvio Perrella per
Bompiani nel 1996:
«È un peccato rallegrarsi per la primavera e gli altri
mutamenti stagionali? O, per essere più precisi, è
politicamente riprovevole, mentre tutti soffriamo, o ad ogni
modo dovremmo soffrire, sotto il giogo del sistema capitalista,
far presente che la vita sovente merita meglio d'essere vissuta
per il canto di un merlo, le foglie gialle d'un olmo in ottobre,
o qualche altro fenomeno naturale, che non costa un soldo e non
possiede ciò che i direttori dei giornali di sinistra
definirebbero una visuale classista? Molte persone, senza
dubbio, la pensano così. (...) La gente, così pensano alcuni,
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dovrebbe essere scontenta e il nostro compito è di
moltiplicare i nostri bisogni e non semplicemente aumentare il
godimento delle cose che si hanno. L'altra idea è che questa è
un'era di macchine e che non amare le macchine, o anche solo
cercare di limitarne il dominio, denota una tendenza retrograda,
reazionaria ed anche leggermente ridicola. (...) È vero che
dovremmo essere scontenti e non tentare di trarre il massimo
vantaggio possibile da una situazione deplorevole. Eppure, se
distruggiamo ogni piacere nel corso della vita, quale specie di
futuro ci prepareremo? Se non si sa godere per il ritorno della
primavera, come faremo ad essere felici in un'utopia che ci
risparmi il lavoro? In che modo sfrutteremo il tempo libero, che
le macchine ci largiranno? Io ho sempre sospettato che, se i
nostri problemi economici e politici verranno effettivamente
risolti, la vita diventerà più semplice invece che più
complicata e che il tipo di piacere che si deriva nello scovare
una primula precoce, sarà ben maggiore del tipo di piacere che
si deriva mangiando un cono sull'aria di un Wurlitzer. Credo
che, conservando il proprio amore infantile per alberi, pesci,
farfalle e per tornare al punto di partenza rospi, ci si prepara
meglio un pacifico e onesto futuro, mentre invece sostenendo che
nulla deve essere ammirato, tranne l'acciaio e il cemento
armato, si rende più probabile una situazione in cui gli esseri
umani non avranno altro sfogo per le loro superflue energie se
non l'odio e l'adorazione di un qualche duce.»
Anche Majakovskij, in una poesia del 1923, aveva posto il
problema analogo e analogamente posto (Cfr. V.Majakovskij, Opere,
vol. I, a cura di Ignazio Ambrogio, Roma, Editori Riuniti 1972):
«Ché tutte le altre questioni
più o meno son chiare.
E riguardo al grano
e riguardo alla pace.
Ma questa
questione cardinale
riguardo alla primavera
bisogna,
costi quel che costi,
risolverla adesso.»
Probabilmente tutto questo io lo metto qui con un intento che
è anche di giustificazione, ma, pur accettando serenamente la
possibile presenza di questo aspetto, vorrei evidenziare la
dimensione rivendicativa che è in ogni caso sottesa. Una
rivendicazione che è principalmente una sorta di accorata
dichiarazione di necessità d'interezza: interezza per quanto
riguarda una singola specifica esistenza che è fatta di corpo,
mente, fantasia, ragione, emozioni, sensazioni, sentimenti, compresenti;
tutto quanto, tutt'insieme, senza che nessuno di questi
"particolari" ne possa accantonare qualche altro ; e
interezza anche per quanto riguarda la collocazione di una
singola specifica esistenza nel vasto mondo, che non è percorso
soltanto da persone ma anche da animali, vegetali, e tutti tutti
impregnati di natura e cultura, di biologia e storia, per di più
anche queste non individuabili separatamente perché
assolutamente intrecciate e fuse.
Questo dovrebbe anche evidenziare un'altra rivendicazione:
quella relativa alla necessità di non occuparsi di fiori e di
farfalle per delusione storica, per adeguamento a una moda o per
sopravvenute paure. E non certo perché non esistano delusioni
storiche, o perché l'ecologia non sia oggi anche una moda, o
perché non ci sia da temere per la vita di ognuno e del
pianeta; non per questo, bensì per il fatto che queste sole
ragioni non possono portare ad alcun cambiamento autentico, e
possono consentire tutt'al più di sopravvivere, non certo di
vivere davvero.
Mi fermo qui, perché è perlomeno disonesto trovare una
consolazione nel fatto di non essere diventato papa e poi
pontificare discettando del "sopravvivere" e del
"vivere davvero". Mi fermo qui e ritorno, con tutta
l'inevitabile invidia ma con altrettanto incantamento, agli
uccelli e al loro volare e cantare.
Però c'è un problema: uccelli?
Tra le tante cose preziose che si possono imparare da Don
Milani e dai ragazzi della Scuola di Barbiana c'è anche quanto
sia vuoto, e scorretto, e classisticamente sintomatico, parlare
genericamente di "alberi". Ognuno di essi ha infatti
una precisa identità, bisogni, funzioni, sensibilità
peculiari; nonché un ben preciso nome. E il discorso non può
non valere anche per gli uccelli, e allora qui non si dirà
vagamente di uccelli bensì di cardellini.
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