Lunario dei Giorni di Scuola un progetto interrotto |
Un progetto interrotto
L'idea di un volume dedicato alla rappresentazione dei Maestri e delle Maestre di scuola nella letteratura di ogni tempo e di ogni paese, idea alla quale Giuseppe Pontremoli lavorò insieme ad A.M., ha lasciato come traccia solo questa proposta editoriale: già pronta per essere sottoposta all'attenzione di alcune case editrici (ad una sola venne effettivamente data in visione) e poi rimasta, con la scomparsa di Giuseppe, così come qui viene pubblicata. Lunario
dei giorni di scuola La
proposta di un Lunario dei giorni di scuola nasce dal convincimento che
la scuola sia, nel bene e nel male, un "luogo" di grandi passioni.
Luogo di entusiasmi e di dolori, di slanci e di frustrazioni, di apertura e di
mortificazione, di libertà e di coercizione, di utopia e di disincanto. Un
luogo potenzialmente privilegiato per l'esercizio dell'esperienza e della
parola, nonché per la loro elaborazione in sintesi vivificanti; ma anche,
troppo spesso, luogo di silenzi annichilenti. In
questo quadro, a noi sembra di importanza e interesse particolarissimi la
figura dell'insegnante, dell'educatore. Le
rappresentazioni che ne sono state fatte nella letteratura, più o meno
volontarie, più o meno consapevoli, sono numerosissime, in ogni epoca e in
ogni lingua. Maestri nevrotici, maestri ispirati, maestri sventura, maestri
mostri, maestri poveri, maestri per caso, maestri allegri, maestri grandi,
strani, piccoli, vari...: e maestre, maestre dagli avversi destini, maestrine
dalla penna rossa, maestre eroiche, grigie, vitali, avvizzite, maestre mamme,
maestre sorelle maggiori... Pensiamo
a queste figure non soltanto là dove la mano degli scrittori le abbia
descritte in cattedra, in aula, nel pieno istituzionale esercizio delle loro
funzioni; pensiamo a esse anche là dove la letteratura le abbia colte in
situazioni informali: comunque a manifestarsi, a essere maestri, docenti,
trasmettitori di sapere, educatori, a prescindere dalle situazioni e dalle
particolari contingenze. Nel contempo, almeno in qualche caso, pensiamo
ovviamente anche a figure sempre presenti nel mondo della scuola e
dell'educazione, che pur non fregiandosi propriamente dell'appellativo di
maestri, Maestri pure sono, nel senso più pieno del termine: istitutori,
precettori, professori, presidi. Va
da sé che una simile raccolta di brani, ciascuno accompagnato da brevi note
critiche, costituisce anche l'occasione per esplorare in controluce il modo e
le sensibilità con cui la letteratura ha percepito sia il ruolo della Scuola,
intesa come miscrosmo di umanità pulsante e afferente la sfera della socialità
in senso lato, sia il ruolo e la figura di chi, ai Maestri, è sempre stato
obbligatoriamente speculare e complementare: il discente, l'Alunno. Formuliamo
la proposta di un Lunario dei giorni di scuola certamente in virtù
della nostra esperienza di insegnanti elementari; ma anche di quella di autori
di libri della cosiddetta letteratura per l'infanzia; di saggisti di pedagogia
e di critica letteraria; di promotori "militanti" della lettura; di
lettori appassionati. Un bagaglio di interessi, curiosità e motivazioni che
già, in ambito scolastico, ha permesso di produrre una prima raccolta di
testi pubblicata sul
cd-rom Maestri,
contenente oltre 150 brani tratti dalle opere dei maggiori scrittori di
diverse epoche e diversi paesi, interamente dedicato alla figura
dell'insegnante nella letteratura per ragazzi e nella letteratura adulta. Ipotizziamo
di articolare il volume in 365 brani, uno per ogni giorno dell'anno; oppure
(ma soltanto per intuibili ragioni di spazio) in 210 brani, quanti sono i
giorni di un anno scolastico. Dato
il carattere del libro, le note che accompagneranno ogni brano saranno
necessariamente brevi, volte a fornire minimi accenni al contesto
socio-letterario dell'opera da cui il brano è tratto, all'autore, agli
elementi ritenuti rappresentativi del tipo di "lettura" dato al
ruolo dell'insegnante, della scuola, degli alunni. Note brevi e, per così
dire, "divertite": fuori cioè da ogni pedagogismo letterario. (.......) g.p.
e a.m. Esempi
di schede 15
maggio GIACOMO
NOVENTA Sarebbe opportuno leggere questa nota dopo il racconto (che Noventa scrisse nel 1947 intitolandolo La vacca) perché essa non può essere costituita che dalle parole che lo stesso Noventa gli faceva seguire: "Questa storia può sembrare molto buffa, ma non è una storia buffa. È una storia molto commovente, e quasi dolorosa, sebbene sia una storia di tutti i giorni. Molti possono scrivere quel che ho scritto io stesso: "Di fronte agli uomini ingenui e ai fanciulli abbi pudore anche del tuo pudore", ma quasi mai e quasi nessuno riesce a mettere in pratica un consiglio simile, o principio che sia. Noi agiamo quasi tutti come la buona maestra: rischiamo di ferire il pudore degli ingenui e degli innocenti quanto più vogliamo proteggerlo. Troppo fortunati, se la loro ingenuità e la loro innocenza sono così grandi da soverchiare il nostro moralismo e da impedirgli di nuocere". (g.p.) In
un giorno, o in un'ora, di vacanza, dunque, la buona maestra incontrò una sua
scolaretta. La scolaretta accompagnava una mucca. Sembrava più piccola di
quando era chiamata alla lavagna o alla cattedra. La buona maestra s'intenerì
e le chiese: "Dove vai bambina?". "Porto la mucca al
toro", rispose con grande semplicità la bambina. "Oh! Non potrebbe
farlo tuo padre?" osservò scandalizzata la maestra. "No, signora
maestra - rispose ancora la bambina - ci vuole proprio il toro". Giacomo
Noventa, Il grande amore e altri scritti. 1939-1948, Marsilio,
Venezia 1988. 10
novembre FEDERIGO
TOZZI Federigo Tozzi (1888 - 1920), ebbe un'infanzia e un'adolescenza ingombre di un padre tiranno - l'oste senese Ghigo del Sasso, "un quintale e mezzo d'uomo con corte mani che (...) diventavano magli" - e un persistente pessimo rapporto con la scuola e con gli insegnanti, al punto che dopo ripetuti insuccessi ed espulsioni non riuscì a finire gli studi. Va da sé che questo breve ritratto al vetriolo - suggestione confortata dalla propensione del grande scrittore toscano alla sovrapposizione di "dolorosi" elementi autobiografici in tutta o quasi la sua opera - sembra avere il retrogusto un po' acre del regolamento di conti postumo. Sulla mappa geo-letteraria delle maestre narrate a cavallo tra Ottocento e Novecento, questa istitutrice tristissima e irrimediabilmente guasta si situa esattamente agli antipodi della maestrina deamicisiana che insegnava nella "prima inferiore numero 3, quella giovane col viso color di rosa, che ha due belle pozzette nelle guancie, e porta una gran penna rossa sul cappellino." (a.m.) Un
ritratto Era
maestra elementare. Aveva un rocchio di capelli che sarebbe bastato almeno per
due donne, rossi e grossi; il viso giallo, sparso di lentiggini che pareva una
pelle di sughero; gli occhi strabici e con lo sguardo da bove; una bocca così
larga che non riesciva mai a chiuderla perché se tentava di farlo da un lato,
allora dall'altro lato le pendeva anche di più, tutta sgualcita. Il naso
schiacciato con due buchi fatti come due forellini da aghi. Le spalle tirate
in su, fin quasi alle orecchie; benché non fosse gobba. I
piedi enormi; quando camminava teneva i tacchi accanto e le punte in fuora. Aveva
un sudore che si sentiva a parecchia distanza. Era
restata come istitutrice nell'educandato dove l'avevano accolta da bambina.
Ma
voleva essere la più elegante di tutte; e quasi ogni giorno, perciò, aveva
un vestito nuovo. Ella si teneva da molto; e soltanto al direttore della
scuola faceva gli occhi dolci. Allora posava la penna e si metteva ad odorare
i fiori che teneva lì preparati sul tavolino. Ma la dolcezza dei suoi occhi
non veniva fuori che a mezzo; ed ella alla fine non ci riesciva più, il suo
viso s'irrigidiva a metà di una parola. Anche i fiori sembravano irrigidirsi
entro la sua mano. Allora ella si confondeva e si smarriva; credeva di essersi
compromessa tanto più che non riesciva a ricomporsi. Le veniva una saliva ai
denti cariati e sporchi. Poi impallidiva; e i fiori ricadevano sul tavolo.
Ella allora piangeva. Ma quando il direttore ripassava risorrideva tra le
lacrime mandandosi indietro quei capelli grossi come lo spago; sentendo con
angoscia, che una ciocca gliene ricadeva sempre su un orecchio e che ormai non
era più in tempo a riaggiustarsi. In quei momenti credeva che avrebbe potuto
essere amata; mentre quel viso giallo sotto alle trecce rosse, certe trecce di
canape greggia, faceva schifo. Federigo
Tozzi, Un ritratto, da Cose e persone: inediti e altre prose,
Firenze, Vallecchi, 1981 5
ottobre MAX
AUB Nato nel 1903 a Parigi da padre tedesco e madre francese, Max Aub visse prevalentemente in Spagna e in Messico, dove morì nel 1972. Nel corso della sua vita non ha scherzato con gli scherzi, scrivendo per esempio in pieno regime franchista un racconto intitolato La vera storia della morte del generale Franco oppure inventando un pittore cubista mai esistito di cui scrisse la biografia e l'epistolario con corrispondenti piuttosto famosi, e di cui organizzò anche una mostra che colpì molto la critica e la cui falsità venne svelata dopo due anni dallo stesso Max Aub. Quella che proponiamo qui è solo una delle circa ottanta "confessioni" di Delitti esemplari, pubblicato nel 1957 in cinquecento copie. Questo libretto beffardo, atroce e divertentissimo, è tutto da leggere: del povero maestro non vogliamo dire nulla, quel che ci preme evidenziare è che ogni volta che ne abbiamo proposto le gesta a una platea di insegnanti, abbiamo sempre visto illuminanti ancorché inquietanti bagliori negli occhi. (g.p.) Sono
maestro. Da dieci anni insegno nella scuola elementare di Tenancingo. Sui
banchi della mia classe sono passati tanti bambini. Credo di essere un buon
maestro. Lo credetti finché non spuntò fuori quel Panchito Contreras. Non mi
prestava alcuna attenzione e non imparava assolutamente niente: perché non
voleva. Nessuna punizione, né morale né corporale, gli faceva effetto. Mi
guardava insolente. Lo supplicai, lo picchiai: non ci fu verso. Gli altri
bambini cominciavano a prendermi in giro. Persi ogni autorità, il sonno,
l'appetito, finché un giorno non ne potei più, e, perché servisse
d'esempio, lo impiccai all'albero del cortile. Max
Aub, Delitti esemplari, tr. di Lucrezia Panunzio Cipriani, Sellerio,
Palermo 1981. 4
gennaio ERICH
MARIA REMARQUE Nella vasta antologia di cattivi maestri che la narrativa del Novecento ha restituito sulla carta, il professor Kantorek di Erich Maria Remarque (1898-1970), che convince i suoi alunni ad arruolarsi volontari per combattere nella Prima Guerra Mondiale sul fronte francese, occupa un posto di tutto rilievo. Non tanto per una malvagità appariscente e conclamata, essendo il nostro niente di più che un ometto bigio e ligio alla morale comune e al proprio dovere, quanto perché il Male di cui è placido e un po' bovino istigatore - ovvero il militarismo, il nazionalismo e la volontà di potenza - fu il nucleo pulsante e sotteso di una Weltanschauung che mise a ferro e a fuoco non una ma due volte l'intera Europa. A causa di Niente di nuovo sul fronte occidentale, romanzo in odore di autobiografia destinato a diventare un vero e proprio Manifesto contro l'orrore e l'inutilità della guerra (nel 1933 i nazisti lo arsero sul rogo a Berlino come libro "antipatriottico e degenerato"), a Erich Maria Remarque venne tolta la cittadinanza del Terzo Reich. (a.m.) (...)
Kantorek era il nostro professore: un ometto severo, vestito di grigio, con un
muso da topo. Aveva press'a poco la stessa statura del sottufficiale
Himmelstoss, "il terrore di Klosterberg". Del resto è strano che
l'infelicità del mondo derivi tanto spesso dalle persone piccole, di solito
assai più energiche e intrattabili delle grandi. Mi sono sempre guardato dal
capitare in reparti che avessero dei comandanti piccoli: generalmente sono dei
pignoli maledetti. Nelle
ore di ginnastica Kantorek ci tenne tanti e tanti discorsi, finché finimmo
per recarci sotto la sua guida, tutta la classe indrappellata, al Comando di
presidio, ad arruolarci come volontari. Lo vedo ancora davanti a me, quando ci
fulminava attraverso i suoi occhiali e ci domandava con voce commossa:
"Venite anche voi, nevvero, camerati?" Codesti
educatori tengono spesso il loro sentimento nel taschino del panciotto, pronti
a distribuirne un po' ora per ora. Ma allora noi non ci si dava pensiero di
certe cose. Ce n'era uno, però, che esitava, non se la sentiva. Si chiamava
Giuseppe Behm, un ragazzotto grasso e tranquillo. Si lasciò finalmente
persuadere anche lui, perché altrimenti si sarebbe reso impossibile. Può
darsi che parecchi altri la pensassero allo stesso modo; ma nessuno poté
tirarsi fuori; a quell'epoca persino i genitori avevano la parola
"vigliacco" a portata di mano. Gli è che la gente non aveva la più
lontana idea di ciò che stava per accadere. In fondo i soli veramente
ragionevoli erano i poveri, i semplici, che stimarono subito la guerra una
disgrazia, mentre i benestanti non si tenevano dalla gioia, quantunque proprio
essi avrebbero potuto rendersi conto delle conseguenze. Per
uno strano caso, fu proprio Behm uno dei primi a cadere. Durante un assalto fu
colpito agli occhi, e lo lasciammo per morto. Portarlo con noi non si poteva,
perché dovemmo ritirarci di premura. Solo nel pomeriggio lo udimmo a un
tratto gridare, e lo vedemmo fuori, che si trascinava carponi; aveva soltanto
perduto coscienza. Perché non ci vedeva, ed era pazzo dal dolore, non cercava
affatto di coprirsi, sicché venne abbattuto a fucilate, perchè alcuno di noi
potesse avvicinarsi a prenderlo. Naturalmente
non si può far carico di questo a Kantorek: che sarebbe del mondo, se già
questo si dovesse chiamare una colpa? Di Kantorek ve n'erano migliaia,
convinti tutti di far meglio nel modo ad essi più comodo. Ma
qui appunto sta il loro fallimento. Erich
Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, Mondadori,
Milano, 1989 24
gennaio TAHAR
BEN JELLOUN Interprete delle mille linee di confine, ma anche incessante costruttore di ponti tra le due sponde del Mediterraneo, quella europea e quella maghrebina, lo scrittore marocchino nato a Fès nel 1944 e da tempo residente in Francia ci propone la figura di un maestro anonimo, di un maestro qualunque. Che in un villaggio nordafricano così insignificante da essere un nulla, un nulla vuoto e tondo come una zucca - metafora di ogni aula da riempirsi di presenze e rapporti esemplari, pena la perdita di sé e degli altri - va in cerca dei suoi alunni che all'apprendimento hanno sostituito per necessità il lavoro sottopagato in una fabbrica di scarpe. Ecco allora che il maestro qualunque, un maestro esemplare, si pone delle domande e soprattutto si pone in ascolto: in questo brano anche di un vecchio saggio, "maestro" pur esso in senso lato, che sa che ad aspettarli, i bambini, sempre ritornano. (a.m.) (...)
Il secondo giorno di scuola, mancano due allievi. Sono
ammalati o si sono persi per strada? Nessuno risponde. Due assenti su trenta
non sono tanti. Verranno domani. In realtà, l'indomani non arrivano. Mancano
altri tre bambini. Mi preoccupo. Non ho un direttore cui rivolgermi. Sono il
maestro, il direttore, il bidello e il guardiano della scuola. Gli
altri bambini non dicono niente. Faccio
lezione nonostante la preoccupazione. Alla fine del mese, mi ritrovo con la
metà degli allievi. Dove sono finiti gli altri quindici?
A
questa domanda, i ragazzi ridono e rispondono una cosa qualsiasi. Decido di
parlarne al capo del villaggio, Hadj Baba. Lo trovo sul tardo pomeriggio sotto
l'albero, circondato da alcuni uomini, sempre gli stessi. Mi dice, scacciando
con la mano le mosche che gli ronzano intorno: "I bambini sono sassi,
rami di un albero che perde le foglie, parole azzurre, scoppi di risa...
vanno, vengono, passano e non lasciano tracce... tutto questo tu che vieni
dalla città dovresti saperlo! Ricordati, non hanno ancora l'abitudine di
andare a scuola con regolarità. Forse, poi, non ti prendono sul serio, sei
troppo giovane, hai l'aspetto di un ragazzo. Per loro, il sapere deve essere
insegnato da un uomo maturo, un anziano con la barba bianca, un uomo che
sappia parlare agli alberi e agli animali. Tu vieni dalla città e hai
dimenticato la realtà del tuo villaggio." "No,
è proprio perché amo il mio villaggio che sono tornato, per rendermi utile.
Ma perché non vengono a scuola?" "Ah!
La scuola! Tu chiami questo rudere una scuola? Non hai neanche una lavagna.
Quanto ai tavoli e alle sedie, aspetta, aspetta pure. Perché questo villaggio
sperduto dovrebbe essere preso in considerazione dalle autorità della città?
Sei ingenuo, figlio mio. E poi, hai visto le condizioni del bestiame? L'anno
scorso tu non c'eri. Non ha fatto una sola goccia di pioggia. Intorno a queste
colline si aggira la morte. Tieni, siediti e guarda il cielo. Se hai pazienza,
imparerai che il cielo è vuoto; non ci riserva nulla di buono. Siamo
maledetti. E in ogni caso, dopo la morte del nostro maestro, il villaggio
continua a morire. Quindi la scuola..." "Ho
una nomina ufficiale per insegnare in questa scuola." "Benissimo,
e quindi? Noi, qui, siamo vittime dell'aridità. L'aridità del cielo e degli
uomini. Perché le persone della capitale non hanno nominato qualcuno per
aiutarci a lottare contro la fame?" "Avete
paura di un'epidemia?" "Cos'è
una epidemia?" "Una
malattia che colpisce tutti." "No,
non è una malattia; guardati intorno, cosa vedi? Sabbia, pietre, un albero,
quello sotto cui siamo seduti; vuoto, vento, polvere, un pazzo che parla da
solo, e poi questa moschea trasformata in
scuola. Ecco tutto. Anche se arriva una malattia, se ne andrà. Non troverà
niente e nessuno da colpire. Questa è la nostra fortuna e la nostra sfortuna.
Moriremo da soli. Non abbiamo bisogno di malattie. Qui le persone muoiono
dormendo. Non si svegliano. Tutto qui. Non te la prendere se i bambini
spariscono; torneranno." Tahar
Ben Jelloun, La scuola o la scarpa, Milano, Bompiani, 2000 1
ottobre LAURA
PARIANI La scuola dovrebbe essere così, fatta di storie, dice la Luisina, dimostrando di essere davvero piuttosto grande, "grandaséla", addirittura saggia, capace di sintesi illuminanti. Una persona saggia, sì, forte della dirompente mitezza dei suoi nove anni. Di questa sua frase noi vogliamo fare una bandiera. E a tutte le signorine Sirena appassionatamente suggeriamo di non mancare mai di avere nella borsa nel cuore nella voce almeno un esemplare di flauto incantatore, un contenitore di parole vive. Potrebbe servire ad acquietare un po' persino i più grandi delle ultime file; e forse l'indiavolare di centoventitre coatti potrebbe trasformarsi nella scoperta della possibilità di rimettere in scena tutti gli anfratti della propria vita, anche dentro a quell'assurdo stanzone altrimenti gremito di intollerabili estraneità. Parola pizza, vurégia drizza. (g.p.) Tutt'a
un tratto il postino del paese appare sulla porta. "Sacranon! Che burdéll
ca gh'è chichinscì?" vusa, sputando per terra. Sarà per il suo vocione
baritonale, o per la sua corpulenza, ché è un faraone d'uomo, comunque tutti
i centoventitré ragazzini la piantano di indiavolare e, in on esüssi, si
rimettono seduti e zitti al loro posto. L'uomo
scuote il capo con aria di rimprovero, mentre posa sulla cattedra una lettera
e un pacchettino avvolto in carta spessa e marroncina. "Chesti fiö-chì
col maèstar ca gh'éa primma a faséan nó 'stu baccanéri. Chi non sa fare,
lasci stare: se voi non riuscite mica a tenere la classe e farvi rispettare,
è meglio che cambiate lavoro". Esce
a grandi passi, non dopo aver lanciato una nuova occhiata torva alla
scolaresca. Alla
signorina Sirena vengono le lacrime agli occhi e finge di soffiarsi il naso
nel suo grande fazzoletto bianco. Confusamente sente che le parole
disperazione e rabbia sarebbero esagerate: la situazione che sta vivendo non
le permette di sapere che sta provando proprio questo. Si rende conto che
dovrebbe sentire compassione nei confronti di questi suoi scolari, e non,
invece, quel senso di ripulsa che le attanaglia la gola. La scuola che lei ha
sognato per tanti anni era fatta di bambini che volevano imparare, che le
portavano ossequiosamente rispetto, che accettavano l'ordine, che non
discutevano le affermazioni dell'insegnante... Ha voglia di fuggire. Si
accorge di essersi strappata pezzettini di pelle intorno alle unghie. A
l'é anmó ul Lipén a rompere il silenzio: "Sciura maestra, l'é che nuiàltar
siamo paisàn", dice, quasi sottovoce. Non è una frase interrogativa la
sua. Per questo la signorina Sirena ne è colpita: dove siete vissuta fino
adesso, che cosa avete fatto, non sapete niente. Che glielo dica un bambino di
otto anni, le fa ancora più impressione. Una
mano le tira l'orlo della gonna e la fa sobbalzare. Si tratta della Luisina:
"Sciura maestra, l'é ca a capìssum nó... I vocali, i consonanti...
chisti-chì inn robi ca sa pödum nó cumpréndi..." Neanche questa è
una frase interrogativa. All'improvviso
la signorina Sirena estrae un libro dalla borsa. Tüti gli öggi dei bambini
sono fissi su di lei. La giovane donna toglie da una piccola busta gli
occhialini, e li inforca. Quelle piccole lenti sembrano rimarcare ancor più
la distanza tra lei e i suoi alunni, farla diventare più maestra. Sfoglia
velocemente il libro, guarda verso gli scolari con uno sguardo serio. "Vi
ricordate la storia di Pinocchio che vi avevo cominciato a raccontare la
settimana scorsa?" e, senza attendere la risposta, inizia a leggere con
voce un po' tremante, quasi soffocata dall'emozione: "Pinocchio
era stato derubato dei suoi quattro zecchini d'oro, sicché preso dalla
disperazione andò difilato in tribunale, per denunziare al giudice i due
malandrini che avevano compiuto il furto. Il giudice era un vecchio scimmione
con una barba bianca e gli occhialini d'oro... In sua presenza, Pinocchio
raccontò per filo e per segno l'iniqua frode di cui era stato vittima; diede
il nome e i connotati dei due ladri e finì col chiedere giustizia". Le
frasi del libro escono dalla bocca della signorina Sirena con un certo timore,
dato che la maestra si rende conto della fondamentale estraneità del racconto
a questo suo uditorio di figli di contadini. Intorno
alla maestra si è comunque fatto un grande silenzio. I visi di tutti sono
immobili, gli occhi fissi sulla maestra, l'espressione assorta, gli orecchi
guzzi per non perdere una parola. La
signorina Barberis, senza osare distogliere gli occhi dal libro, percepisce
un'atmosfera diversa, un'attenzione che la rinfranca un po'. Proprio vero quel
che dicono i viggi: parola pizza, vurégia drizza... Con voce più alta e
sicura prosegue: "Il
giudice lo ascoltò con molta benignità: prese vivissima parte al racconto:
s'intenerì, si commosse: e quando Pinocchio non ebbe più nulla da dire,
allungò la mano e suonò il campanello. A quella scampanellata comparvero
subito due gendarmi..." "Tàj-lì
i püssé bon!" commenta una voce dal fondo dello stanzone. Nei ragazzi
si diffonde una specie di romorìo di congratulazioni per quel che sembra la
buona riuscita del fatto, manco l'avessero suonato loro il campanello. "Allora
il giudice, indicando Pinocchio ai gendarmi", continua la maestra,
soddisfatta dal successo del suo raccontare, "disse loro: "Quel
povero diavolo è stato derubato di quattro monete d'oro: pigliatelo dunque e
mettetelo subito in prigione"". Ul
Tanu ha un moto di stizza: "Chéll sacraméntu!... Gh'è nó giustìzia a
'sto mondu-chì par i puarìtti..." e scrolla il testone ricciuto. "Ma
i gendarmi", chiede stupita la Luisina, "a pudéan nó fà on
quajcoss?" "Segon
cunfùrma", ribatte ul Pecion. "A te sé tróll piscinìna tì par
cumpréndi 'sti robi-chì... I gendarmi ubbidiscono e basta..." "Pinocchio,
sentendosi dare questa sentenza tra capo e collo, voleva protestare", la
voce della signorina Sirena cerca di superare il brusìo suscitato da quel
commento e di ricatturare l'attenzione. "Ma i gendarmi, a scanso di
perditempi inutili, gli tapparono la bocca e lo condussero in gattabùia. E lì
vi rimase quattro lunghissimi mesi. E vi sarebbe rimasto ancor di più, se non
si fosse dato un caso fortunatissimo... Sapete infatti cosa avvenne?" La
maestra ha alzato finalmente gli occhi dal libro. Tutti, anche i più grandi
delle ultime file, pendono dalle sue labbra. Uno stato di esaltazione la
invade e la innalza di fronte a se stessa - allora riescono a capirmi! - per
cui la voce le diventa squillante: "Bisogna
sapere che l'Imperatore che regnava nella città di Acchiappa-citrulli avendo
riportato una gran vittoria contro i suoi nemici, ordinò grandi feste
pubbliche e, in segno di maggior esultanza, volle che fossero aperte anche le
carceri e mandati fuori tutti i malandrini. "Se escon di prigione gli
altri, voglio uscire anch'io", disse Pinocchio al carceriere. Ma quello
gli rispose di no, perché il condono riguardava solo i farabutti..." "Sémpar
inscì la sarà: gli onesti, quéj ca sa cumpórtan pulìdu, inn sémpar legnà..."
sbotta ul Terèsio, uno spilungone di nove anni. "Allora
Pinocchio lo assicurò di essere anche lui un malandrino e il carceriere,
sapete cosa fece?" questa volta è la voce della maestra a essersi
interrotta sul più bello. La signorina Sirena guarda il suo uditorio attento
e silenzioso, sorridendo, felice di aver provocato negli scolari l'attesa del
finale della storia. Gh'é nient da püssé bell da 'na facia cuntenta... "Sciura
maestra, mò 'sa ga sucédi?" chiede la voce della Luisina che non sta più
nella pelle. "Quando
Pinocchio gli ebbe giurato che era proprio un malandrino, il carceriere,
togliendosi rispettosamente il berretto, gli aprì la porta e lo lasciò
uscire!" conclude la maestra, mentre tra le fila dei ragazzi si diffonde
un vocìo generale di soddisfazione. Al Teresio gli ride anche il culo. "Tüti
i gobbi a gh'han ul so drizzu", è il suo commento. Chi
non sembra convinta invece l'é la Luisina: "Ma perché ul carceriere si
leva la berretta?" "Perché
cunt' i scròchi, quelli veri, i malaménti dabòn, si deve star sempre
attenti, can sa sìa..." ride ul Lipén. Come
fanno dei ragazzini così piccoli a dire enormità come queste? La signorina
Sirena è senza parole. Se
ne sono andati tutti. C'è silenzio adesso nello stanzone vuoto della scuola.
La maestra sta seduta sul cassone, la testa tra le mani. Si è afflosciata su
se stessa, in una tristezza che temeva e aveva paura di riconoscere. Si guarda
le scarpe coi tacchi consumati, le calze rammendate fino al polpaccio. Alla
fine scoppia a piangere, presa dallo sconforto. Probabile che stia sbagliando
tutto, questo lavoro è superiore alle mie forze, sospira. Loro non riescono a
capire, e chi ne ha colpa?... Forse son io che non sono adatta a fare la
maestra. Forse si dovrebbe insegnare in un altro modo... Sono parecchie
settimane che è iniziata la scuola e ancora, con quelli della prima classe,
non le è riuscito di andare al di là delle vocali. Un
rumore la fa sobbalzare. In piedi, stringendosi la giacchetta di panno addosso
a mo' di protezione, si guarda intorno impaurita. La Luisina è spuntata fuori
dal nulla, sta lì a tre passi da lei, la faccia dalle ossa sporgenti resa
ancora più affilata dal cerchio di luce della lampada. "Beh,
cos'hai da guardare?" la voce della giovane donna è quasi irosa. Le dà
fastidio che qualcuno l'abbia sorpresa in questo atteggiamento così poco
autorevole. Lei è la maestra, accidenti... "Allora, che vuoi?"
richiede, sciugandosi le lacrime col fazzoletto che si è levata dalla manica
del vestito. Sono da invidiare le persone che non conoscono le situazioni di
imbarazzo di fronte ai bambini... "L'é
staj bell". "Cosa?"
domanda la signorina Sirena, spazientita. "La
storia del Pinocchio... A scöra la duarìa vèss inscì, fatta di stórij..." La
maestra si soffia il naso, guarda il viso della bambina, sospira e allunga il
braccio per afferrare la mano della Luisina; quasi volesse grapparsi a lei per
un po' di conforto. "Allora ti è piaciuta?" domanda. La
bambina fa segno di sì con la testa. "E
cosa ti è piaciuto di questa storia?" incalza la signorina Sirena. "I
paróll..." "Le
parole?!" sbotta la maestra, sorpresa; ché le vien quasi da ridere. La
bambina intanto si è accoccolata davanti al cassone, ha preso tra le mani il
libro da cui la maestra ha letto la storia e lo carezza. "A
génti tame num..." dice la Luisina in un sussurro, "i paisàn,
insomma, a cugnùssan nó i paróll..." "Ma
son qui io per insegnarvele le parole, non capisci? Le parole..." la
signorina si è messa a sedere sul cassone, le mani giunte come in preghiera. "I
paróll inn fàj mìa par i paìsan...A vurì sintì 'na storia, sciura
maestra, ca la me cuntéa sémpar menóna Purtugàla, quandu ca mì a séru
piscinìna?" "Quando
eri piccola?" ride la giovane donna. "Perché adesso cosa sei?" "Mì
a sòm già grandaséla, ci ho nove anni..." risponde seria la Luisina.
"Ma allora, sciura maestra, la vurì sintì 'sta storia, sì o no?"
la voce della bambina è un po' spazientita, certo che questa maestra è un
po' dura di comprendònio. "Certo,
certo... Racconta". Laura
Pariani, Il paese delle vocali, Casagrande, Bellinzona, 2000, pp.
54-62. 9
luglio PELHAM
GRENVILLE WODEHOUSE In questo brano tratto da Jeeves sta alla larga, Bertie Wooster, uno degli scoppiettanti personaggi che più ricorrono nell'eterna commedia di Wodehouse (nato nel 1881 a Guildford e morto a New York nel 1975), viene a sapere che presto incontrerà Aubrey Upjohn, il suo vecchio e inflessibile direttore alla Scuola preparatoria di Malvern House, Bramley-on-Sea. Inutile aggiungere qualsiasi commento, trovandoci qui nel leggerissimo universo degli "allegri cretini" dell'aristocrazia inglese che Wodehouse amava bonariamente fustigare - poiché "con quei cretini era politicamente d'accordo, ma artisticamente in disaccordo", come ha scritto un divertito Lucio Villari nella prefazione di un altro romanzo, Molto obbligato, Jeeves - salvo forse che ben capiamo il sentimento di sconforto del giovane Wooster. Non c'è dubbio, infatti, che a ciascuno di noi sia capitato di incontrare nella sua carriera scolastica almeno un Aubrey Upjohn da dimenticare. (a.m.)
(...)
Ero ancora barcollante sotto questo colpo, quando l'anziana parente me ne
somministrò un altro e fu un colpo da mettermi fuori combattimento. -
E ci sono Aubrey Upjohn e la sua figliastra Phyllis Mills - disse. - Questo è
tutto. Che cos'hai? Ti è venuta l'asma? Compresi
che alludeva all'improvviso rantolo che mi era uscito dalle labbra e devo
confessare che era risultato non molto dissimile dagli ultimi accenti di
un'anatra morente. Ma sentivo di essere assolutamente giustificato a
rantolare. Un uomo più debole avrebbe ululato come uno spirito della morte.
Mi riaffiorò alla mente qualcosa che Aringa Herring mi aveva detto una volta.
"Sai, Bertie" aveva affermato, sentendosi disposto alla filosofia,
"dobbiamo essere molto grati per l'operato della Provvidenza nella nostra
vita, tu ed io. Tuttavia, se il percorso sarà arduo, vi è un pensiero di
base cui possiamo attenerci. Le nubi tempestose possono abbassarsi e
l'orizzonte oscurarsi, possiamo avere un chiodo nella scarpa ed essere
sorpresi dalla pioggia senza ombrello, possiamo scendere a colazione e
scoprire che qualcun altro ha preso il nostro uovo fritto, ma almeno abbiamo
la consolazione di sapere che non vedremo mai più Aubrey Dio-ci-aiuti Upjohnn.
Ricordati sempre questo nei momenti di sconforto", disse e io l'avevo
sempre fatto. Ed ora ecco la canaglia che mi spuntava proprio fra i piedi.
Abbastanza da costringere un uomo dal cuore vigoroso ad interpretare il ruolo
dell'anatra morente. (...) Pelham
Grenville Wodehouse, Jeeves sta alla larga, Mursia, Milano 1989 12
febbraio ANNA
MARIA ORTESE Cosa può lasciare, in dono, un maestro che si appresti a prendere congedo dalla propria funzione? Poco, probabilmente, e non solo perché non abbia guadagnato granché. O, forse, anche, moltissimo: il conseguimento della capacità di provare ed esprimere apertamente sentimenti che muovono sia il riso sia il pianto; emozioni; parole. Ma sarà necessario avere agito - magari anche sgradevolmente - senza rinunciare alla propria composita essenza: severità, stranezze, alterità, malinconie, la convinzione che l'infanzia sia l'aurora del mondo umano. Potrà lasciare parole: magari poche, ma riassuntive davvero del senso della propria presenza nel vasto mondo. E poi la memoria di una voce che faceva pensare alle foreste, alla solitudine, al vento. Un universo, insomma - ovviamente braccato dal potere. (g.p.) In
un villaggio di pescatori non lontano da Kirkenes (Norvegia), un villaggio
veramente molto piccolo e povero, detto Kirk, perché un vero nome non aveva,
c'era una scuola ancora più piccola e povera, proporzionalmente, se
possibile. Una stanzaccia di legno, dove convenivano ogni giorno, provenienti
dalle otto case del villaggio, una ventina di bambine e di ragazzetti: rossi,
biondi e rannicchiati nei loro pellicciotti. Una grossa lanterna, in quelle
nebbiose mattine e quegli oscuri pomeriggi d'inverno, illuminava scialbamente
le pareti di legno della stanzaccia, le cui due finestrine, una sulla strada,
l'altra a ridosso della foresta, e ambedue in parte ostruite da neve e
ghiaccio, mostravano ora un bianco paesaggio, oppure le stelle del mattino. Al
di là del villaggio c'era il mare, e benché non si vedesse, là convergevano
i pensieri dei più vivaci e sognatori fra quei ragazzi, i cui nonni e padri
erano, da infinite generazioni, marinai e pescatori di aringhe. Due di questi
ragazzi, Vardo e Gamik, di dodici e tredici anni, erano molto amici tra loro,
e amavano, come molti norvegesi, le storie fantastiche. C'è da aggiungere
che, essendo anche due ragazzi moderni, non ci credevano. Tuttavia ne
parlavano. "Vuoi
vedere" disse un giorno Vardo, ch'era il più smaliziato, a Gamik
"che una volta o l'altra ci mandano qui, come supplente, Sveig in
persona?". E
giù a ridere. Sveig
era il nome leggendario di un orso altrettanto leggendario, e lo scherzo
valeva perché l'attuale unico maestro della scuola, il signor Orso Sulitjema,
da tempo sofferente di reumi, e comunque in cattiva salute, già sembrava, a
parte quel ridicolo nome, un autentico orso. A
queste parole, il signor Sulitjema che quella mattina sembrava più triste e
imbronciato del solito, cacciò, per così dire, il muso fuori dal suo grosso
pellicciotto che mai si toglieva, e sollevando appena un po' gli occhiali a
stanghetta sul naso rotondo, borbottò: "Si
può sapere, Vardo e Gamik, cos'è questo disprezzo per gli orsi?". Vardo
e Gamik non risposero nulla. Allora,
il malinconico signor Sulitjema, dopo essersi tolti, dagli occhi cespugliosi,
gli occhiali, e averli puliti in un gran fazzoletto turchino da marinaio, e
avere un po' tossito (o forse borbottato), annunciò, con una voce calmissima
e assai dolce, che gli allievi non gli conoscevano: "Ragazzi,
i vostri colleghi" chiamava spesso così, solennemente, i suoi ragazzi
"Vardo e Gamik, presupponendo l'eventualità (non lontana) di un
supplente che sostituirebbe il vostro detestato maestro, hanno detto
casualmente la verità. Questo, voglio dire, è infatti l'ultimo giorno che ci
tratteniamo insieme in questa classe, dove ci siamo sforzati di aprendere
qualche nozione utile alle vostre giovani menti. Domani non verrò più. Un
vero maestro (la sua voce suonò vagamente ilare) è in questo momento già in
viaggio nella nebbia. E lui, da domani all'alba, mi sostituirà". Un
lungo oh di meraviglia, interrotto da qualche risatina, accolse le inattese
parole del signor Sulitjema. Nello stesso tempo, molte sciarpe azzurre
volarono per aria, e molti bambini e bambine saltarono per la gioia sui
banchi. Erano cresciuti liberamente, e non avevano falsi pudori dei loro
sentimenti. Il maestro li osservò senza, apparentemente, alcuna espressione
di rimprovero o di pena. Sotto il suo aspetto strambo e severo egli aveva una
vera e illuminata religione dell'infanzia e gioventù, che considerava
l'aurora del mondo umano. Aspettò quindi che si calmassero, poi, preso un
altro fazzoletto, questa volta rosso, da contadino, dalla tasca destra del
pellicciotto, e soffiatosi il naso, e asciugatosi un po' l'occhio sinistro che
gli lacrimava, proseguì: "Figli
miei, permettetemi di chiamarvi così, mi rallegro di vedervi in buona salute,
cioè capaci di ridere del vostro vecchio Sulitjema. Ciò significa che la mia
severità non vi ha affatto tormentati. Come sapete, non ho guadagnato molto
insegnando per cinque anni in questa scuola, e adesso che sto per lasciarvi
non posso quindi, come vorrei, farvi un regalo. Mi dispiace". Queste
parole mansuete e amorevoli non erano proprio insolite sulla bocca del signor
Sulitjema, ma questa volta, avendo fatto seguito alla loro risata, ed essendo
pronunciate in quelle particolari circostanze, colpirono l'animo dei ragazzi.
Subito un religioso silenzio, quasi malinconico, colmò l'atmosfera dell'aula. "Vi
lascerò quindi, come solo regalo, le parole del vostro vecchio maestro, di
Orso Sulitjema, sempre state alla base di tutti i suoi insegnamenti. Le
ricordate? "Primo:
non badate molto alle apparenze, cioè non giudicate gli uomini dal loro pelo
o, al contrario, dai loro sontuosi vestiti. Secondo: non giudicate la Natura
tanto silenziosa e fredda, e soprattutto obbligata a sfamarvi, come finora
hanno fatto i vostri coraggiosi padri. No, figli miei: la Natura ha occhi e
orecchie più di quanto voi intendiate. E... forse non ci crederete, essa vi
ama. Onoratela e vogliatele sempre il più gran bene possibile: non vi mancherà
mai nulla su questa terra, e quando, dopo una lunga vita felice chiuderete gli
occhi, sarà solo per riaprirli su una terra e un mare più belli: e uccelli e
orsi, non maestri e capi di Stato, uccelli e orsi e altri animali che avrete
amato, essi soli vi accoglieranno e, se del caso, giudicheranno". Chissà
perché, a queste parole, veramente sbalorditive, l'intera classe del signor
Sulitjema scoppiò in lacrime. Fu
un momento di grande tumulto, anche Vardo e Gamik piangevano. Quasi
contemporaneamente una slitta si fermò davanti alla porta, e invece del
supplente ne scesero due funzionari della Guardia Forestale con un viso
preoccupato. Chiesero ai ragazzi dove fosse il signor Sulitjema, ma egli non
c'era più: rotto un vetro della finestrina che dava sulla foresta, era
fuggito via. Vi
fu un'inchiesta e tutti i giornali ne parlarono. I ragazzi eccitati asserivano
che l'accusa della polizia non si reggeva: il maestro non era affatto un
autentico orso patito per l'insegnamento ai figli degli uomini., ma
semplicemente un buon uomo un po' strano e pieno di malanni, e, soprattutto -
dicevano - "parlava di cose che c'interessavano, con una voce - questo è
vero - che faceva pensare alle foreste, alla solitudine, al vento". Ma
perché, in questo caso, era fuggito rompendo un vetro? Non
si seppe mai. In realtà, questo mondo è pieno di cose strane e belle, purché
uno non abbia la superbia di voler capire tutto. E i venti bambini della
scuola di Kirk, questa superbia, fortunatamente, non l'avevano. Rimasero
molto legati al ricordo del loro Sulitjema, e talvolta, quando ancora con le
stelle giungevano a scuola, gli sembrava di scorgerlo dietro la cattedra,
mentre respirava un po' affannosamente, asciugandosi gli occhiali, o il naso,
con due fazzoletti di eccezionali proporzioni: uno rosso come la vita e uno
azzurro come i cieli che splendono su questa vita. Anna
Maria Ortese, In sonno e in veglia, Adelphi, Milano, 1987, pp.
147-152. 2
marzo ERODA Dobbiamo al poeta greco Eroda, vissuto presumibilmente a Coo nel terzo secolo avanti Cristo, questa scenetta popolare assai lontana dai più vasti respiri del grande mimografo Teocrito, a lui contemporaneo. Istigato dalla massaia Metrotima che non riesce ad averla vinta su suo figlio Cottalo, il maestro di scuola si arma di coda di bue, il nerbo sodo, ma senza alcun successo: cosa che la dice lunga, anche in termini storici e cronologici, sulla vacuità delle punizioni corporali e sulle eterne dinamiche tra maestri e Gianburrasca di turno, antelitteram compresi. La versione che qui proponiamo è un adattamento di quella che Giovanni Setti pubblicò nel 1893, traducendo in prosa questo mimo che Eroda compose in versi giambici (e che quindi è propriamente un mimiambo), con un irresistibile piglio toscano. (a.m.)
Il
maestro di scuola PERSONAGGI: LAMPRISCO,
maestro METROTIMA,
madre di Cottalo COTTALO,
scolaro EUTIA,
COCCALO, FILLO, scolari compagni di Cottalo METROTIMA:
Che le dolci Muse ti dieno, o Lamprisco, di gustar un po' di bene nella vita!
Ma a costui gli hai a scorticare il groppone, fin che l'animaccia sua non gli
venga proprio sulle labbra. Tutta la casa m'ha messo sossopra giocando a pari
e caffo; ché i dadi non gli bastano più, o Lamprisco: e la faccenda ormai si
va a far grossa. Dove stia di casa il maestro di scuola, che il trenta d'ogni
mese (e son dolori!) vuol la mesata, non gli caveresti di bocca, anche se
versassi tutte le lagrime di Nannaco. Ma il ridotto dello sciopero, ove si dan
convegno i facchini ed i monelli, quello, si, lo sa insegnare anche agli
altri. E quella povera tavoletta, ch'io m'arrabatto ad incerare tutti i mesi,
se ne giace là abbandonata davanti allo stramazzo, alla colonnina della
parete. E se pure, sbirciandola di traverso come se fosse l'Orco, la piglia in
mano, non la piglia per scrivervi su qualche bella cosa, ma per raschiarla
tutta quanta. Le gazzelline intanto se ne stanno nei mantici e nelle reticole
unte e bisunte più dell' ampolla che ci serve a tutto. Una "a" dal
"b" non lo sa distinguere, se non gli voci cinque volte la stessa
cosa. L'altro giorno, mentre suo babbo si sfiatava a farlo leggere, di un
Marone fece un Simone questo bel tomo: tanto che io mi dètti della citrulla,
io che, invece di mandarlo a pascere i somari, lo tiro su nell'abbicci con
l'idea di farmene il bastone della vecchiaia! Se io o suo padre (povero
vecchio, mezzo sordo e mezzo cieco) gli diciamo di recitare qualche pezzo,
come si fa coi ragazzi, allora bisogna vederlo...: par che sgoccioli da un
colino. "O Apollo dei campi! questo" gli dico io "anche la
nonna, poveretta, ti saprà recitare, essa che non sa di lettere, od un Frigio
qualunque". Se poi ci piace di borbottare anche un po' più forte, ecco
per tre giorni non rivede la soglia di casa, ma scappa da sua nonna, e
tormenta quella vecchia e povera donna...; oppure monta sul tetto, e se ne sta
lassù, dinoccolato, con le gambe penzoloni, come uno scimmiotto. Ci pensi tu,
come si debbano rimescolare le viscere in corpo a me, disgraziata, quando lo
veggo? E non discorro tanto di questo: ma mi fracassa tutte le tegole, come se
fossero stiacciate; e come si avvicina l'inverno, tocca a me a disperarmi ed a
pagare ogni rottura un obolo e mezzo. Ad una voce tutto il casamento grida:
"Queste sono le prodezze di Cottalo, il figliuolo di Metrotima"; ed
è la verità, che non fa una grinza. Mira, in che modo s'è fatta tutta
lividi la groppa scorrazzando pel bosco: pare un di que' pescatori di Delo,
che sul mare trascinano la vita melensa! Però il sette ed il venti1 li sa
meglio degli strolaghi; e non piglia neppur sonno al pensiero di quando voi
fate vacanza. Ma se coteste dèe costì2, o Lamprisco, ti dien del bene e ti
consentono una opera buona... LAMPRISCO:
Non stare, o Metrotima, a scongiurare per lui: ché non avrà meno di quel che
deve avere. Dov'è Eutia? Dove Coccalo? Dove Fillo? Non vi spicciate a
pigliare costui in groppa, poltroni, che tirereste in lungo la cosa sino alle
calende greche? Faccio onore ai bei fatti, Cottalo, che tu fai. A te non basta
più giocare alla buona con le tessere, come fanno gli altri; ma ti ci vuole
il ridotto e il gioco del soldo tra i facchini. Ora io ti vo' rendere più
ammodo d'una fanciulla: tale, che non moveresti una foglia, anche se te ne
spirassi! Qua il nerbo sodo, la coda di bue, con cui concio di santa ragione i
riottosi ed i perversi... Presto, qua: prima che io abbia vomitato la mia
bile! COTTALO:
No, ti supplico, Lamprisco: per coteste Muse, e per la tua barba, e per
l'anima di Cottide; non mi conciare con quella soda, ma con l'altra... LAMPRISCO
Ma tu se' un briccone, o Cottalo: tanto, che non ti decanterebbe pur un
rivendugliolo; neanche nel paese ove i topi rosicchiano persino il ferro. COTTALO:
Quante, quante... Lamprisco... ti supplico... me ne fai dare? LAMPRISCO:
Non lo domandare a me, ma a costei (accennando alla madre). Piff, paff!
(picchia). COTTALO:
Quante, dico, se t'ho a campare? LAMPRISCO:
Quante ne reggerà la tua pellaccia. COTTALO:
Smetti... bastano, Lamprisco! LAMPRISCO:
E tu smetti le tue birbanterie... COTTALO
Non lo farò più, più... te lo giuro, o Lamprisco, per le care Muse! LAMPRISCO:
Ohè tu, che parlantina che tu hai... Ti appiccicherò subito il bavaglio, se
più oltre borbotti... COTTALO:
Ecco, sto zitto... Ma ti prego, non mi ammazzare! LAMPRISCO:
Lasciàtelo, Coccalo. METROTIMA:
Non hai a smettere, Lamprisco. Ma rèbbialo ben bene, fin che il sole vada
sotto... LAMPRISCO:
Peraltro la cotenna l'ha più screziata d'una tarantola... METROTIMA:
E deve buscarne, proprio mentre è chinato sul libro... il disutilaccio...
altre venti, per lo meno: anche se leggerà più spedito della COTTALO
(che è riuscito a fuggire): Issssch! METROTIMA:
Che senza accorgertene tu non abbia tuffato la lingua... nel miele! Corro
subito a casa a dirlo di proposito, o Lamprisco, al mio vecchio; e ritornerò
con dei ceppi, perché lo mirino qui a saltellare con quelle collane ai piedi
le dee venerande, che egli ha in uggia. Adattamento
della traduzione di Giovanni Setti, in Scene greche scoperte in un
Papiro egizio conservato nel British Museum, E. Sarasino ed.,
Modena, 1893 10
giugno BRUNO
SCHULZ Bruno Schulz fu ucciso il 19 novembre 1942, con due colpi di pistola, in strada, da un nazista. Aveva cinquant'anni. Fino ad allora aveva pubblicato due libri, Le botteghe color cannella e Il Sanatorio all'insegna della clessidra: racconti che non vanno oltre le duecento pagine ma sono riusciti a far dire a I.B.Singer che in alcuni di essi Schulz riesce a essere più grande di Kafka. Si è favoleggiato a lungo, e si continua ancora, a proposito di un suo mai ritrovato romanzo, Il Messia; in ogni caso scrisse poco, ma David Grossman ha detto: "Schulz che scrive un intero romanzo? Dovrebbero cucirne insieme le copertine per evitare che trabocchi nella notte. La vita esplode in ogni pagina scritta da lui. Improvvisamente la vita diventa degna del suo nome: un'immensa battaglia, intrapresa simultaneamente con ogni strumento del linguaggio a tutti i livelli del conscio e dell'inconscio, del sogno sfumato e dell'incubo". Per quindici anni Schulz insegnò disegno e attività manuali (nel ginnasio e nella scuola elementare, per completare l'orario), vessato da problemi burocratici e umiliazioni. La scuola gli stava davvero stretta, portandolo ad affermare in una lettera del 1934 che "questa professione mi è venuta a schifo fino al vomito". (g.p.) Drohobycz,
2 dicembre 1934 a
Tadeusz Breza Caro
Signore! Desidero
ringraziarLa di cuore per la lettera e informarLa che ho letto la Sua
relazione sul Rocznik Literatury, di cui Lei non mi scrive, nella quale mi
colloca fra gli esponenti di primo piano dell'annata letteraria. Reputo un
atto di grande coraggio schierarsi così senza compromessi, con tutta la
propria persona, a fianco dei propri amici d'idee, assumere su di sé la
responsabilità delle proprie simpatie ideali. Sono commosso e riconoscente.
Questa solidarietà da parte delle persone che mi sono vicine mi risolleva
dalla mia depressione. Sono molto depresso: le ferie, sulle quali contavo
molto, non mi sono state concesse. Rimango a Drohobycz, a scuola, dove questa
marmaglia si farà beffe dei miei nervi. Perché bisogna dire che i miei nervi
si sono dispersi fulmineamente per tutto il laboratorio di lavori manuali, si
sono estesi per il pavimento, hanno tappezzato pareti e avvinto con un fitto
intrico le officine e l'incudine. Scientificamente questo è un fenomeno
famoso di un certo tipo di telecinetica, in virtù della quale tutto ciò che
avviene nelle officine, nelle piallerie, ecc., in certo modo avviene sulla mia
pelle. Grazie a questa rete di segnalazione così eccezionalmente sviluppata,
sono destinato a fare l'insegnante di lavori manuali. Se
proprio ormai dobbiamo scambiarci i segreti disturbi di cui siamo afflitti, Le
confiderò una certa malattia che mi perseguita, e che pure riguarda il tempo,
anche se si differenzia dalle manifestazioni di diarrea gastrica che Lei mi ha
descritto parlando di sé. Il Suo apparato digerente lascia passare il tempo
troppo facilmente, è incapace di trattenerlo in sé - il mio si distingue per
una paradossale schifiltosità, è dominato dalla idée fixe della verginità
del tempo. Come per un qualunque Rajà dall'anima melanconica e insaziabile,
ogni donna che sia già stata carezzata dallo sguardo di un uomo - è ormai
deturpata e degna soltanto di un capestro di seta, così per me il tempo, sul
quale qualcuno ha avanzato una pretesa, al quale ha fatto la minima allusione
- è già corrotto, andato a male, non commestibile. Quanto al tempo non
sopporto i rivali. Essi mi rendono disgustoso il pezzetto che hanno palpato.
Non sono capace di dividere il tempo, non riesco a nutrirmi dei resti lasciati
da qualcuno. (Gli innamorati gelosi fanno uso di questo stesso vocabolario.)
Quando ho da preparare la lezione per il giorno dopo, comprare all'emporio i
materiali di legno - l'intero pomeriggio e la sera sono per me ormai persi.
Rinuncio agli avanzi del tempo con nobile alterigia. Tutto - o nulla - è il
mio motto. E dal momento che ogni giorno di scuola è profanato in questo modo
- vivo in orgogliosa astinenza - e non scrivo. In questo rigore senza
compromessi vive una certa mentalità feudale. Come la pensa Lei, si può
allevare, impinguare, coltivare questa efflorescenza di cavalleria? Inoltre
La informo che probabilmente verrò per le feste a Varsavia, dove ho
intenzione di trascorrere le vacanze di metà anno. Lei ci sarà? Mi rallegro
molto dell'incontro. Accludo parole di stima e di calda simpatia Bruno
Schulz P.S.
Mi può indicare qualche abitazione a basso prezzo in Varsavia? Bruno
Schulz, Lettere perdute e frammenti, a c. di Jerzy Ficowski, tr. di
Andrzej Zielinski, Feltrinelli, Milano, 1980. 28
agosto JEAN
DE LA FONTAINE Jean
de la Fontaine (1621-1695), trovò probabilmente l'ispirazione per
questa favola che appare nella prima raccolta pubblicata a Parigi
nel 1668, più che nella similare versione esopica conosciuta con il
titolo Il ragazzo che faceva il bagno (che secondo alcuni era
sconosciuta nella Francia del Seicento), in un brano del Gargantua e
Pantagruele di Rabelais, laddove frate Gianni minaccia i suoi
compagni di viaggio di lasciarli annegare nel fiume, tenendo loro
"un bello e lungo sermoncino de contemptu mundi et fuga saeculi".
Il maestro di scuola qui fustigato per la sua "burbanza
magistrale" - nell'originale appellato anche con il più
generico termine di magister -, è uno dei 123 personaggi umani che
La Fontaine inserì direttamente nelle sue favole, senza sostituirli
con le figure vicarie degli animali. (a.m.) Il
Ragazzo e il Maestro di Scuola Racconto
questa per mostrar d'un tale la
stupida burbanza magistrale. Un
Ragazzo, giocando al fiume in riva, cadde
nell'acqua e forse vi periva, se
non avesse un salice afferrato che,
dopo Dio, lo tenne sollevato. Mentre
nell'acqua ei sta fino alla gola, viene
a passare un maestro di scuola. -
Aiuto, aiuto! - grida quel che annega. Il
maestro si ferma, e a lui che prega, con
una voce burbera e nasale, gli
somministra questa paternale: -
Ah scimunito, ah sciocco, ah babbuasso! Guarda
dove si caccia il satanasso. Andate
pure a prender dell'affanno per
questi tristi, oh sì, che vi faranno morir
tisici! ah poveri parenti a
cui tocca di questi malviventi! Ah
i tempi tristi, oh i figli traditori... -. E
quando ebbe finito, il tirò fuori. Quanti
non sono al mondo altri pedanti e
brontoloni e critici ignoranti, razza
dotta più in chiacchiere che in scienze, che
Dio conserva a nostra dannazione! In
ogni cosa, a torto od a ragione, bisogna
ch'essi sputino sentenze. Prima
di pena tirami, se puoi, il
bel discorso lo udiremo poi. Jean
de La Fontaine, Le favole - Traduzione in versi del prof. Emilio De
Marchi., Milano, Sonzogno, 1885 8
aprile ROBERT
WALSER Robert Walser conosceva molto bene la scuola, e ne ha scritto reiteratamente. La conosceva, ma soprattutto sapeva guardarla, con sguardo limpidamente impietoso. In un altro dei "temi di Fritz Kocher" (del 1903) ha parlato de La professione: "Di fare il medico non ho voglia, per fare il parroco non ho attitudine, per fare il giurista non ho la pazienza, e quanto a fare l'insegnante... piuttosto la morte. I nostri professori, come minimo, sono tutti infelici, lo si vede. Vorrei fare il guardaboschi". (g.p.) Tema
libero Questa
volta, ha detto il professore, potete scrivere quello che vi viene in mente.
Per esser sincero, non mi viene in mente nulla. Io non amo questo tipo di
libertà. Mi piace essere legato a un argomento stabilito. Sono troppo pigro
per escogitare qualcosa. E poi cosa potrebbe essere? Io scrivo su tutto con lo
stesso piacere. Ciò che mi attrae non è cercare un determinato argomento, ma
scegliere parole raffinate, belle. Da un'idea posso formare dieci, anzi cento
idee, ma non mi viene in mente un'idea centrale. Che so, scrivo perché trovo
bello riempire così le righe di lettere aggraziate. Il "che cosa"
mi è del tutto indifferente. - Ecco, ho trovato. Cercherò di dipingere un
ritratto dell'aula scolastica. Non lo si è mai fatto. Il voto
"ottimo" non mi può sfuggire. - Quando alzo la testa e guardo al di
sopra delle molte teste degli scolari, senza volerlo devo mettermi a ridere.
È così pieno di mistero, così strano, così singolare. È come una dolce
favola sussurrata. L'idea che in tutte quelle teste ci sono pensieri alacri,
saltellanti, frettolosi, è abbastanza piena di mistero. Forse proprio per
questo motivo l'ora di composizione è la più bella e la più allettante. In
nessun'altra ora si è così silenziosi, così raccolti e ognuno lavora così
tranquillo per sé. È come se si sentisse il pensiero sussurrare piano,
muoversi piano. È come l'andirivieni di piccoli topolini bianchi. Ogni tanto
una mosca si alza in volo e poi si abbassa piano su una testa, per darsi al
buon tempo su un capello. Il professore sta seduto alla sua cattedra come un
eremita in mezzo alle rocce. Le lavagne sono imperscrutabili laghi neri. Le
scalfitture su di esse sono la schiuma bianca delle onde. L'eremita è tutto
assorto in meditazioni. Nulla lo tange di ciò che accade nel vasto mondo,
vale a dire nell'aula scolastica. Ogni tanto si gratta fra i capelli con
voluttà. So quale voluttà è grattarsi fra i capelli. Il pensiero ne viene
infinitamente stimolato. Certo non è particolarmente bello a vedersi, ma
amen, non tutto può sembrare bello. Il professore è un uomo piccolo, debole,
mingherlino. Ho sentito dire che gli uomini così sono i più intelligenti e i
più dotti. Può essere vero. Quanto al professore ho la ferma convinzione che
è immensamente intelligente. Io non amerei portare il carico delle sue
conoscenze. Se ciò che ho scritto è sconveniente, si consideri che è parte
essenziale della descrizione dell'aula. Il professore è molto irritabile.
Spesso diventa furioso quando uno scolaro gli infligge la sua ignoranza.
Questo è un errore. Perché agitarsi per una cosa così futile come la
pigrizia di uno scolaro? Ma in verità, ho un bel parlare. Se io fossi al suo
posto, forse mi comporterei in modo ancora più sconsiderato. Bisogna avere
delle doti particolari per fare il professore. Mantenere sempre la propria
dignità davanti a dei bricconi quali noi siamo, richiede una grande
padronanza di sé. In complesso il nostro professore si domina bene. Ha un
modo di raccontare raffinato, intelligente, cosa che non si può mai
abbastanza apprezzare. È vestito con grande accuratezza, ed è vero, spesso
noi ridiamo alle sue spalle. Le spalle hanno sempre qualcosa di ridicolo. Non
ci si può far nulla. Porta degli stivaloni come se venisse dalla battaglia di
Austerlitz. Questi stivali, che sono così grandiosi e ai quali mancano
soltanto gli speroni, ci danno molto da pensare. Gli stivali sono quasi più
grandi di lui. Quando è in collera li batte sul pavimento. Non sono
particolarmente contento del mio ritratto. Robert
Walser, I temi di Fritz Kocher, tr. di Vittoria Rovelli Ruberl,
Adelphi, Milano, 1978, pp. 35-37 24
settembre GIACOMA
LIMENTANI Si parla spesso di "cattivi maestri", ma non sempre a proposito. Sì, perché il ricorso a questa categoria avviene quasi soltanto per indicare chi si sia fatto promotore di percorsi culturali e politici di varia eclatante malvagità. Non intendiamo certo qui dire che essi non esistano: esistono, e sono in gran numero. Ma coloro di cui parla Giacoma Limentani nella sua limpida narrazione di domande vanno ben oltre costoro, e sono legioni. Non sempre appariscenti, anzi spesso camuffati sotto spoglie dimesse, procedono imperturbabili, imbottiti di guanciali e in sonno e in veglia, mai turbati da insonnia. Ricchi delle meraviglie della notte, gli insonni di tutto il mondo non hanno da perdere che le loro catene. (g.p.) Il
cattivo maestro impone verità universali, eterne e inoppugnabili come il
fatto che di giorno è giorno e di notte è notte. Cosa pensano però di
simili verità gli abitanti di quella parte del mondo opposta ai luoghi in cui
il maestro insegna, dove scende la notte quando in casa sua fa giorno? Gli
insonni poi, che fanno di notte giorno e viceversa, non possono certo seguirlo
ciecamente. Sarà
l'insonnia, ispiratrice di dubbi, a renderli guardinghi? Giacoma
Limentani, L'ombra allo specchio, La Tartaruga, Milano, 1988. |