Una specie di fiaba   da Linea d'Ombra annata 1989

                                                                                                           

Il nuovo feticcio del bambino cognitivo

 

Ormai si chiude, il secolo. E ne ha visti cadere, di miti e di mode, di fasti e di gesti, di ruoli e di voci, che magari a loro tempo sembravano eterni. Eppure qualche cosa, e non delle migliori,  sembra piuttosto intenzionata a sopravvivergli. Più d'una, ma qui voglio dirne una sola.

Proprio nel 1900, quando nasceva il secolo, Rilke scriveva le Storie del buon Dio (ripubblicate ora nella TEA, nella traduzione di Vincenzo Errante e con una bella introduzione di Fabrizia Ramondino), e in una aveva messo un maestro che "diceva, aggiustandosi di continuo gli occhiali sul naso: 'lo non so chi abbia raccontato questa storia ai bambini. Ma ha fatto, comunque, malissimo a sovraccaricare e a tendere la loro fantasia con

 simili mirabolanti invenzioni. Si tratta d'una specie di fiaba...' " Questo nel 1900. Oggi, quando il secolo chiude, è ancora così. Largamente. Certo, con vari distinguo e varie eccezioni, però largamente così. Tra i tanti di oggi che sono così alcuni lo sono per perfidia e paura; altri invece lo sono con un bell'animo lieto tutto impregnato dell'ultimo culto - ch'è un modo comunque di avere paura. Da riviste, convegni, università, IRRSAE, case editrici, sedi di partito, sindacati, si strilla con concitazione: "Basta con l'educazione! Primato dell'istruzione! Viva il bambino cognitivo!". Qualcuno è solamente in buona fede, giusto perché s'è accorto che i vecchi programmi della scuola elementare parlavano di qualcosa che proprio non esiste: Il bambino tutto intuizione, fantasia, sentimento. Altri in fede non altrettanto buona. A mancare è invece, chi abbia il coraggio di dire che si tratta d'un altro prodotto del fertile ventre dell' impero, eppure non sono pochi coloro che dovrebbero sapere - ma forse aveva davvero ragione Pasolini nel suo Gennariello (in Lettere luterane, Einaudi, 1976) quando parlava della "invincibile ansia di conformismo".

Il segno è lo stesso che caratterizzava l'idea del bambino tutto intuizione, fantasia, sentimento: schematizzazione riduttiva, nel migliore dei casi; ideologia, falsa coscienza, comunque. Ma i bambini, per loro fortuna - e per quella di tutti - sono un po' più variegati, e dentro questi schemi non ci stanno. Forse ci sta il Bambino, ma i bambini veri no, perché sono fatti anche di fantasia, ragione, riflessione, sentimento, corpo, passioni. E tutti in misura diversa, perché intervengono in loro - così è per tutti - mille cose. E ci sono quindi bambini ricchi e bambini poveri; bambini assediati e bambini abbandonati; quelli che hanno la colf e quelli che hanno l'assistente sociale; alcuni hanno dei fratelli, altri dei televisori, altri fame, altri la puzza sotto il naso. E così ci sono bambini tristi, allegri, noiosi, antipatici, saggi, saccenti, arguti, crudeli, teneri, costruiti, affettuosi, spontanei, ricci, estroversi, fantasiosi, appassionati, silenziosi, cocciuti, parolai, simpatici... - ognuno può proseguire, basta guardarsi intorno.  

La rivendicazione "tecnicistica" a me pare una spia significativa d'una crisi e di un vuoto; ma la necessità di fare fronte a un vuoto non dovrebbe portare semplicemente a cercar di coprire il buco, quanto piuttosto a cercare di trovare un rimedio vero, di riempire il vuoto con il quanto di meglio - il meglio di sé, della propria storia. E quindi innanzitutto con le proprie passioni e le proprie storie. Succede invece che, in assenza di un progetto sociale ed esistenziale, si mettano pezze, e magari anche di raffinata eleganza, di suggestiva forbitezza, scientificamente (?) fondate. Allettanti, quindi, ma pezze, nient' altro che pezze; che puzzano, in ogni caso, d'ansia di conformismo, d'ansia di potere e consenso.

Nelle Storie del buon Dio la "dimensione pedagogica" è insistita: Rilke le dedicò alla pedagogista Ellen Key; contengono diversi bambini; riferiscono a più riprese del fatto che i bambini quelle stesse storie le hanno risapute, trasmesse, capite, apprezzate, cambiate, amate, vissute; avevano come sottotitolo "Ai grandi perché le raccontino ai bambini". Fabrizia Ramondino, nell' introduzione, interrogandosi sul senso di quel sottotitolo, scrive: "Alla luce anche delle numerose critiche di Rilke alla scuola e alla pedagogia del suo tempo (e, a mio avviso, del nostro), io lo intendo così: solo i grandi che hanno mantenuta viva in sé la rivelazione di Dio, che come tutti i bambini hanno ricevuto nell'infanzia, anche se non sapevano che era lui, saranno in grado di raccontare storie ai bambini, cioè di aiutarli a crescere; e mantenere viva in sé questa rivelazione altro non significa che disseppellire il bambino che è in loro." Raccontare storie ai bambini, cioè aiutarli a crescere, aiutarli a imparare a vivere - e che raccontare sia essenziale per vivere lo si impara per esempio anche da Shahrazàd, che, per mille e una notte, salva la propria vita raccontando.

Vivere, crescere. Non: sopravvivere; non: trascinarsi; non: adagiarsi all'esserci consentendo comunque. Vivere e crescere - cambiare, quindi; magari guardando e prendendo in mano il Qui, per progettare un Altrove che non si trovi altrove ma sia qui, che sia il Qui trasformato. Allora però è necessario che dietro il raccontare, prima del raccontare, ci sia qualcosa di enorme, come il senso stesso della propria esistenza. Una passione vera, almeno, che muova ed accompagni - che perseguiti, forse; che non lasci respiro al respiro affannoso, all'arrancare, e che aliti invece il proprio respiro ampio. Si può chiamare amore, dolore, Dio ­ ognuno ha la propria storia -; non è il nome che conta, quel che è essenziale è che la rivelazione ci sia e sia mantenuta viva e alimentata: con passione, con disponibilità a stupirsi e a rinnovare lo stupore.                   .

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Si oscilla spesso - maestri, genitori - tra due modi di porsi in rapporto ai bambini. Da una parte sta la schiera dei burrosi che, in un' orgia di diminutivi e leziosaggini, 

   bamboleggiano tristamente e ridicolmente e comprimono i bambini in un preteso "mondo dell'infanzia" intollerabilmente falso; dall' altra sta l'armata dei seriosi pontefici, torrenziali e cupi elargitori di sentenze che non sanno vedere altro che sé -  un sé imperiale, invasore, cui l'altro deve solo assoggettarsi. Eppure l'infanzia è un tempo non eludibile della vita di ogni uomo e dovrebbe essere considerata come tale. E si dovrebbe acquisire come qualcosa ben  provvista di senso quella che solo apparentemente è una sciocca tautologia: i bambini sono bambini. Questo, però, avviene soltanto raramente: tra i due blocchi valoriali e comportamentali costituiti da pigrizia-cinismo-razzismo da una parte e conoscenza-solidarietà-apertura dall'altra, è oggi sempre il primo a prevalere. Eppure, davvero, i bambini sono bambini e nient'altro. Non sono adulti; non sono piccoli adulti; sono solo (solo?) esseri umani che percorrono un tempo specifico del loro essere, camminando camminando, esseri umani. E questo loro tempo specifico è un tempo in cui i confini tra quel che si vuole e quel che si respinge sono davvero netti, e maggiori che in ogni altro tempo sono la permeabilità e la disponibilità, grandi almeno quanto lo è la severità nel giudicare. Chi fosse disposto a accantonare pregiudizi, cecità e intenti colonialistici vedrebbe che i bambini sono tutt'altro che impermeabili e impenetrabili; si potrebbe anzi dire che siano in generale piuttosto spalancati e spugnosi, pronti a lasciarsi riempire e impregnare _ con ingordigia, anche, avidi di tutto. Per le "rivelazioni" è un tempo in cui la luna è nella fase giusta. È dopo, è dopo aver avuto che rigettano, che espellono il superfluo e il flaccido, l'informe; è dopo che lasciano cadere le aperture, che la spugna rinsecchisce e s'aggrinza.

 "Vivere è una faccenda molto pericolosa", dice ripetutamente il narratore di Grande sertao di Guimaraes Rosa; e lo si scopre tutti" e non solo per gli inevitabili inciampi nelle insidie, nei trappoloni biologici e storici, più e più volte. Anche i bambini. Malattie, sbucciature, ferite, schiaffi, sgridate, maniglie irraggiungibili, silenzi; e poi il buio, la pioggia, l'arrivo di un fratello che si ruba la mamma, e la biglia caduta nella grata, l'amico che non viene, le figurine perse, la paura, le strade impraticabili, minacce di vicini, amici che ti "staccano la pace", parole inascoltate, solitudini, complicità negate. La congiura di natura e cultura comincia molto presto e non si ferma più. E non c'è solo questo. Anche il "bene", il gioioso del vivere, il "pieno" del sentire e del godere, contiene i suoi bei rischi, le sue insidie: l 'immane difficoltà di capire e sapere come vivere. Dal ripetuto, insistito richiamo sull'imparare a vivere, non è difficile essere storditi e sentirsi spossati; si cerca allora un'ombra, ci si mette a sedere, e si sente più nulla. 

Spesso, quando un bambino piccolo cade, succede che da terra guardi verso la madre restando un po' come in sospensione, quasi a cercare in lei qualche indizio - di serenità o di ansia ­ sul quale modulare il proprio andare oltre oppure soffermarsi, la ripresa o lo sfogo, qualche spia che indichi se è il caso di chiedere attenzione e conforto. E dopo questa esplorazione che decide di rialzarsi e riprendere il gioco, la corsa, oppure di piangere per chiedere così alla madre di andare ad aiutarlo. Molte volte, per fargli riprendere forza e fiducia, è sufficiente uno sguardo, qualche parola quieta, un fiato di rassicurazione; per avere efficacia, però, sguardo parola e fiato devono essere mossi, non dati una volta per sempre e ripetentisi in un manifestarsi prevedibile quanto lontano. Soprattutto devono essere come modellati sulla situazione - non sulla condizione generalissima e quindi astratta di "bambino caduto", bensì su quella lì, di quel momento e in questo modellarsi alla situazione di un bambino specifico è necessario che si metta nel conto anche l'eventuale inespresso, desiderio o paura che sia. Insomma, quel che conta è che sguardo parola e fiato siano dentro la vicenda, appartenenti davvero al rapporto di quel momento - tra il bambino e la madre, tra bisogno e risposta al bisogno, tra disponibilità e disponibilità, tra sfida e abbandono.

I bambini non hanno solo orecchie o solo occhi; hanno anche antenne, e possono anche essere prodigiose, che usano per captare e filtrare, fagocitare o respingere quel che gli ronza intorno. E se il bambino piccolo caduto osserva e spesso agisce proprio in conseguenza di quello che ha potuto captare con gli occhi e con le antenne, il bambino più grande non è che sia da meno - le antenne si perdono più tardi, quando ci si comincia a ritenere "grandi". E in tutto il tempo dell'infanzia che le antenne funzionano, e questa è una delle peculiarità; una tra le preziose, perché consente di fare un pieno ben denso di memoria, dotarsi di uno scrigno cui attingere poi anche in futuro. Ma qualora il captabile altro non sia che il calcolo meschino, l'indifferenza cieca e preventiva, il trascinarsi snervato tra malumori muti e strilli isterici, l'attingere allo scrigno sarà poi solo una pena rinnovata, e sarà ingurgitata magari contrabbandandosela come beatitudine. Dice un bambino di una delle Storie di Rilke: "E i nostri genitori, come si comportano invece? Guardateli! Vanno intorno coi visi arcigni e imbronciati. Nulla va loro bene. Urlano. Strapazzano. E, nonostante ciò, eccoli lì, indifferenti a tutto." .

Indifferenti a tutto, privi di passioni profonde, non sono soltanto molti genitori; per esempio nelle scuole, d'ogni ordine e grado, insegnanti così ce n'è quanti si vuole. E questo è un dato piuttosto disperante, perché quello dell'insegnante è un mestiere che offre molti spazi per le "rivelazioni" - e questo non ha nulla a che fare con la "missione", ha molto a che fare invece con il fatto che sono in ballo persone, persone vive, che hanno voglia di vivere davvero e lo dicono forte tutti i giorni. A questo riguardo c'è invece molta reticenza. Ragioni, e responsabilità, ce ne sono diverse: dello Stato, del sindacato, dell'istituzione, della categoria, delle persone: tagli economici, formazione inesistente, stipendi sconfortanti, boicottaggi morali e professionali, parole vuote, dolori privati, burocrazia mortale, ingerenze concordatarie, mentalità meschine, frustrazioni sistematiche, opportunismi, campagne elettorali, falsi nemici, bambini di plastica, misconoscimenti, latitanza dell'inventiva, "sociale" asociale, assenza di progetti, genitori miasmatici, pavidità di generi svariati... Già questo non è poco, e non è tutto. E certo, pur non essendo tutto, è più che sufficiente a scoraggiare; ma siamo qui, e questo essere qui dovrà pur darsi un senso, sennò sarà insensato anche il fatto di esserci. E allora direi che qualcosa si potrebbe cercare di farla fin da subito: oltre che respirare sul collo di qualunque ministro, e magari piantarci anche i denti, darsi una piattaforma - nel senso sindacale e nel senso dello spazio da cui spiccare il volo -; una piattaforma donchisciottesca, da perseguire e praticare donchisciottescamente, che si ricava dal Gennariello di Pasolini: "negli insegnamenti che ti impartirò (...) io ti sospingerò a tutte le sconsacrazioni possibili, alla mancanza di ogni rispetto per ogni sentimento istitutivo. Tuttavia il fondo del mio insegnamento consisterà nel convincerti a non temere la sacralità e i sentimenti, di cui laicismo consumistico ha privato gli uomini trasformandoli in brutti e stupidi automi adoratori di feticci".                   .

Non sono qui a strillare reattivamente, o missionariamente, "per l'educazione, contro l'istruzione"; voglio solo dire che il "bambino cognitivo"rischia di non essere altro che un nuovo feticcio. Adorarlo? No, grazie, non è il caso, abbiamo già dato. Istruzione ce ne vuole tanta, ai bambini è giusto far apprendere molto, e facendolo si risponde positivamente a un loro bisogno, a una loro richiesta; ma è necessario assumerli interi, perché possano cominciare ad essere sapienti e non saccenti, perché possano cominciare ad essere artefici appassionati del proprio stare nel vasto mondo e non artifici appassiti ancor prima di fiorire, perché possano capire e sentire il proprio sentire e il proprio capire, perché possano cominciare a capire e sentire che il proprio sapere può portare non soltanto a consentire ma anche a divergere.

Però, ancora una volta, come il bambino piccolo caduto, i bambini si guardano attorno. Si guardano attorno e imparano, dai loro modelli. E possono imparare che si può ascoltare; che si può parlare; che si può leggere; che si può scrivere; che si possono avere e comunicare sensazioni convincimenti e dubbi; che si può spaccare in quattro un capello ma si può anche - ed è più divertente - essere almeno in due o, meglio ancora, in quattro, ognuno con almeno quattro diversi capelli da spaccare - in quattro, e poi in quattro - e poi da intrecciare insieme; che un punto di vista non è mai un punto ma almeno una montagna; che si può capitare a Lilliput ma anche a Brondingnag; che il vasto mondo è "grande. Ma tutto era ancora più grande quando si ascoltava una cosa raccontata" (Guimaraes Rosa, Una storia d'amore, Feltrinelli, 1989); che immaginare e cambiare appartengono alle possibilità umane e sono cose magiche proprio perché possono avvenire davvero; che... mille e una altra cosa. L'essenziale è che possano vedere qualcuno che ascolta, parla, legge, scrive, dubita, riflette, si emoziona, scava e non si accontenta e non si basta, e scruta e scruta, e racconta e racconta, e cammina e cammina. E tutto dentro la situazione, quella lì, con tenerezza e furia, con pas­sione.

Bisogna fare qualcosa, contro il maestro di cui parlava Rilke, contro le sue tante reincarnazioni dei nostri tempi - perfide o paurose che siano. Bisogna contrastare, contrapporre. E si può contrapporgli, per esempio, una donna della Storia d'amore di Guimaraes Rosa: "Gianna Xaviel si entusiasmava tutta. Una capacità, che nessuno regolava, s'impadroniva di lei, in certi momenti. Il re, il vecchio re, si teneva la barba, le mani piene di brillanti di oro di anelli; il principe amava la fanciulla, recitava affettuosità, esclamava e sospirava; la regina filava alla rocca e diceva il rosario; il taf-e-zaf delle spade dei guerrieri indiavolava nell'aria lì davanti: la gente vedeva il brandire delle spade, che tintnivano, sfavillavano; sentiva tutti cantare le loro battute, il suono quella voce dell'uno e dell' altro. Gianna Xaviel diventava un'altra. Al chiarore della lanterna, c'erano momenti in cui lei era vestita con abiti sontuosi, il volto mutava, ingentiliva i lineamenti, anticipava le bellezze, diventava sembiante. Uno si distraeva, aereo dal contenibile della figura di lei, di quella - che era una bifolca di riva di fiume, grossa, scura, con una salienza di gozio nel collo, donna piazzata nei suoi quarant'anni, nessuno di meno, senza educazione. Ma che ardeva ardore, si trasformava. Gli occhi prendevano di più, emettevano lucori cupi, aggredivano. (...) Gianna Xaviel dimostrava una forza per dentro, un'inclinazione selvaggia. Quando lei cominciava.a raccontare le storie, al chiarore della lucerna, la gente riceveva un imbalordimento di illusione, quella ringiovanendosi in bellezza, di colpo, una diavoleria di bellezza. (...) Cominciava a raccontare storie - produceva uno strano incanto. Uno arrivava ad eccitarsi, a sentir calore di andare con lei, di abbracciarla."

A fronte di questo appassionarsi, forse, si può trarre energia per un nuovo entusiasmo, un nuovo appassionarsi, per dare vita e nutrimento adeguato alle urgenze interiori. Diceva qualcuno che la forza di un uomo (e di una società) consiste tanto nella capacità di inventare e progettare quanto in quella di coltivarsi la memoria: e le storie altro non sono che un crogiuolo di questa forza, perché in esse il prefigurato e il sedimentato si saldano e si fondono, lasciando spazi ampi tanto ai bisogni quanto ai desideri e operando fra questi e quelli commistioni e scambi ben più che significativi. E sono così, al tempo stesso, il percorso e la meta, utili per attraversare tutto e arrivare dovunque. 'Anche questa è una storia?' ", chiede ad un certo punto un personaggio di Rilke. " 'No' , risposi. 'È un sentimento'. 'E si potrebbe comunicarlo, in qualche modo, ai bambini?'. Riflettei. 'Forse...'. 'Ma come?' 'Per mezzo di un'altra storia'."

Quale storia? E quali storie, in generale, per i bambini nostri? C'è molto da dire, in merito, ma - come direbbe il Kipling"senza trombe" delle Storie proprio così e di Puck delle colline, e questo è già un riferimento, seppur parziale e tendenzioso -... ma, appunto, questa è un'altra storia.