Il formaggio Tusitala, ovvero Omaggio a Tusitala Ginsburg da ècole 19 2002 |
Annovero tra le grandi fortune, tra i privilegi di cui ho potuto godere nel corso della mia vita l'avere mangiato il formaggio con i vermi. I miei genitori - sia benedetto il loro ricordo anche per questo - non l'hanno fatto mai mancare in tavola. Poi, a partire da un certo brutto giorno, non c'era più: la ragione ufficiale evocava questioni sanitarie, e così magari, a cercarlo, si sarebbe anche trovata qualche vermeria clandestina, ma era come per l'alcol durante il
proibizionismo: si trattava di andare contro la Salute e contro la Legge, dionescampi. Quel che ne ho sempre pensato è che in realtà avesse tristemente prevalso uno degli aspetti di quella "incivilizzazione" tanto temuta da Huckleberry Finn. La memoria del formaggio con i vermi - dirò meglio: la memoria dolorosa della scomparsa del formaggio con i vermi mi ha fatto affiorare automaticamente un dolore supplementare ad esso strettamente collegato. Mia madre aveva una selva di fratelli e sorelle: una di loro, come molti della nostra terra emilianoappulolunigianense, era emigrata in Galles, dove viveva con tre figli, uno dei quali era un Grande Scienziato. A me questo cugino gallese, più grande di me di vent'anni e sempre menzionato con devozione in quanto appunto Grande Scienziato, sembrava un gigante del corpo e della mente, e ne salutavo i rari periodici ritorni al paese come eventi straordinari, grazia divina, passaggio della cometa. Come per ogni cometa, il ritorno del Grande Scienziato di Swansea provocava attese palpitanti, meraviglia e sempre rinnovato stupore,nostalgie struggenti. Parlava di mille cose, e sempre di quella sua "brutta, adorabile città che striscia e si stende lungo l'arco d'una grande e splendida spiaggia, dove ragazzi perdigiorno e ragazzi di Sandfield e vecchi di chissà dove cercavano fra la sabbia, bighellonavano, sguazzavano, guardavano le navi che rientravano o le navi che se ne andavano verso il mistero e l'India, la magia e la Cina, paesi luminosi d'arance e ruggenti di leoni; tiravano sassi nel mare per i latranti cani randagi; costruivano castelli e fortini e porticcioli e piste nella sabbia; e il sabato pomeriggio, d'estate, ascoltavano la banda, guardavano il teatrino dei burattini, e s'aggiravano ai margini della folla per sentire i feroci predicatori che apostrofavano il mare, come se questi commettesse un orribile peccato a gonfiarsi e agitarsi avanti e indietro, cavalcato dalle bianche creste, gravido di pesci". Quando, diversi anni più tardi, trovai le parole appena citate nelle mirabili pagine di Dylan Thomas che parlava di quella stessa Swansea, la figura del cugino gallese ritornò trionfante sul piedistallo da cui anni prima l'avevo deposto; ma tutto era molto cambiato. Erano infatti successe due cose, anni prima, e precisamente quando, per non lasciarlo mai più, mi ero innamorato di Stevenson. Dopo avere letto L'isola del tesoro, ero passato avidamente a La freccia nera, Il ragazzo rapito, le avventure del Principe Florizel, nonché a cercare qualunque notizia sul conto del loro impareggiabile autore. E a me, che sapevo bene cosa pensassero gli abitanti di Roccavecchia di quelli di Roccanuova, la scoperta che Dio Stevenson era scozzese fece precipitare nella Gheenna tutti i gallesi, Grande Scienziato compreso. Il quale, peraltro, nel frattempo si era macchiato di un'altra colpa irredimibile. Alla fine di quell'estate, in partenza per ritornare a Swansea, ebbe da mia madre in dono segreto, in quanto divinità cui si sacrifica senza farne mostra, una forma di formaggio con i vermi. Qualche tempo dopo arrivò a mia madre una lettera di sua sorella che raccontava di come il Grande Scienziato, scoprendo casualmente durante quel viaggio il contenuto del devoto nonché divino involto, non avesse esitato a buttarlo nella Manica. Non è troppo strano, allora, che nel 1976 io mi sia affrettato subito a leggere il libro di Carlo Ginzburg dedicato al mugnaio friulano Domenico Scandella detto Menocchio, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del '500 (Einaudi). Certo, lo lessi perché qualche tempo prima mi aveva molto appassionato un altro suo libro, I benandanti (Einaudi 1966), ma so bene che quel titolo aveva toccato anche altre corde della mia memoria. Il formaggio e i vermi è un libro straordinario, e da allora ho accolto ogni volta con un senso quasi di ebbrezza l'uscita di libri di Ginzburg. La ricompensa è stata sempre molto alta, con ciascuna sua narrazione di saggi, da Spie. Radici di un paradigma indiziario (del 1979, ora in Miti emblemi spie. Morfologia e storia, Einaudi), a Indagini su Piero, Einaudi, da Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza a Rapporti di forza. Storia, retorica, prova (entrambi Feltrinelli), con la vetta mirabile di Storia notturna. Una decifrazione del sabba (Einaudi). È stato così molto piacevolmente inevitabile che mi lanciassi anche nella lettura del più recente libro di Carlo Ginzburg, appena uscito da
Feltrinelli,
Nessuna
isola è un'isola. Quattro
sguardi sulla letteratura inglese.
Lettura quanto mai arricchente,
e che mi ha fornito anche
l'alibi contingente per
segnalare qui il libro, il
suo autore e la sua opera tutta.
Il quarto "sguardo" infatti
è dedicato a uno dei più
prodigiosi formaggi mai esistiti,
cioè al grandissimo Tusitala,
Robert Louis Stevenson, Un racconto davvero mirabile, che consiglierei di leggere nella raccolta I racconti, a cura di Alessandro Ceni (Einaudi, nei "Millenni" o in due volumi dei "Tascabili"). Una storia che propongo sempre anche ai bambini, che la ascoltano incantati e ne traggono ogni volta lo stimolo per avventurarsi in riflessioni e discussioni di spessore filosofico di altissima profondità. ? |