Primeiras estòrias   

da ècole 25 2003

                                                                                                           

     A volte mi avventuro in un gioco - un giochino, se penso alle sue caratteristiche oggettive, alle sue regole; un gioco vero, importante, autenticamente serio, se penso alle sue implicazioni soggettive, alle ragioni che lo avviano, alle dinamiche che ne derivano. Il gioco consiste in questo. Quando mi accada mi conoscere qualcuno che mi piace, qualcuno per cui provo simpatia e attrazione più accentuate, qualcuno con cui avverto che mi piacerebbe

 stringere e ampliare la conoscenza, spesso intrufolo nella conversazione parole come "i versanti del vivere"; "successero fatti di pauroso accadere"; "vivere è una faccenda molto pericolosa"; "rimanere in silenzio, questo è parlare dei morti"; "il corpo non traduce, ma molto sa, indovina se non intende"; "la cosa più bella e importante, nel mondo, è questa: che le persone non rimangono sempre uguali, ancora non sono state terminate - ma vanno sempre mutando.

    Migliorano o peggiorano. Verità principe. È quel che la vita mi ha insegnato. E questo mi rallegra, un sacco". A volte, addirittura, succede che mi metta a cantare: "Né consigli né addii / buritì mi volle dare: / quando un amore sta morendo / un altro ne deve arrivare...". La ragione di questo arpeggiare barocco e popolaresco, di questo altalenare ieratico e bertoldesco, la ragione di questo modulare la voce tra la cattedrale e la taverna nasce da un impulso estremistico: frugare per vedere subito se per caso in chi mi sta di fronte, e tanto mi attira, non ci siano le mie stesse passioni, le mie stesse ossessioni, i miei stessi dèi. Quel che succede è, verità principe, caleidoscopicamente vario: c'è chi mi guarda con lampeggiata perplessità, sopravvenente allarme, la coda dell'occhio che cerca vie di fuga; che chi mi chiede di accendere una luce in quel non dubitato incuriosire; e c'è poi qualche volta, più raro ma è successo, qualcuno nel cui sguardo si accende come un fremito, e le labbra si schiudono, e tra i due visi ormai molto vicini aleggia il santo nome: João Guimarães Rosa.

    Sì, João Guimarães Rosa, autore del secondo libro della mia Bibbia personale. E, soprattutto, cassa armonica di una delle voci che insieme a quelle di Melville e Faulkner forma un'entità trinitaria diabolicamente divina che tormentatamente mi fa viva la vita. La ragione di questa mia enfatica e probabilmente patetica confessione pubblica di un groviglio di patologiche passioni e perversioni è, lasciatemelo dire, semplicemente nobile: nasce infatti dall'apparizione, da qualche settimana, negli Oscar Mondadori, dei ventuno racconti de La terza sponda del fiume, a cura di Giulia Lanciani.

     Il primo libro di Guimarães Rosa pubblicato in Italia è Il duello, edito da Nuova Accademia nel 1963, contenente due racconti (Il duello e L'ora e il momento di Augusto Matraga, tradotti rispettivamente da Edoardo Bizzarri e P. A. Jannini) presi dal suo primo libro, Sagarana, del 1946, pubblicato integralmente da Feltrinelli nel 1994 nella traduzione di Silvia La Regina. Nel 1964 da Feltrinelli uscì Corpo di ballo, ciclo romanzesco in sette parti tradotto da Edoardo Bizzarri (Miguilim, Una storia d'amore, La storia di Lelio e Lina, L'avviso della montagna, Din-dondon, "Faccia- di-bronzo" e Buritì). Nel 1970, sempre da Feltrinelli e tradotto da Bizzarri (traduttore al quale bisogna erigere un monumento anche per avere tradotto Scendi, Mosè di Faulkner), il prodigioso Grande Sertão, più volte ristampato in varie collane e ora disponibile nell'Universale Economica Feltrinelli. Nella stessa collana sono disponibili anche due splendide storie del ciclo Corpo di ballo: Miguilim, con prefazione di Antonio Tabucchi, e Una storia d'amore.

    

 Una terza mirabile storia dello stesso ciclo, Buritì, uscì da Feltrinelli nel 1985, ma ora non è più disponibile. Storie splendide, sì, e ciascuna di valore assoluto, ma leggerle separatamente è un po' come ascoltare le sole arie di Papageno anziché l'intero Flauto magico: è vero che si tratta comunque di Mozart, e quindi potrebbe bastare una pagina, ma ci sono cibi di cui non ci si sazia mai. Nel 1999 Guanda ha pubblicato Mio zio il giaguaro, per la traduzione di Roberto Mulinacci, fino ad allora inedito. Invece il libro appena uscito negli Oscar non è nuovo: uscì infatti nel 1988, nella stessa traduzione di Giulia Lanciani, presso la SEI, con il titolo Le sponde dell'allegria. Sia questo titolo sia quello dell'edizione precedente sono molto belli e pienamente rosiani, corrispondendo essi a titoli di singoli racconti; si differenziano però decisamente dal titolo originale, Primeiras Estórias. Nella traduzione italiana si è giustamente optato per un diverso titolo, perché una sua riproduzione letterale non avrebbe restituito l'importante sfumatura contenuta nel titolo portoghese. Infatti Guimarães Rosa, come ricorda Giulia Lanciani, "ha sempre definito i suoi racconti estórias e non histórias, dove a estória è affidata la funzione di narrare non tanto un fatto, quanto piuttosto l'Evento, cioè un momento inedito e irripetibile, che non si lascia imbrigliare nella sequenza di accadimenti che fanno la Storia". "La estória non vuole essere história. La estória, a rigore, deve essere contro la História", ha scritto Guimarães Rosa nei saggi di Tutameia, del 1967.

     È pieno di bambini e ragazzi, questo nostro grande sertão. Ovviamente ne è pieno anche il cosmo di Guimarães Rosa, e ovviamente anche queste primeiras estórias, che addirittura si aprono e chiudono con il caleidoscopico imprendibile cammina cammina del Bambino.

     Ma qui, per oggi, voglio limitarmi a ricordare Nhinhinha, La bambina del "Là", che dice e agisce, imprendibile, mormorando "suadentissima, inabile come un fiore". Lasciatemelo ripetere: inabile come un fiore. Sì, "vivere è una faccenda molto pericolosa" - e ci sono voci di cui non ci si sazia mai.