Musica e poesia da ècole 10 2002 |
Uno degli strumenti essenziali della mia attrezzatura difensiva è un piccolo libro ricavato da quell'immane opera cui si accinse Gustave Flaubert nel tentativo eroico di stendere il catalogo della stupidità umana: il Dizionario dei luoghi comuni. Lo consulto sempre, ogni volta con rinnovata trepidazione, ben consapevole di quanto insidiosamente possano annidarsi in ogni dove le più madornali sciocchezze. Anche oggi, qui, consulto il Dizionario di Flaubert. E leggo, alla voce "Poesia": "Inutile. Non è più di moda". Guardo poi alla voce "Musica", e leggo: "Fa pensare a tante cose. Ingentilisce i sentimenti". Vado alla voce "Bambini": "Fingere una tenerezza lirica nei loro riguardi, quando c'è gente". Sento l'accapponare della pelle. Ma c'è di più. C'è che i bambini, la poesia e la musica, oltre ad essere oggetto di luoghi comuni specifici (e tanti: il Dizionario di Flaubert è incompiuto, ovviamente), sono anche le entità protagoniste di un ulteriore luogo comune, quello che le annoda in un abbraccio strettissimo. Povera pelle, quanto accapponare. Eppure, a guardarci un po' dentro, si può vedere che c'è anche del vero, perché al fondo remoto dei luoghi comuni c'è proprio il loro avere una qualche origine di verità. Lo diceva anche Andrea Zanzotto, in Infanzie, poesie, scuoletta, un importantissimo, non dimenticabile saggio del 1973 ora riproposto nei suoi Saggi letterari (Mondadori). In quel saggio Zanzotto evidenzia come, al di là delle enfasi e delle false coscienze, tra poesia e infanzia esista davvero un rapporto privilegiato, soprattutto in quanto esse "tendono a presentarsi complicate da tensioni mitiche e simboliche". Inoltre Zanzotto sottolinea la necessità di cogliere "la primarietà della memoria sia nella fondazione delle strutture culturali delle varie etnie sia in quella delle strutture psichiche individuali. Le catene di ritmi e suoni lungo le quali si disponeva il patrimonio da trasmettere nascevano direttamente dalla fisicità dell'uomo, dai suoi stessi ritmi biologici inquadrati in quelli del mondo che li influenzavano". Pensando alla possibilità di inglobare anche la musica all'interno di quel rapporto privilegiato a me viene allora impulsivamente da dire subito che, sì, tra infanzia, poesia e musica esiste un rapporto privilegiato, ed esiste in quanto, per così dire, costituzionale. Abbiamo a che fare infatti con entità che sono tra le più connotabili come costituenti dei mondi delle aperture. Certo, trattandosi in un caso di un tempo della vita dell'uomo e negli altri di linguaggi, è necessario tenere ben presenti le variegate peculiarità. Questo però non impedisce - anzi, semmai favorisce o persino richiede - che le rispettive differenze si liberino vivificandosi, anche perché reciprocamente nutrite. Una ulteriore bellissima conferma di quel rapporto si può trovare ora nella riproposta delle "poesie fiabe rime ballate per bambini di ogni età" de Il vaporetto di Alfonso Gatto (Mondadori 2001, ill. di Fabian Negrin e con una bellissima postfazione di Antonella Anedda). Poesia e musica occupano spazi e funzioni importanti nella mia vita, eppure è con molte cautele che mi premuro di farle entrare nel mio lavoro, e cerco ostinatamente di attenermi a quanto, proprio a proposito dell'insegnamento della musica, diceva Rousseau: il quale, dopo congetture e sentenze, analisi e proposte, suggerimenti e biasimi concludeva: "Ma ho già troppo parlato sulla musica; insegnatela come volete, purché non sia altro che un divertimento". In ogni caso, se è vero che mi accade ripetutamente di comportarmi, nella vita privata, come lo Jakov de Il violino di Rotsild di Cechov, il quale, carico di angoscia, "poneva accanto a sé, sul letto, il violino e, quando ogni sorta di assurdità gli passavano per il capo, toccava le corde, il violino nella tenebra emetteva un suono ed egli si sentiva sollevato", è altrettanto vero che non dimentico quanto personali siano i bisogni di consolazione e i relativi strumenti, e quanto facile sia da un lato prevaricare e dall'altro mancare occasioni. Analogamente, se mi si chiarisce sempre più quanti e quali strumenti di conoscenza e di apertura mi provengano dalla lettura di Rimbaud, Mandel'stam, Leopardi, Dylan Thomas o Attilio Bertolucci, mi è sempre meno chiaro quale possa essere il senso profondo del desiderio di voler trasporre quelle acquisizioni. Non
so cosa sia la poesia. Nemmeno mi interessa troppo saperlo. Certo,
suggestioni ce ne sono parecchie. Per esempio, mi sembra importante
quel che disse una volta Osip Mandel'stam, che parlava della poesia
come di "un vomere che ara e rivolge il tempo portando alla
superficie i suoi strati più profondi e fertili". E altrettanto
importante mi sembra una folgorante affermazione di René Char:
"Il poema è l'amore attuato del desiderio rimasto
desiderio". E però, più che sapere cosa sia la poesia, mi
interessa capire come questo possa essere tradotto anche in attività
quotidiana a scuola. Io spero sopra tutto che i bambini si divertano e
sappiano di poter porre domande e di essere ascoltati, e mi sembra che
la poesia possa innestarsi bene su questa speranza che è un
convincimento e un piano di lavoro. A partire dalle filastrocche e
arrivando a testi anche di notevole complessità - evitando sempre il
banale e il bamboleggiante - l'obiettivo è quello di offrire
possibilità di piacere, immagini e evocazioni vive e coinvolgenti,
parole e suoni che non cessino di riecheggiare nemmeno negli spazi
bianchi - così come nelle oscurità, siano esse quelle del silenzio,
delle solitudini, delle notti, delle paure, dei misteri. E mi servo
sempre di due immagini individuate da due grandi poeti: Ted Hughes e
Giovanni Giudici. In Poetry Questa idea di un tempo adeguato del respiro mi sembra il nodo vero, soprattutto allorché si tratti di attività come quelle che riguardano le parole, le quali sono anche uno strumento per mordere la cosiddetta realtà, smascherandola. Per questo, e lo si può capire bene proprio cercando con i bambini le parole-volpe o le parole-farfalla, non sono necessari lessemi roboanti, e si può anche scoprire, spesso, che forme denigrate o trattate con benevola sufficienza come filastrocche o limericks o ninnenanne possono contenere ordigni di senso capaci di devastare il cosiddetto reale. Ad essere davvero necessarie sono invece le parole che il tempo del respiro impone. Ed esse potranno essere allora tanto quelle sostanziate di suono quanto quelle sostanziate di significati, individuali e universali, profondi; potranno essere tanto quelle rispondenti alle necessità di un pensiero sorvegliato quanto quelle che rispondono al non contenibile ritmo di quello specifico spazio-tempo. È questo, a mio parere, il nesso profondo e forte tra poesia e musica: il tempo del respiro. E se, come diceva Giorgio Caproni, "il poeta è come un minatore " che "calandosi nel più profondo del proprio "io", scopre il "noi": scopre quelle cose che tutti sentono anche se non tutti riescono ad esprimerle", con i bambini - che non hanno accortezze reverenziali - è possibile separare davvero il grano dal loglio, e da lì ripartire per calarsi nel fondo profondo del proprio "io". E questo, per fortuna, sempre che non si sia infinitamente perversi, non lo si può sottoporre a verifica (e men che mai a Verifica). |