Come fosse un libro per uomini: e anche di più 

  da ècole 14 2002

                                                                                                           

      Nel mio personalissimo Pentateuco, i primi cinque libri della mia privatissima Bibbia (in cui, per eccesso di misura, non possono entrare la Bibbia, Guerra e pace e Giacomo Leopardi), oltre a Moby Dick di Melville, al Grande Sertão di João Guimarães Rosa, a

  L'urlo e il furore di Faulkner e a Chiamalo sonno di Henry Roth, c'è anche quello straordinario racconto di non più di una cinquantina di pagine che è Casa d'altri, di Silvio D'Arzo. Un racconto tanto prodigioso che spesso i pochi che conoscono D'Arzo lo considerano autore esclusivamente di quella meraviglia. Ma così non è, perché Silvio D'Arzo ha scritto anche altro: ha scritto addirittura per la cosiddetta letteratura per l'infanzia, e non poco, e di non poca importanza.

Per esempio, ha scritto Penny Wirton e sua madre, che io ritengo il più bel libro "per ragazzi" scritto in lingua italiana dopo Pinocchio. Un libro scritto sul finire degli anni Quaranta, ma pubblicato soltanto postumo, da Einaudi, nel 1978. Un libro però che sarebbe vano cercare in libreria. Quando uscì, comparve in una "sottocollana" degli Struzzi Einaudi, gli "Struzzi Ragazzi": una collocazione che probabilmente non ha fatto che produrre un effetto doppiamente nefasto: da una parte allontanare il lettore adulto, diffusamente convinto di non doversi "abbassare" ai livelli della cosiddetta letteratura per l'infanzia, dall'altra non arrivare mai ai ragazzi. Da tempo, esaurito o abbandonato che sia, il libro non circola più. E così, convinto, con Attilio Bertolucci, che "Penny Wirton andrà collocato fra L'isola del tesoro e 

Huck Finn: che stanno sia nella biblioteca dei ragazzi che in quella dei grandi. Libri sfuggenti e alati, possono spostarsi dall'una all'altra perché hanno la natura di Ariele"; ma anche consapevole di quanto siamo accidiosi e pervasi di cultura del preconfezionato e del precotto, ho pensato di proporre una nuova edizione di Penny Wirton e sua madre a due case editrici: una "per ragazzi" e una "non per ragazzi". La prima - ed è una delle migliori, e maggiori - mi ha risposto che si sarebbe trattato di una "operazione culturalmente inutile"; la seconda - ed è una delle migliori, e maggiori - mi ha risposto dicendo che si trattava di un'ottima proposta, una bellissima idea, un'iniziativa molto pregevole, che però non si sarebbe realizzata perché commercialmente disastrosa. Bene, così non sarà necessario aggiornare il Catalogo delle Gioie Rubate. Catalogo che contiene diversi titoli di Silvio D'Arzo: oltre a Penny Wirton sono infatti introvabili anche Il pinguino senza frac e Tobby in prigione, due bellissimi racconti, anch'essi degli ultimi anni Quaranta, pubblicati abbondantemente postumi nel 1982 da Einaudi (cioè da una delle migliori case editrici, e quindi chi ha orecchie per intendere intenda) nella gloriosa ma defunta collana "Libri per ragazzi". Reperibile solo in un pressoché irreperibile cofanetto edito da Diabasis con il titolo Una storia così (comprendente l'omonimo racconto, le poesie e alcune lettere) è il racconto incompiuto intitolato appunto Una storia così: un racconto bellissimo, la cui incompiutezza invita vieppiù a inveire contro la congiura congiunta di biologia e di storia che ha accompagnato Silvio D'Arzo dal 1920 al 1952, impedendogli di andare oltre i trentadue anni.

Una storia così è anche un racconto che mi è particolarmente caro perché vi compare un personaggio, il supplente Teddy Tedd, che ho eletto a modello, il maestro ideale, nonché mio Più Autentico Maestro. Egli infatti, un giorno arrivò al Premiato Collegio Minerva (diretto dall'ignobile Tobia Corcoran, che riteneva non esserci al mondo azione più malvagia spregevole immorale che leggere libri che non fossero i libri di testo) e, avendo ricevuto dal direttore assente per esaurimento nervoso nient'altro che una ricetta medica con la prescrizione di una cura di fosforo (in realtà sul retro della ricetta c'erano scritte le consegne didattiche: dosi da dinosauro di aritmetica e di analisi grammaticale e logica, nonché, ovviamente, il divieto assoluto dei libri), e avendo per caso trovato, nascosta in fondo al solaio, la biblioteca scolastica, "fece scendere tutti quanti i ragazzi in giardino: li portò proprio dietro lo stagno, dove alberi e siepi eran più fitti e più folti che mai, e distribuì un libro a testa. - Ecco qua.

Per un mese non farete altro che leggere questi: lo prescrive il nuovo programma. (...) E adesso, buon appetito". Si capisce che molte cose cambiarono: "I ragazzi non facevano che leggere e leggere, e giocare a quel che avevano letto: ed eran tutti più allegri che mai". E ogni sera, quando i ragazzi rendevano i libri al Supplente, "nella stanza di questi si ripeteva la medesima scena. Il primo a sbucar fuori era Tarzan (...) dopo un po' tutti gli altri: Alice, col suo Coniglietto, Pinocchio, i tre Porcellini, La Bella Addormentata nel Bosco, Mowgly, Davide Copperfield, il piccolo Lord Fauntleroy, Topolino, i Nani di Gulliver, John Silver, Jimmy Hawkins, il dottor Jeckill e Robinson Crusoe, e, insomma, un bel sacco di gente". Sì, un bel sacco di gente, e anche un sacco di bella gente.

Quattro titoli, insomma, dedicati da D'Arzo alla cosiddetta letteratura per l'infanzia. Di un quinto, Gec, inedito, si è favoleggiato a lungo, da quando Rodolfo Macchioni Jodi, amico ed esecutore testamentario di D'Arzo, ne rivelò l'esistenza. Poi, qualche anno fa, scoprii

 fortunosamente che quel testo era stato pubblicato nel 1960 dall'editore Morano a firma di Mariangela Cisco con il titolo di Una camicia per Gec. Dapprima pensai di avere scoperto l'ennesimo pseudonimo di Silvio D'Arzo (il cui vero nome era Ezio Comparoni), poi appurai che Mariangela Cisco era una persona reale, purtroppo non più in vita. Ne derivava un complicato "giallo", che raccontai su "Linea d'ombra", lasciando aperte le conclusioni: plagio, furto, loschi mercati, appropriazioni indebite, attribuzioni errate? Pubblicai il saggio

 

 soprattutto con la speranza che qualcuno si facesse vivo a illuminare la torbida vicenda. Nulla accadde, e io ripresi a cercare. Il mese scorso, ad un convegno tenutosi a Reggio Emilia in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di D'Arzo, ho esposto il mio convincimento: Una camicia per Gec è un libro di Mariangela Cisco, erroneamente attribuito a Silvio D'Arzo. Conclusione che in qualche modo mi conforta, giacché si tratta di un libro non convincente, non risolto, ben lontano dai bagliori dei quattro ricordati.

Scrivere era per D'Arzo una questione vitale, e teneva a ciascuna delle proprie parole come a un pezzo decisivo di sé. Che scrivesse una storia che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere l'Eneide del ventesimo secolo o una storia per i ragazzi, non aveva importanza: ruminava ogni sillaba nel fondo profondo di sé. E una volta, a proposito di una storia "per ragazzi", scrisse a Vallecchi: "Che ti piaccia o no (...) io oso sperare che tu ammetta che io ci abbia lavorato attorno come se fosse un libro per uomini: e anche più"