Duelli  

  da ècole 5 2001

                                                                                                           

        Con Schubert non avevo problemi, quando avevo l’età di David. E nemmeno ne avevo con Otis Redding o Aretha Franklin. I problemi li avevo invece con Bob Dylan e con Woody Guthrie. Il fatto è che ascoltavo tutti loro (nonché mille altri, beninteso) in modo

 sostanzialmente ossessivo, però era solo con Dylan e Guthrie che mia madre si avvicinava e mi chiedeva: «Perché ascolti sempre della musica così malinconica?». Aveva come un allarme, nello sguardo; delicato, sì, ma un po’ accorato. Lo stesso allarme era comparso quell’inverno, allorché per almeno una settimana mi ero svegliato ogni mattina alle sei per andare, nonostante il buio e la neve — tantissima neve, quell’anno —, a “servire Messa” mezz’ora dopo. «È buio, fa freddo... Perché lo fai?», mi chiese una mattina mentre accendeva la stufa; e io, sulla porta, con la boria dei dodici anni, le risposi che se non lo capiva da sola non meritava di sentirselo dire. In realtà non lo sapevo bene nemmeno io. Vagavo affannoso lungo i tornanti della mente tra desiderio di santità e desiderio di apprezzamento sociale; tra frasi ridondanti come «ricerca della verità» e la consapevolezza che ogni Messa in più avrebbe significato una tacca in più nella tabella dei chierichetti, e questo mi sarebbe servito a conquistare il libro in premio riservato al primo in classifica. Pensavo confusamente che ero confuso; mi si affacciavano le categorie di “nobile” e “meschino”; e allora saliva la furia, ma non già contro il “meschino” che evidentemente albergava in me, bensì contro gli altri, il mondo, mia madre, mia madre soprattutto. Che cosa voleva da me? Io stavo cercando la verità, anzi, la Verità, e lei si preoccupava del buio e del freddo. La menava tanto con la fede e il “timor di Dio”, ma avrebbe preferito che stessi a dormire. Era proprio un’ipocrita. Come quando preparava quell’infinità di anolini e tagliatelle e lasagne e tortelli e arrosti e torte e budini: con che coraggio poteva parlare dei poveri, di chi moriva di fame? E mio padre: buono, anche lui... Andava a caccia, e ogni volta, immancabilmente, uccideva una lepre. Prima di mangiare, tutti in piedi davanti al piatto, era lui a condurre la preghiera: «Signore, benedite il cibo che stiamo per prendere, e datene anche a coloro che non ne hanno. Amen». Lui aveva ucciso una creatura del Signore, si apprestava a mangiarla, e pretendeva pure che il Signore elargisse una benedizione. Molte volte ho pensato che questo rito fosse blasfemo, e ho spesso desiderato/temuto che arrivasse un fulmine divino. E una sera, dopo l’ennesima urlata perché smettessi di leggere e spegnessi la luce, perdurando la difficoltà di dormire per la rabbia di avere dovuto sottostare al loro potere, sentii che parlavano, e mia madre diceva a mio padre che mi sarei rovinato gli occhi, e che non sapevo godermi la vita, come avrebbe dovuto fare un ragazzo della mia età. Quel che le disse lui non riuscii a sentirlo, ma pensai subito che non capivano niente. Io me la godevo, eccome, la vita: ci vedevo benissimo, leggere era un piacere, ero bravo a giocare a calcio, c’era Linda. Sì, Linda. Anche l’Annamaria mi piaceva, ma meno da quando era arrivata Linda, figlia di un carabiniere trasferito da poco al paese. Nel buio Linda mi venne vicino, si accucciò accanto a me. Mio padre e mia madre parlavano ancora, ma non distinguevo più le loro parole. Quali che fossero, non m’importava: loro non capivano niente. M’importava che continuassero a parlare, ché non si accorgessero che ero con Linda, che la guardavo nel buio, che la carezzavo, che mi carezzava, che mi addormentava cullandomi, stordito e felice.

         Anche a David — protagonista dell’ultimo libro di David Grossman, Il duello, pubblicato da Mondadori nella collana “Contemporanea” per la traduzione di Daria Merlo — 

anche a David, e per ragioni analoghe, càpita di affermare a proposito di sua madre che «quella lì non capisce niente»; e anche lui dice che «una volta l’avevo addirittura sentita dire a mio padre che non sapevo godermi la vita, come avrebbe dovuto fare un ragazzo della mia età». Il fatto è che David, dodici anni, quando «l’insegnante ci aveva divisi in “gruppi di volontariato”, e tra le varie attività c’era anche quella di aiutare un anziano e diventare suo amico», aveva scelto proprio questa. E così aveva conosciuto il signor Rosenthal, ma questa scelta era parsa a sua madre una scelta preoccupante: un dodicenne che, invece di frequentare i coetanei, preferiva starsene solo a leggere o passare il suo tempo con il settantenne Rosenthal, non poteva essere a posto. Ma David non ha alcuna intenzione di rinunciare alle proprie scelte, e poi è molto affascinato dalle storie di Rosenthal; inoltre, e soprattutto, a un certo punto Rosenthal viene sfidato a duello — un vero duello, con la pistola — da Rudi Schwartz, un suo coetaneo piuttosto impetuoso, e David intende fare di tutto per evitare la tragedia.

         Il problema nasce dal fatto che cinquant’anni prima Rosenthal e Schwartz si erano innamorati di Edith Strauss, una bella pittrice che poi aveva lasciato entrambi per andarsene con un inglese. Andandosene aveva lasciato due dipinti: uno, raffigurante i propri occhi, a Rosenthal; un altro, la bocca, a Schwarz. Ora però il quadro della bocca è scomparso, e Schwarz accusa Rosenthal del furto. Da questo, e dal relativo reciproco scambio di insulti e di accuse, il duello, essendo i due uomini sostanzialmente rimasti legati a codici antichi. David, preoccupato per la vita dell’amico, e convinto della sua innocenza, riuscirà a impedire il duello, ma arriverà a risolvere il tutto attraverso personaggi e vicende che io non svelerò, per non togliere a nessuno il piacere di godersi la vita tramite le parole e i marchingegni narrativi del grande David Grossman.

         Sì, le parole e le storie hanno una grande capacità di far godere la vita. E hanno anche la capacità, come tutti sappiamo e come viene confermato da questo Duello, di complicarla moltissimo, la vita. Hanno insomma una grande forza, un grande potere.

         E le madri, David? (E i padri, ahinoi?) Sarà bene che riescano — che riusciamo — a coltivare la memoria viva dei propri dodici anni e a farsi cronopios, e quindi non prendersela troppo per l’odio inevitabilmente generato nei figli per troppo amore. Perché i cronopios, come racconta Julio Cortázar (Storie di cronopios e di fama, Einaudi), «anche loro hanno odiato i loro genitori, e anzi si direbbe che questo odio sia uno dei nomi della libertà e del vasto mondo».