Il cugino Ascanio  

  da ècole 17 2002

                                                                                                           

     Convivo, ormai da molti anni, in piena felicità con il mio nome. Devo dire però che non è sempre andata così; anzi, c'è stato un periodo, ormai ben lontano, in cui ho recriminato a lungo in proposito. Una volta mio padre - sia benedetta la sua memoria anche per questo - mi disse che quella mia insoddisfazione gli dispiaceva, e soprattutto non la capiva. Come poteva

Cecafumo. Storie da leggere ad alta voce. Con CD Audio

 non piacermi il mio nome? Un nome che, prima di tutto, era bellissimo e basta, anche perché era mio; in secondo luogo era il nome del santo migliore e poi del santo di Busseto, il sommo Verdi; ma soprattutto era il nome del suo veneratissimo padre, mio nonno.

    Naturalmente quelle pacate parole non mi scalfirono, e anzi riattizzarono il brivido che mi prendeva ogni volta che mi ricompariva alla vista o alla mente la tomba di mio nonno, sulla quale era inciso, lettera per lettera, implacabilmente, proprio il mio nome e cognome. In quel tempo congetturavo molto sui nomi, e un giorno dissi a mio padre, che si chiamava Ettore, di avere il sospetto che mio nonno fosse stato sepolto sotto falso nome: secondo me, pensando a come si chiamava mio padre e al numero dei suoi fratelli, mio nonno non poteva essere che Priamo. Allora non lo sapevo, ma mi candidavo a chiamarmi Astianatte. Mio padre mi disse di non scherzare, e che mio nonno "buonanima, benedetto il ricordo, era un santo"; comunque per sé gongolava, per il fatto di avere il nome del più forte e leale degli eroi. Mio padre non sapeva di Ettore e Priamo per avere letto i poemi omerici, né per averli incontrati nei pochi anni di scuola elementare che aveva frequentato.

Quel che ne sapeva proveniva piuttosto dall'averne sentito cantare le gesta dai cantastorie in qualche "Maggio" del nostro Appennino e da qualche non meglio precisato viandante passato chissà quando lassù. E lui me ne raccontava qualcosa ogni tanto, ma spesso comparivano a Troia anche Orlando e Goffredo di Buglione (un modo di far prevalere la poesia sulla storia). A incrementarmi suggestioni omeriche provvide poi mia sorella maggiore, che al tempo della scuola media ne parafrasava o studiava a memoria diversi brani che recitava poi a me per ripassare. Quando toccò a me il cimento diretto con l'Iliade mi innamorai inevitabilmente di Ettore, e ancora oggi accade che mio figlio, che ha accettato con riluttanza il mio consiglio di aspettare a leggere l'Iliade, avendo egli dieci anni, mi dica: "Anche se ti piace di più Ettore, raccontami ancora di Achille". Potrei anche aggiungere che qualche tempo fa ho effettuato delle letture sul rapporto genitori figli nel carcere di San Vittore, a Milano, leggendo e raccontando da Tolstoj, Victor Hugo, Paul Auster, nonché l'episodio di Ettore e Andromaca alle porte Scee.

Insomma, la mia propensione all'"astianattitudine" viene da lontano e non sembrerebbe finita, anche perché non faccio nulla per arginarla. Anzi. E così mi è stato molto facile incrementarla, e rivolgere un pensiero grato a mio nonno - Priamo in quanto padre di Ettore, sia benedetto il ricordo - quando sono incappato in Cecafumo. Storie da leggere ad alta voce, di Ascanio Celestini, pubblicato da Donzelli con allegato un cd audio. Celestini (o, meglio, Ascanio, se non disturba la confidenza parentale) non parla dei suoi genitori. Cita solo sua nonna: forse per discrezione, o per depistare, o per ragioni sue solamente legittime. Quel che è certo è però che se uno si chiama Ascanio è figlio di Enea e di Creusa, figlia di Priamo - e quindi nipote di Priamo, non c'è scampo. Il fatto poi che Ascanio parli altolaziale non fa che confermare l'idea di quell'ascendenza, e se questo mio pezzullo fosse una recensione al suo bellissimo Cecafumo potrei dilungarmi parecchio su questa squisita peculiarità, ma questo è invece una piuttosto patetica manifestazione di rubrichista egocentrato che arranca sulla questione dell'identità e della demartiniana "perdita della presenza " (tra l'altro, il cugino Ascanio cita il grande Ernesto de Martino proprio introducendo una storia bellissima, Contadini e pere, in cui l'io narrante esordisce dicendo "io mi chiamo

Giuseppe", ma poi gli succede qualcosa che lo fa dubitare parecchio, e la storia si chiude con "Be', allora sarò io Giuseppe", ma dei tre fratelli è il solo ad essere davvero cambiato). Da bravo egocentrato dirò poi che quando vado in scuole e biblioteche a raccontare, le storie sono varie ma sempre accompagnate da un blocco aggiuntivo dedicato a Giufà (cfr. école n. 7, settembre 2001), un po' come il cugino Ascanio, che a Giufà, delle quarantadue complessive, ne riserva sette (cinque delle quali ascoltabili anche nel cd, accompagnate dalle pertinentissime musiche di Matteo D'Agostino e Gianluca Zammarelli). Aggiungerò anche che inizio sempre gli incontri con una storia che dice: "C'era una volta una vecchia, inecchia buffecchia tirimbussoli fatta a filumecchia, c'era una volta una vecchia...", mentre il cugino Ascanio chiude il suo mirabile libro (nonché il cd) raccontando che "C'era 'na volta 'na santa, minanta buffanta col circuruncanta col firfurunfanta. Insomma c'era una volta una santa...". Che emozione,avere un cugino così.

Un cugino di bravura incantevole, e per di più capace di incantamento sia dalla pagine di Cecafumo sia da un palco di teatro dove insieme al bravissimo Olek Mincer (leggere assolutamente il suo Varsavia, viale di Gerusalemme 45, Sinnos 1999) e con le musiche degli ottimi Klezroym racconta Saccarina. Cinque al soldo! sia dall'atrio della Stazione Centrale di Milano, dove l'ho sentito raccontare Radio clandestina (dal grande libro di Alessandro Portelli, L'ordine è già stato eseguito, Donzelli). Un cugino con il quale mi piacerebbe, come racconta la versione più antica della leggenda, fondare nuovamente la città di Troia. Naturalmente anch'essa verrebbe distrutta, anche perché non si può certo dimenticare quel che dice Dai Sijie in Balzac e la piccola sarta cinese (Adelphi 2001): "L'unico talento che avesse era quello di saper raccontare le storie, un talento indubbiamente gradevole, ma per disgrazia marginale e senza un gran futuro. Non eravamo mica ai tempi delle Mille e una notte!

Purtroppo, nelle società contemporanee, socialiste o capitaliste che siano, il mestiere del narratore non esiste più". Ma è possibile anche che Ascanio sia più propenso a seguire l'altra tradizione, quella che si sofferma sul suo discendere da Lavinia e dal re Latino. Dolersene? E perché? Quel che conta è che continui a contare e cantare, camminando camminando nella musica delle parole e della memoria viva. E io? ""Be', allora sarò io Giuseppe", e pure io me ne torno a casa". Sì, torno a casa, a rituffarmi nell'incantamento di questo mirabile libro che canta.