Compleanni - Editoriale 

  da ècole 5 2001

                                                                                                           

        Come tutti ben sanno, molte sono le cose ridicolmente patetiche e pateticamente ridicole la cui vista si è costretti a subire. Tra queste, gli adulti che bamboleggiano, che fanno i ragazzini, adolescenti di trenta e quaranta e cinquanta e più anni, desolanti figuri che dietro il cerone giovanotteggiano sgambettando e cinguettando. Bisognerebbe metter loro da qualche parte il pannolino o il

 bavagli(n)o, magari servendosi di quel grande romanzo che è Ferdydurke di Witold Gombrowicz (del 1937; pubblicato da Einaudi nel 1961 e da Feltrinelli nel 1991): la storia di un uomo che una mattina si trova riprecipitato in una classe di scuola, circondato da un mucchio di altrettali rimbambi(ni)ti.

         E così il primo impulso, sentendo tanto parlare dei cinquant’anni del Giovane Holden, è quello di tenermene alla larga. Fortunatamente si tratta dei cinquant’anni di The Catcher in the Rye, Il giovane Holden, il libro, e non già del suo protagonista Holden Caulfield, il quale peraltro dovrebbe averne ormai almeno sessantasette, se già ne aveva diciassette quando il libro apparve, appunto nel 1951.

         Il giovane Holden è un bel libro, un libro importante, anche, e fa piacere che ancora venga letto, anche se a me non è mai sembrato quel libro sconvolgente che molti dipingono. Proviene indubbiamente da Mark Twain e, pur operando una notevole confusione tra Tom Sawyer e Huckleberry Finn, delinea un protagonista che di quei due indimenticabili personaggi è parente stretto. Quel che a Holden manca, però, per eguagliarli e magari andare oltre loro, è un sovrappiù archetipico e poetico che essi invece hanno in abbondanza, e soprattutto Huck. Inoltre, proprio in quegli stessi anni, e finanche in quel medesimo 1951, sempre da quelle parti, nascevano o venivano concepiti altri libri composti di ingredienti fortemente analoghi. E non mi riferisco tanto al decisamente inferiore Sulla strada di Jack Keruac (pubblicato nel 1957, ma scritto proprio nel 1951), quanto piuttosto a Le avventure di Augie March (del 1953) di Saul Bellow e ancor più al magnifico La veglia all’alba (1951) di James Agee. Giovani, adolescenti, ragazzi, alle prese con se stessi e con il proprio stare nel vasto mondo, alle prese con l’ipocrisia, la sofferenza, il male, la morte; alle prese con le dinamiche di illusione e disillusione, utopia e disincanto, innocenza e ferocia, silenzio e rabbia, dono e calcolo, ribellione e regressione; alle prese con la propria storia — nonché con la Storia. Alle prese con il raccapriccio del sordo ronzare dell’età adulta, un concitato girare a vuoto e nel vuoto, e il cui unico pieno sembrerebbe essere la mortificazione delle sensibilità. Alle prese con le proprie ineludibili domande. «Chi diavolo sono... chi sono, in nome di Dio», diceva James Agee in un altro suo libro straordinario, Sia lode ora a uomini di fama (del 1941, pubblicato dal Saggiatore nel 1994).

         Purtroppo, nel caso di Agee si può festeggiare il compleanno dei soli libri, essendo lui stato fermato per sempre nel 1955 a bordo di un taxi, nella viva maturità dei suoi quarantasei anni, da un infarto. Nel caso del Giovane Holden si possono invece ancora fare festeggiamenti anche al suo ottantaduenne papà, Jerome David Salinger, al quale augurerei soprattutto di riuscire a ottenere di essere lasciato in pace e rispettato nel proprio desiderio di rimanere appartato, nonché di essere considerato per avere scritto non soltanto Il giovane Holden ma anche altre cose, ben più preziose. Sì, non stravedo per Salinger, ma i Nove racconti (Einaudi) sono molto belli, specialmente Un giorno ideale per i pescibanana e il personaggio che racconta ai ragazzini le avventure de L’uomo ghignante. E poi Salinger ha il merito enorme di avere scritto una frase che bisognerebbe scolpire all’entrata di ogni scuola: «Non capisco che senso abbia sapere cosí tante cose ed essere bravi e brillanti come pochi se poi non si è felici». L’ha scritta in un altro suo libro, Alzate l’architrave, carpentieri (Einaudi), la cui epigrafe canta così: «Se in tutto il mondo è rimasto ancora un lettore che legga per il gusto di leggere — o che comunque dopo aver letto se ne vada per i fatti suoi — gli chiedo o le chiedo, con indicibile affetto e gratitudine, di dividere la dedica di questo libro in quattro parti con mia moglie e i miei bambini». Grazie. E buona fortuna.