Bambini in vetrina, libri di adulti   

da Linea d'Ombra annata 1990

                                                                                                           

Uno, sfregandone due tra di loro, ha scoperto che dentro c'era il fuoco. Un altro, sopra a una, voleva costruire la sua Chiesa - e poi l'ha anche fatto, e quella è diventata quel che è. Certune le si usano a seppellire qualcuno; cert'altre a seppellire qualche cosa. C'è poi chi se ne serve, scagliandole, per difendere il diritto: di vivere e di abitare la terra in cui è nato. Vicende consistenti, come è ben

 evidente; ma anche nel caso pedestre in cui una - per piccola che sia - ti entri in una scarpa, per leggiadro che sia il tuo danzare, devi fare una smorfia e piegare la schiena, darle un po' d'attenzione e toglierla di lì. C'è poco da scherzare, con le pietre.  E allora, forse, non è troppo casuale che la vita e la morte di Iljùsa  Snjeghirjov proprio attorno a una pietra continuino a ronzare: la pietra presso la quale poi Aljosa Karamazov - appunto Il Discorso presso la pietra - ricordando il bambino morto ai suoi compagni sigilla così il romanzo di Dostoevskij: "Sappiate dunque che non c'è nulla di più alto, e forte, e sano, e utile per la vostra Ia vita avvenire, di qualche buon ricordo, specialmente se recato con voi fin dai primi anni, dalla casa dei genitori. Molto vi si parla della vostra educazione, ma uno ai questi buoni e santi ricordi, custodito sin dall'infanzia, è forse la migliore delle educazioni. Se l'uomo può raccogliere molti di tali ricordi e portarli con sé nella vita, egli è salvo per sempre. E quand'anche un solo buon ricordo rimanesse con noi, nel nostro cuore, anche quello potrebbe un giorno servire alla nostra salvezza."

Essendo convinto che questo sia molto vero - e volendo aspettare ancora un po' prima di convincermi che abbia ragione Vonnegut - mi chiedo come potranno mai salvarsi i "bambini napoletani" di cui si parla nel sottotitolo di Io speriamo che me la cavo (a cura di M. D'Orta, Mondadori 1990). E dal momento che i temi che compaiono nel libro sono inconcepibilmente tutti anonimi, su quali "buoni e santi ricordi" quei bambini potranno custodire dalla loro infanzia, posso soltanto fare congetture. Congetture, beninteso, ricavate dai testi del libro e dalle vicende che il libro hanno accompagnato. In estrema sintesi: violenza, miseria, rancore, droga, danaro, camorra, disoccupazione, emigrazione, degrado, sfacelo, e tutto quanto altro di tragico vive il nostro Sud. A questo si aggiunga un "particolare": dei loro guai,delle loro tragedie, della loro ortografia e della loro sintassi martoriate, è stata fatta una tanto triste quanto redditizia operazione commerciale; insomma, si è preso il nano e lo si è sparato col cannone. E Marcello D'Orta - il loro maestro, e quindi una persona alla quale sicuramente hanno voluto bene - ha scritto trentasei righe di premessa al libro in cui ha sostenuto di essere intervenuto "solo molto raramente per sbrogliare qualche frase".

Dispiace che i molti entusiasti recensori non abbiano avuto qualche sospetto; eppure, per un timbro sostanzialmente omogeneo, per certe chiuse richiamantesi, per certi stilemi, almeno qualche dubbio avrebbe dovuto affacciarsi. A frequentare le scuole, a leggere sistematicamente quello che i bambini scrivono, o a pensare per esempio a un libro come I quaderni di San Gersolè (Einaudi), dove c'erano davvero voci diverse, qualche dubbio si sarebbe affacciato. Dubbio che sarebbe ben presto stato chiarito dallo stesso D 'Orta, il quale, a un certo punto, come se non esistessero nemmeno quelle sue affermazioni nelle striminzite trentasei righe di premessa, ha dichiarato di aver fatto un montaggio, che i testi erano stati scritti da bambini di varie scuole, di chissà quali anni, che il libro insomma era suo. A un certo punto: cioè esattamente quando i genitori dei bambini, impressionati dalle vendite del libro, hanno rivendicato per i loro figli i diritti d'autore. Altro che "buoni e santi ricordi", altro che salvarsi; si tratterà piuttosto di cercar di capire chi si debba temere di più: chi ti usa e ti cancella o chi si ricorda di te solo quando gli sembra che tu possa fargli avere danaro? lo non lo so, chi tra questi si debba temere di più, ma - circa i ricordi, "buoni e santi", che quei bambini potranno custodire dalla loro infanzia - non posso non fare un'ulteriore congettura: c'era un clima pessimo, un clima particolarmente nefasto,un clima schifoso. 

Il 9 ottobre 1917 Karl Kraus scriveva: "Risparmiate i bambini si legge su tutte le strade della Svizzera. Al contrario, i temi di tedesco, assegnati a scelta nella Kaiser Karls-Realschule di Vienna, III distretto, hanno questi titoli: 'Una gita.' (...) oppure "Resistere! Riflessioni dopo l'ottava battaglia dell'lsonzo.' oppure 'Passeggiata autunnale. Quanto può il clima influenzare lo sviluppo spirituale dell'umanità?' (...) oppure 'Destino umano, come sei simile al vento! (Goethe).' (...) Oppure 'I miei pensieri davanti al monumento di Radetzky.' (...) 

lo non sarei in grado neanche oggi di descrivere una gita o una passeggiata autunnale, e mi sia di conforto la consapevolezza che neppure Goethe sarebbe stato capace di comporre un tema dalla sua citazione (...); quanto poi alla domanda, quanto il clima possa influire sullo sviluppo spirituale dell'umanità, si potrebbe rispondere al massimo che deve essere un clima schifoso, se ha portato 

l'umanità a scannarsi a vicenda per mangiare di più, ed i superstiti a rapine reciproche per non morire di fame e lo stato ad impiccare le vittime invece degli strozzini. In particolare però potrei accennare solo a questo, che il nostro clima particolare è particolarmente nefasto, se lo sviluppo spirituale deve essere giudicato non solo dalla situazione bellica, ma anche dal sistema idiota e deleterio dei compiti scolastici di tedesco; sistema che, come capisco da questi esempi, non è mutato di un'acca negli ultimi trent'anni." (K. Kraus, Elogio della vita a rovescio, Studio Tesi 1988). E nemmeno negli ultimi settanta, come si può vedere da esempi che qui non farò, rimandando semplicemente all'indice del libro di D'Orta.

Non è certo la prima volta che ci si trova di fronte a una nefanda per definizione operazione commerciale; nemmeno è la prima volta che ci si trova di fronte a un documento sconfortante di nefande pratiche didattiche ben vive nelle nostre scuole; nemmeno è la prima volta che nefandamente si folclorizza su Napoli e sui bambini, giacché le strade del colonialismo e del razzismo sono sovra temporali e all'incirca dello stesso numero delle vie del Signore; ma il problema sta proprio nel fatto che non si tratta della prima volta, bensì di ancora una volta. Certo, ognuno può dedicarsi con meticolosa applicazione alla nefandezza che preferisce, ma io vorrei ricordare quel che diceva Giovenale: "Se prepari qualche nefandezza, abbi almeno il massimo rispetto per l'infanzia" (Satire, XIV). Sì, rispetto: una parola così semplice e forte da fare paura, perché presuppone che l'altro esista davvero. Non si tratta di fare del bambinismo, di darsi un sentire ideologico, di spalmarsi addosso appiccicaticce melasse; anche perché io proporrei piuttosto di assumere a principio quello che diceva Femand Deligny: "Bettelheim dice che bisogna amarli. Ma non mi faccia ridere. lo dico: bisogna rispettarli. Quello che mi irrita è l'indigestione di affetto che si fa subire ai ragazzi, è da questa indigestione che nasce lo scompenso. Picchiare i ragazzi non è grave, soffocarli è tremendo." (F. Deligny,I ragazzi hanno orecchie, Emme 1978; ma è questo un libro che non si trova più, e nemmeno si trova - ed è una mancanza ancora più grave -, dello stesso Deligny, lo straordinario I vagabondi efficaci, Jaca Book 1973). Proporrei di assumere questo non certo perché ritenga che i bambini debbano essere picchiati o si debba non amarli, ma perché nel rapporto educativo - almeno fino a quando non si diventi cronopios ("Un cronopio ha un figlio e subito è rapito in estasi (...). Il figlio, come è ovvio, lo odia senza eccezione di sorta (...). Però i cronopios non se la prendono molto perché anche loro hanno odiato i genitori, e anzi si direbbe che questo odio sia uno dei nomi della libertà e del vasto mondo." J. Cortàzar, Storie di cronopios e di fama, Einaudi 1971) - uno dei rischi  più incombenti è la prevaricazione, anche da parte dei benintenzionati.

lo speriamo che me la cavo è il prodotto di una cultura che tutto prevede ma non il rispetto per i bambini, e in quanto tale è un libro pericoloso; e non è un libro divertente. Non importa che contenga espressioni divertenti, il problema vero è che di quei modi espressivi, di quei bambini, di quelle condizioni di esistenza, come ha scritto con la consueta acutezza Antonio Faeti su "l'Unità" del 4 aprile '90 - in tutti i salotti italiani si ride sconciamente. E non è un libro divertente, non può esserlo, perché è il prodotto di una cultura che non considera i bambini se non quando garantiscano in qualche misura lo spettacolo; una cultura che si serve di loro, nutrendosi di violenze e mistificazioni e chiudendo il suo squallido pasto con il dessert stomachevole del "dolce" e dell' "ingenuo" o del "poverino è stato violentato". Stomachevole, sia chiaro, non certo perché i bambini non abbiano dolcezza e ingenuità o non subiscano violenze, bensì perché semplicemente falso, posticcio, pretestuoso - e guardonesco, anche.

Prendere la parola, prendersi le parole, è quanto di più arduo; eppure è possibile, e probabilmente è qualcosa che ha molto a che vedere con ciò che ha qualche senso. E parlare, dirsi e dire - e scrivere, quindi - può anche portare ai più diversi esiti, anche tra i bambini. La scuola potrebbe essere un luogo all'incirca privilegiato; questo però può avvenire soltanto là dove ci si dia da fare a praticare un uso realmente libero del linguaggio, ma un uso realmente libero del linguaggio può aversi soltanto là dove lo si assuma come una costante e non come un evento - come il respiro, insomma -, e invece la costante è per lo più il non uso del linguaggio, la degenerazione in stereotipo, la riduzione a secchezza o a vuoto, e troppe pratiche didattiche sono improntate a sottolineare la forzatura e l' estraneità, il dire a comando, l' artificio. Un uso realmente libero del linguaggio si può avere soltanto là dove si bandisca ogni pretesa di esemplarità, ogni pretesa di "poeticismo", ogni forzatura che non sia il semplice fluire della forza della necessità di dire. La necessità di dire, non il forzare a dire, o l'estrapolare canagliescamente le tante squisite espressioni di cui i bambini sono generosi emittenti.

In questi mesi è uscito un altro libro che si presenta come un'occasione in cui si dà la parola ai bambini: M.R. Parsi, I quaderni delle bambine, Mondadori 1990. Anch'esso è un libro in cui compaiono testi scritti da bambini - tutte bambine, in questo caso -, e sono testi che raccontano di abusi sessuali esercitati su di loro dagli adulti. Non si tratta di testi resi anonimi, ma correttamente attribuiti alle loro autrici, i cui nomi, giustamente, non sono quelli reali; e si tratta di testi nati all'interno di un trattamento psicoterapeutico, trattamento di cui nel libro si parla - seppure molto parcamente, in qualche nota e nelle brevi presentazioni dei venticinque "casi".

È questo, senza dubbio, un libro diverso da quello di D'Orta; eppure, all'incirca, altrettanto equivoco. Sì, equivoco, perché ancora una volta dell'infanzia si parla soltanto per le situazioni estreme, per le situazioni in qualche modo spettacolari, contribuendo così forse anche a stuzzicare interessamenti morbosi. Sì, equivoco, perché quelle bambine, le loro esperienze tragiche, le loro vite private di tenerezza e rispetto e amore e riempite invece di violenza, di cancellazione, di uso annichilente, vengono esposte, poste in vetrina. E questa è un'altra violenza, gravissima anch'essa. Perché farlo? Abbiamo forse bisogno dei dettagli delle violenze subite, per prendere coscienza? Se è così, siamo anche noi violentatori, e non sarà certo inorridendo che rimedieremo alla violazione subita o alla violenza ulteriore. E non c'è solo questo; c'è anche almeno un altro problema: sono molte le persone che non abusano sessualmente dei corpi dei bambini, ma tra queste - e, ripeto, sono molte - ce ne sono troppe che violano comunque le loro vite: trascurandole, posponendole, deridendole, ignorandole, disprezzandole, non rispettandole.

Tacere e far tacere, allora? No di certo, decisamente. Si tratta piuttosto di dire molto di più; parlare e fare parlare, e molto di più - semplicemente: sempre -, e ascoltarli davvero - semplicemente: sempre - i bambini; e parlare con loro davvero, e molto di più; e farsi ascoltare da loro. Per dare loro "buoni e santi ricordi" da custodire dalla loro infanzia? Per contribuire in qualche modo alla loro salvezza? Certo - e perché no? -. Ma anche per la salvezza nostra, perché dai bambini - e sia il libro di D'Orta sia quello della Parsi, pur nella loro equivoca essenza, non fanno che confermarlo - possono arrivare illuminazioni prodigiose, per esempio sul senso del ridere e del piangere, sull' essere e sull' avere, sull'oggi e sul futuro, sul progettare e l'andarsene, sul clima, sulla tristezza. E sulla difficoltà di dotarsi di ricordi "buoni e santi".

  Può darsi che, più di Aljosa Karamazov, abbia ragione Wilbur Giunchiglia - Il Swain: "Posso pensare a un'altra forma di educazione accelerata per un bambino che, a suo modo, è quasi altrettanto salutare: conoscere un essere umano che goda la massima stima del mondo degli adulti, e accorgersi che quelI'individuo è in realtà un pazzo criminale." (K. Vonnegut, Comica finaIe, Elèuthera 1990). Può darsi, non lo so. In ogni caso mi sembra che l'accorgersi di un siffatto individuo, il fare tale scoperta, non potrebbe che essere annoverato fra i ricordi "buoni e santi": Il vero problema è un altro, fastidioso come un sasso nella scarpa e grande come un macigno: nonostante quel che certe accorate indignazioni possono suggerire, ad aggirarsi e agire, più che pazzi criminali, sono furbi mediocri, abili mercanti, sottili profittatori.