Silvio D'Arzo e la cosiddetta letteratura per l'infanzia Intervento alla Giornata di Studi su Silvio D'Arzo - Reggio Emilia, 13 aprile 2002 pubblicato in Silvio D'Arzo scrittore del nostro tempo (Aliberti ed. 2004) |
«Non c'è gran che da aspettarsi da un maestro di scuola, questo lo so come ogni altro: ma in quella storia io passai sul serio la parte». Comincia con queste parole Un minuto così, racconto dolente e bellissimo. Ma qui non lo cito per questo, né per la sua importanza nel lavoro darziano, bensì per la lettera di quelle parole. Infatti, quanto esse siano dolorosamente vere mi è molto chiaro, e per nient'altro che per la brutale ragione che
anch'io sono un maestro di scuola. Chissà se arriverò ancora una
volta a «passare la parte». Quel che è certo è che io intendo
qui senz'altro attenermi al compito che mi è stato assegnato, ma
altrettanto certo è che intendo prendermi la libertà di fare
anche un'altra cosa, e forse anche due. Il
compito assegnatomi è parlare della produzione darziana per
l'infanzia, ed è un compito che mi attira moltissimo ma mi genera
anche un notevole imbarazzo, giacché la volta scorsa, vent'anni
fa, a parlare di questo argomento in questa stessa sede era Anna
Luce Lenzi, nei confronti della quale il debito è nient'altro che
totale. L'altra
cosa, e forse anche due, altrettanto certa è che intendo
approfittare dell'occasione per tessere un inequivoco e accorato
elogio delle azioni spregevoli ma su questo vorrei per il momento
rimanere sul vago. Aggiungerò
anche di essere un maestro che ha molta voglia di cambiare scuola.
E questo perché voglio una scuola in cui ci sia un Bidello che si
chiama Gau. Di lui ho ben poche notizie, ricavate soltanto da una
poesia di Silvio D'Arzo. Una poesia in calce alla quale una
piccola nota dell'autore informa di come il testo sia tratto «Dalla
canzone che il Bidello Gau canta sull'organetto la Domenica»; una
poesia che comincia così: «I bambini hanno il vestito nuovo,
turchino, oggi, perché / debbono andarsene, in fila, sotto il
sole, / alla vecchia Collina di Pictown». È un giorno
particolare, un giorno in cui le campane suonano, «e i ragazzi
lasciano in pace le lucertole» e «neanche l'Oca schiamazza,
oggi, perché / il Buon Maestro va oltre la Collina. / Domani
sentirà l'erba su di sé». Spira
di là una quiete struggente come un'ansia. E spira, qui, un'ansia
priva affatto di quiete: è il gelido pensiero che solo
l'organetto di Gau possa fare leggère quella terra e quell'erba
che verranno. Ma poi, e d'altrettanto gelo, spira forte anche un
dubbio: il dubbio che a mancare non sia tanto il Bidello cantore,
quanto invece piuttosto l'oggetto del cantare: il Buon Maestro,
insomma. Bisognerà cercare. Quel
che del «D'Arzo per ragazzi» ci è pervenuto, pubblicazioni
postume e inediti, è databile alla seconda parte degli anni
Quaranta e al confine con i Cinquanta, ma l'interesse di Silvio D'Arzo
per la cosiddetta letteratura per l'infanzia è riconducibile
documentatamente alla fine degli anni Trenta. Risale infatti al 12
febbraio 1943 una lettera di Enrico Vallecchi a Silvio D'Arzo,
nella quale l'editore dice di voler «sapere se vi sorriderebbe
l'idea di scrivere per conto nostro un libro per i ragazzi. Con la
vostra fantasia, che si accende anche nelle occasioni più
modeste, mi sembra che potreste riuscire brillantemente anche nel
settore della letteratura infantile» . La
risposta di D'Arzo è non solo entusiastica, ma rivelatrice di un
interesse da tempo ben coltivato: «E veniamo, ora, al libro per
ragazzi. Vi dirò senz'altro che la vostra proposta mi fa
riaffiorare un vecchio e mai soddisfatto desiderio di scriverne
appunto uno, al modo mio. Cinque anni fa circa [cioè almeno
intorno al 1938], leggendo il Perrault, prima, poi, poco dopo, J.
Matthiew Barrie, scoprii - checché il Croce voglia pensarne in
merito - degli orizzonti inaspettati, vastissimi, un miracolo
nella letteratura per bambini: un campo nuovo, o quasi - non
credete? - benché di, diciamo, coltivazione assai difficile. Più
volte ci ho pensato, vi ripeto, e la vostra proposta mi giunge
assai a proposito, come una parola dell'amico che invita a
lasciare certe timidezze: e - poiché, Iddio volendo, fra due
mesi, avrò tutto il giorno a mia disposizione -
mi applicherò
senz'altro, con un ardore, vedrete, affatto nuovo, perché
desidero scriverlo, soprattutto, a un modo mio, che non può
trovare la sua completa espressione se non in un mondo fatto per
bambini». Entusiasmo,
sì, e anche apprensione, giacché D'Arzo scrive che «è proprio
un dono che mi fate, benché di squisita fattura, da destare
- delicato e perfetto e fragile com'è -
un po' di
preoccupazione e di
timore». Comincia
così, con questo scambio di lettere, un percorso che durerà
anni, e sarà avventurosamente costellato di progetti,
anticipazioni, ripensamenti, dubbi, slanci, insistenze,
incomprensioni. E quel che Vallecchi aveva acutamente intravisto,
cioè il fatto che D'Arzo potesse «riuscire brillantemente anche
nel settore della letteratura infantile», sarà sempre
accompagnato dalla consapevolezza del rischio che «certi
resultati magici della vostra prosa» possano dimostrarsi «non
adatti per i piccoli lettori, i quali non rintraccerebbero il
valore evocativo di gesti, situazioni, ecc». D'Arzo
lavorò molto al «libro per ragazzi», tanto che arrivò a
scriverne in realtà ben più di uno, e nel carteggio con
Vallecchi se ne trovano in abbondanza titoli e trame, abbozzi e
fantasmi, ombre e figure massicce. Quanto ai «resultati magici»
della propria scrittura, ne tenne ben conto, ma non certo per
banalizzarsi o impoverirsi, bensì per spendersi ancora di più,
se possibile, preoccupato di evitare quella «goffa mediocrità»
che aveva riscontrato nella quasi totalità dei libri per ragazzi
alla cui lettura si era dedicato. Non è difficile credergli,
conoscendo lo scrupolo quasi maniacale con cui affrontava ogni
lavoro; né è difficile capire e condividere quel giudizio
desolato, pensando a molta desolante produzione italiana del
periodo. D'Arzo
considerava la scrittura un'attività che poteva fornire senso
all'esistenza, non certo un surrogato dimesso del vivere, ed era
persona troppo seria ed esigente per potersi concedere il lusso di
assentarsi, seppure temporaneamente e parzialmente, dal proprio
fondo profondo; inoltre considerava i bambini e i ragazzi prima di
tutto persone serie. Molto probabilmente perché sapeva bene di
quanta e quale alterità essi fossero inesorabilmente portatori; e
perché altrettanto bene sapeva quale ricettacolo di dolore, di
disillusioni, di immedicabilità potesse essere il tempo
dell'infanzia. Bisogna
poi considerare anche il fatto che D'Arzo, come già ricordato,
aveva cominciato a muoversi nella cosiddetta letteratura per
l'infanzia a partire da Perrault e da Barrie; progettava «uno
studio abbastanza lungo su "Tre viaggi": quello di
Gordon Pym, quello del capitano Achab di Moby Dick, quello dell'Hispaniola
di Stevenson»; si accingeva a tradurre Peter Pan; inoltre pensava
a modelli come il Kipling «senza trombe» delle Storie proprio
casi e dei Libri della giungla, come Conrad, come
Stevenson, «benché, adesso, io sia del parere che viaggi per
mare, con pirati e tesori, siano troppo pericolosi, dopo che
Stevenson ci ha messe le mani». Purtroppo,
del progettato studio sui «Tre viaggi» non ci è arrivato nulla,
ma a Stevenson D'Arzo ha dedicato almeno due saggi del 1950, che
sono bellissimi e molto ci dicono della particolare sintonia tra i
due scrittori. Dal
carteggio con Vallecchi (Silvio D'Arzo-Enrico Vallecchi, Carteggio
1941-1951, a cura di Anna Luce Lenzi, pubblicato nel 1984 da
Mucchi come numero 15/16 di «Contributi», periodico della
Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia) si ricavano notizie su quei
libri che in seguito si è arrivati a conoscere, ma anche numerosi
accenni a trame poi abbandonate, o magari sviluppate altrove, e
anche forse in qualcosa ancora da scoprire, giacché, con D'Arzo,
di scoprire non si finisce mai. Ma dal carteggio si ricavano anche
strani silenzi, e accenni estremamente fugaci, abbastanza
inspiegabilmente lasciati senza riprese. Per esempio, è solo alla
data del 20 settembre 1949 che si trova un accenno a «un mio
libro per ragazzi "Tobia in prigione" (una storia di
castori»>, accompagnato dalla rivelazione di averlo «venduto
per 20 anni a Paravia, che me lo ha pagato veramente in misura
soddisfacente»; e due mesi più tardi, nel dicembre di quello
stesso 1949, D'Arzo dice a Vallecchi di avere scritto «un breve
libro per ragazzi, che, ti giuro, mi ha divertito e riposato
assai: Il pinguino senza frac». E aggiunge: «Non credere
che questo sia un disperdersi: alla storia del pinguino povero,
che non può andare nemmeno a scuola assieme agli altri perché è
così povero da non potersi comprare il frac, e se ne va a
lavorare per il mondo, fra foche e gabbiani, e crede di essere
diventato matto perché s'accorge che anche l'orso, e anche il
terribile uomo, piangono come lui, soffrono come lui, sono, in
fondo, come lui (e in questo tutti gli animali trovano la loro più
intima e profonda parentela), e ritorna al suo vecchio paese più
triste e povero di quando era partito, ma ecco che si accorge che
gli è spuntato il frac più splendido immaginabile (e gli altri,
al confronto, sono povere e vecchie cose), questa storia, dico,
scritta per ragazzi, mi ha servito a chiarire molte cose». Ecco,
su questi due titoli nient'altro, nel minuzioso carteggio. Eppure
D'Arzo ruminava a lungo i suoi libri; e questi due racconti,
pubblicati nel 1983 da Einaudi in un volume della collana «Libri
per ragazzi» con il titolo Il pinguino senzafrac e Tobby
in prigione, sono due racconti compiutamente elaborati: nella
partitura, nelle cadenze, nei richiami, nelle profondità, nelle
levità, nelle ossessioni. Due
racconti molto belli, che però sarebbe vano cercare in libreria.
La collana einaudiana è chiusa da tempo, e non si intravedono,
nel pur vivace panorama dell'editoria italiana per ragazzi,
editori plausibilmente interessati a riproporli. Aggiungerò anche
di averne proposto la ripubblicazione, e precisamente alla casa
editrice che ha rilevato quella gloriosa collana. Ripubblicazione
da attuare subito dopo la riproposizione dell'altro libro darziano
«per ragazzi», il bellissimo Penny Wirton e sua madre. Ma
la risposta dell'editrice fu inequivoca: no, perché si
trattava di una «operazione culturalmente inutile». Non, come
io avevo ingenuamente immaginato, una iniziativa «commercialmente
disastrosa», bensì una «operazione culturalmente inutile». Una
risposta in sintonia con la mia ingenua immaginazione l'ho
comunque ricevuta: Penny Wirton e sua madre non uscirà
nella collana «Tascabili Einaudi», dove già si trova, per le
ottime cure di Eraldo Affinati, Casa d'altri. No, anche
se mi si ringrazia molto per la bellissima proposta, non uscirà,
perché si tratta di una proposta che non regge
commercialmente, essendo andato male anche Casa d'altri, che
non avrebbe raggiunto minimamente gli obiettivi prefissati.
E così quello che a me sembra il più bel libro «per ragazzi»scritto
in lingua italiana dopo Pinocchio, dopo essere stato edito
nel 1978 da Einaudi in una infelice collocazione che non poteva
che portare alla conseguenza di non farlo arrivare né agli
adulti né ai ragazzi, non uscirà come libro
autonomo. L'edizione
del 1978 collocava Penny Wirton nella «sottocollana» «Struzzi
Ragazzi», cinque-sei titoli nella selva delle centinaia degli «Struzzi»
tout court: una collana in cui i ragazzi non vanno
normalmente a frugare, e i cui lettori abituali, noi «grandi»,
troppo raramente siamo di tale «buona volontà» da essere
disponibili a liberarci dell'incrostazione di puzza che ristagna
sotto il nostro riverito naso e della codardia mascherata da
maschia baldanza che genera il bisogno di catalogare e recintare
nel trionfo del sistema filosofico dell'Ignoranza Sintetica a
Priori. Anche Attilio Bertolucci aveva biasimato la scelta di «ghettizzare
il mirabile racconto nella pur ottima collana «Struzzi Ragazzi»»
e scriveva: «Penny Wirton andrà collocato fra L'isola
del tesoro e Huck Finn: che stanno sia nella biblioteca
dei ragazzi che in quella dei grandi. Libri sfuggenti e alati,
possono spostarsi dall'una all'altra perché hanno la natura di
Ariele. […] i grandi, cui oggi caldamente raccomando il libro,
spero non abbiano il palato così guasto da trovare Penny
Wirton un tantino, come dire, semplice. Mi credano, è molto
più complesso e labirintico di quel che non sembri, anche se
risolto con solare chiarezza, giusta la lezione di quel Robert
Louis Stevenson da Silvio D'Arzo tanto amato». Sì,
la sintonia di D'Arzo con Stevenson si è espressa nella sua cifra
più alta proprio in Penny Wirton e sua madre. Un libro
databile al 1948, sulla cui prolungata e complessa stesura, e su
quel che per D'Arzo rappresentò, si può leggere molto nel
carteggio con Vallecchi. Un libro che costituisce un documento
importante anche della dolorosa vicenda biografica di Ezio
Comparoni, ma che testimonia esemplarmente quale considerazione
effettiva egli avesse dello scrivere «per ragazzi» Un
libro carico di contenuti forti ma assolutamente privo di
pesantezze e moralismi; un libro che in piena levità si distende
sulle vicende interiori e sulle dinamiche sociali senza mai cadere
nella precettistica e nella noia. Penny
Wirton e sua madre racconta
la storia di un ragazzo che vive solo con la madre nella contea di
Pictown, luogo immaginario quanto lo è il Settecento in cui è
collocata la vicenda. Vicenda da leggersi senza intermediari, e
che quindi non racconterò. Dirò solo che, oltre a Penny e sua
madre, ci sono i suoi spocchiosi compagni di scuola; il Supplente,
«Baccelliere d'Arte e maestro di scuola»; il Cieco, un
mendicante cantastorie imbroglione che diffonde immani panzane e
scomode verità; l'oste della locanda di Shorly, il Cancelliere di
Villa, il Primo Intendente, il Referendario, il Procuratore Sìgnifero,
il Maestro Aulico, i briganti della Compagnia del Coltello; e c'è
una commedia che salta, e un rapimento, e una fuga da casa, e
bambini che non nascono più, e un Cancelliere che sbianca di
fronte ad un certo biglietto e allora ritira l'accusa, cosa che
fanno anche il Primo Intendente di Villa e poi anche il Vice e il
Consigliere di Prima e Ultima Istanza. E c'è la Collina, e lassù,
dietro un cancello, ogni notte i morti parlano a lungo - quelli
che qualcuno ricorda, però, perché chi sfuma dalla memoria dei
vivi svanisce nel nulla. E sulla Collina, là, dietro il cancello,
c'è il padre di Penny, e sua moglie ogni notte si reca a
parlargli, e discutono a lungo perché lei ha detto al figlio: «Nessun
uomo (di questo puoi stare tranquillo) valeva l'ombra del suono
del tacco del tuo povero padre. Con un pezzo di sciabola in mano e
un cavallo sotto di sé, sapeva fare cose da libro, da cantarsi
alle fiere per anni. Come del resto è accaduto. E prima di
marciare per la brughiera di Fellow, dove doveva cadere, per
tradimento o disgrazia o tutti e due messi insieme (perché mai
una causa soltanto riuscì ad avere ragione di lui), mi disse
questo e nient'altro: "io voglio che mio figlio sappia un
giorno combinar tante cose da farmi vergognare delle poche che ho
fatto..." Capisci lo stile, ragazzo? Beh, questo era tuo
padre». E lui invece vorrebbe che Penny sapesse la verità, che
il suo idolatrato padre non era altro che un povero sellaio. Verità
che Penny un giorno scoprirà, e ne deriveranno conseguenze che
qui non dirò.
Poco tempo dopo la pubblicazione di Penny Wirton e sua madre uscì
su «Il Ponte» un saggio di Rodolfo Macchioni Jodi intitolato Silvio
D'Arzo narratore «per ragazzi». In esso non si parlava
soltanto di Penny, del Pinguino senzafrac e di Tobby
in prigione, ma si parlava anche di altri lavori «per ragazzi»:
Una storia così e Gec. Vero è che Macchioni parlava di Gec
come se fosse un'unica cosa con Gec dell'avventura -
mentre quest'ultimo, come ha precisato Anna Luce Lenzi in una nota
del Carteggio D 'Arzo- Vallecchi, era invece uno dei titoli
che D'Arzo provvisoriamente appose a quel che sarebbe poi
diventato Penny Wirton e sua madre -
ma, al di là
dell'equivoco, Macchioni parlava di una storia precisa, e ne
parlava raccontandone ampiamente la trama, senza lasciare margini
di dubbio. E scriveva che in Gec, «ancora un po' acerbo
nella struttura e nello stile», D'Arzo faceva «confluire
ingredienti di diversa estrazione», sovrapponendo a «una trama
narrativa prevalentemente legata ai fasti della tradizione
animalista quella in qualche modo collegabile alla dissacrazione
delle «Ghost-stories» posta in atto, fra gli altri, da Oscar
Wilde nel Fantasma di Canterville». Macchioni raccontava
la trama del libro, precisando che il «protagonista è Gec il
bambino che non vuole nascere "con la camicia", simbolo
proverbiale della fortuna. Si capisce che nel rifiuto, che
comporta una volontà attivistica (la fortuna uno se la deve
conquistare da solo, non possederla per diritto di nascita),
risiede la morale del libro, dietro la quale non è difficile
intravedere una matrice autobiografica, ove si tenga conto che
l'autore, nato povero e senza padre, veramente "senza
camicia", aveva dovuto farsi da sé». Non
era sicuramente una storia all'altezza di Penny, da quel
che ne raccontava Macchioni, il quale sottolineava inoltre che «se
sul piano strutturale Gec si sdipana abbastanza
scioltamente sotto la spinta di un'immaginazione che si sintonizza
su alcuni motivi tradizionali, sul piano stilistico esso si
mantiene di qua dal linguaggio più tipico e personale di D'Arzo.
Parrebbe quasi che, preoccupato di riuscire accessibile al piccolo
lettore, rinunci agli estri, alle cadenze che meglio lo
caratterizzano, magari a costo di apparire frettoloso o banale,
col risultato di suscitare l'impressione di trovarci di fronte ad
una testimonianza appartenente alla sua preistoria». Oltre
Macchioni, in seguito parlò di Gec soltanto Anna Luce
Lenzi. Ne parlò al convegno darziano del 1982, poi in Silvio
D'Arzo, l'isola e il mondo, poi nel Carteggio D'Arzo-
Vallecchi. E anche lei, ripetutamente, sottolineava come Gec
si presentasse non risolto. Sì,
ogni volta che vi si accennava, la sola conferma era che non si
trattasse di una storia del livello, di Penny. Però mi
sarebbe molto piaciuto potere leggerlo, l'inedito Gec. Poi,
un giorno, successe una cosa. Mi
trovavo in vacanza in una cittadina piemontese e, in un giorno di
pioggia, curiosavo svagatamente in una libreria che allineava
sugli scaffali, secondo criteri indecifrabili, libri di ogni tipo
e d'ogni tempo: novità, libri introvabili, pezzi di antiquariato,
poesia, fumetti, saggistica, gialli, manuali del pescatore, guide
turistiche, classici della filosofia. Uno stordimento, insomma. Mi
capitò di posare lo sguardo sulla costa bianca di un libro.
Sfilandolo, la copertina mi lasciò indifferente: brutta
illustrazione, autrice sconosciuta, editore Morano. Riposi il
libro e andai oltre. Qualche metro più avanti, però, cominciò a
rodermi un tarlo. Non un pensiero; una «cosa» indistinta, un po'
come se fossi rimasto impigliato e mi sentissi trattenere. Ripresi
il libro dallo scaffale e, nonostante una seconda occhiata senza
vita alla copertina, lo aprii. E fu un colpo secco. Incipit:
«Io sono nato con la camicia e mi trovo benissimo. Se scrivo un
libro c'è subito chi me lo stampa; se chiedo al cameriere un
pezzo di torta mi capita quello con la ciliegina candita; se gioco
alle corse dei cavalli, perdo è vero, ma trovo sempre chi ha
perduto più di me. Io dalla vita non ho avuto amarezze e se
dovessi rinascere, sempre vorrei rinascere con la camicia. Perciò
ho trovato stranissima la storia di Gec, il bambino che non voleva
nascere con la camicia» . Gec.
Non poteva essere altro che Gec, il cui incipit ricordavo
perfettamente per averlo letto e riletto mille volte nei saggi di
Macchioni e della Lenzi. E così acquisiva anche un'altra luce il
titolo del libro che avevo tra le mani: Una camicia per Gec scelta
redazionale o reperto delle carte di D'Arzo, aveva poca
importanza. Quel che importava era che si trattava di Gec. E
non solo: mi faceva una certa impressione pensare che nel 1960,
cioè lo stesso anno della pubblicazione del vallecchiano Nostro
lunedi curato da Macchioni Jodi, e a otto anni dalla morte di
D'Arzo, l'editore Morano ne pubblicava un libro di cui nessuno si
era accorto, di cui nessuno sapeva nulla. Ma
c'era dell'altro, ed era la scoperta (giacché questo fu il mio
primo ed euforico pensiero) dell'ennesimo pseudonimo di Ezio
Comparoni. Ora, nella lista, a Silvio D'Arzo, Raffaele Comparoni,
Andrew MacKenzie, Sandro Nedi, Sandro Nadi, Ignoto del XX secolo,
Oreste Nasi, Andrea Colli, Aldo Colli, Aldo Collin, si aggiungeva
quest'altro: «Mariangela Cisco». Che si trattasse di pseudonimo
femminile non era troppo strano; pur senza mai individuarne
alcuno, almeno una volta, in una lettera a Vallecchi, D'Arzo
stesso aveva ipotizzato di servirsene. Ma,
subito, all'euforia della scoperta si affiancò un sospetto
torbido. Il sospetto che non di pseudonimo si trattasse, bensì di
appropriazione indebita, furto, trafugamento, plagio. In effetti,
qualche giorno dopo, una sommaria ricerca in biblioteca mi fece
scoprire che Mariangela Cisco era una persona reale: oltre a Una
camicia per Gec aveva pubblicato nel 1971 un libro da Rizzoli,
L'ultima cicogna, nella collana «I Gemelli» curata da
Giovanni Arpino. Intrapresi
così una ricerca -
o, per meglio dire, una caccia - in due direzioni: il
dattiloscritto dello pseudoinedito darziano e Mariangela Cisco. Mi
rivolsi a Maurizio Festanti, direttore della Biblioteca Panizzi di
Reggio Emilia, ma Festanti mi rispose che Gec non si trova
tra le carte possedute dalla Biblioteca di Reggio, e potrebbe
essere tra i materiali di D'Arzo detenuti dalla inavvicinabile
vedova di Macchioni Jodi. Imboccai
allora un'altra strada. «Ringrazio Carlo Carena e l'editore
Einaudi per averrni concesso la lettura del dattiloscritto inedito
Gec», aveva scritto Anna Luce Lenzi in una nota del suo
saggio Silvio D'Arzo narratore per ragazzi. E io chiesi
alla Lenzi, e a Carena, e all'Einaudi, ma nessuno aveva quel
dattiloscritto. Poi, finalmente, riuscii ad averlo, su indicazione
della Lenzi, dalle edizioni Quodlibet di Macerata. Per
quel che riguarda Mariangela Cisco, la ricerca fu ancor più
difficoltosa. Da Morano mi dissero che, trattandosi del 1960, era
trascorso troppo tempo e non avevano alcuna documentazione (ma
avevano ancora copie del libro, e avrebbero provveduto a farmelo
avere, al minimo accenno); da Rizzoli mi diedero un indirizzo
romano, aggiungendo però che probabilmente si trattava di un
recapito inutilizzabile perché nel 1976 una lettera era stata
rispedita in casa editrice essendo il destinatario sconosciuto a
quell'indirizzo. Arpino era morto. Morano era morto. Macchioni
Jodi era morto. Sottosopra la Vallecchi. Inavvicinabile la vedova
di Macchioni. Vangai
e rastrellai a lungo il mondo editoriale (e potrei fare anche un
lungo elenco di nomi), senza arrivare a nulla. Poi, purtroppo,
venni a sapere, da suo fratello Giulio, che Mariangela Cisco non
c'era più. Le
differenze tra il dattiloscritto e il libro di Mariangela Cisco
sono minime, e potrebbero essere definite come interventi di
semplificazione e banalizzazione. Nel 1997 ho raccontato la
vicenda in un saggio su «Linea d'ombra», e lì ho anche elencato
un certo numero di esempi di tali banalizzazioni. Mi limitavo a
elencarli, appellandomi a «studiosi seriamente attrezzati di
competenze specifiche» che puntigliosamente ponderassero il
tutto, cercando di appurare qualche verità. Si trattava di
sciogliere dubbi con implicazioni anche pesanti: Mariangela Cisco
era uno squallido sciacallo? Ezio Comparoni, o chi per lui, aveva
mercanteggiato? Oppure la Cisco era una innocentissima persona che
aveva scritto un libro, e una copia del suo dattiloscritto era
arrivata anonimamente a Macchioni Jodi e questi lo aveva
attribuito erroneamente a Silvio D'Arzo? Io avanzavo anche
l'ipotesi di qualche confusione vallecchiana: nel luglio 1977, una
lettera della Direzione Editoriale della Nuova Vallecchi Editore a
Macchioni Jodi diceva: «Cogliamo l'occasione per restituirle
insieme ai tre dattiloscritti di D'Arzo che ci richiede, anche
altre carte ancora giacenti nei nostri archivi». E seguiva un
elenco di quattro titoli in cui, oltre a Penny Wirton, il
Pinguino e Tobby in prigione, compariva anche, e al primo
posto, il titolo Pick. Un titolo, quest'ultimo, che non ha
alcun riscontro in alcunché, ma che costituisce in ogni caso un
segnale allarmante, per diverse intuibili ragioni. C'erano
poi anche altri segnali che riguardavano la Vallecchi, e li
sottolineavo nel mio saggio: Vallecchi era stato in quegli anni
l'editore di almeno un libro del fratello di Mariangela Cisco, e
lei stessa, in una lettera del 1963, aveva scritto che, per
aiutarla nella «gran fatica di trovare un editore», Vallecchi le
aveva consigliato di partecipare al Premio Laura Orvieto. Non si
poteva certo escludere che lei avesse dato in lettura qualcosa a
Vallecchi. (Scoprirò poi, e la scoperta è di qualche settimana
fa, che Vallecchi aveva pubblicato in quegli anni anche un libro
del marito della Cisco.) Avevo
pubblicato il mio articolo su «Linea d'ombra» con la speranza
che qualcuno si facesse vivo a gettare luce sulla vicenda. Non
accadde nulla, però. Chi ne scrisse lo fece per ribadire la
necessità di studiare Silvio D'Arzo o per sottolineare la
singolarità della vicenda. Per quanto mi risulta, l'unico a
essere entrato nel merito è stato, su «La rassegna della
letteratura italiana» del luglio-dicembre 2000, Roberto
Camero. Che ha scritto: «Quest'ipotesi di Pontremoli (la non
paternità darziana di Gec), che a prima vista potrebbe apparire
in una certa misura fondata, in realtà non sta in piedi, per una
semplice ragione: e cioè che, oltre al fatto (pur di per sé non
probante nulla) che a un titolo Gec D'Arzo faccia più volte
riferimento nelle lettere a Vallecchi (sia pure per racconti di
contenuto disomogeneo), tra le molte trame di racconti per
l'infanzia che di volta in volta fornisce all'editore ce n'è
anche una che corrisponde al Gec in questione (e ciò, invece,
appare probante). Scrive infatti a Vallecchi il 18 giugno 1945:
"Vedrai tu pure, fra qualche settimana, la storia della
solitudine, del bambino che dovrebbe nascere e non nasce, della
gran lezione che dà a quelli che vivono e non se ne
accorgono". Evidentemente a Pontremoli è sfuggito questo
piccolo dettaglio, che peraltro era sfuggito anche alla Lenzi, che
aveva scritto: "Si sa pochissimo di questo secondo Gec,
tuttora inedito: è già una cosa piuttosto strana che non se ne
parli mai con Vallecchi". È vero che lo scrittore nella
corrispondenza con Vallecchi non parla mai di Gec in congiunzione
ad una trama che coincida con quella del racconto in oggetto, ma,
pur senza titolo, il riferimento contenuto nella lettera citata
non lascia dubbi sull'identificazione del racconto». E
invece ne lascia, eccome. Anche perché non è che mi fosse
sfuggito quel dettaglio, il fatto è che quella che Camero ritiene
un'allusione a Gec è invece riferita allo sviluppo di Peccato
originale, quel che oggi conosciamo come Un ragazzo d'altri
tempi. Ma
c'è ancora dell'altro, ancora. Quando esposi i miei dubbi ad Anna
Luce Lenzi, lei mi disse che l'unica cosa forse che si sentiva di
potere affermare con certezza era che le correzioni interlineari a
mano del dattiloscritto pseudodarziano non fossero di pugno di D'Arzo.
Questo evidentemente non provava nulla, ma oggi, dopo avere preso
visione di diversi manoscritti, io mi sentirei di affermare che
quelle correzioni siano proprio di Mariangela Cisco. Sì, perché
finalmente, a distanza di anni, sul conto della Cisco sono venuto
a sapere qualcosa di più. Alla Biblioteca Bertoliana di Vicenza
esiste un fondo, non ancora catalogato ma consultabile, denominato
«Carte Mariangela Cisco», donazione del 2000 di Maria Ghellini
Traverso. E qui ho potuto vedere molte cose di qualche utilità.
Quel che riguarda Una camicia per Gec è tutto - a parte il
contratto con Morano,
datato Napoli 7 novembre 1959 -
successivo alla
pubblicazione:
ritagli di stampa che segnalano l'uscita del libro; lettere, in
entrata e in uscita, contenenti proposte di traduzione del libro;
uno «Schema di sceneggiatura televisiva per Gec» «<Proposta
per una serie di shorts pubblicitari televisivi in cartoni animati
per la "Cotonificio Valle Susa" [...] i sei schemi di
sceneggiatura per un ciclo di shorts pubblicitari da realizzarsi
in cartoni animati e destinati allo schermo o al programma
televisivo "Carosello". Protagonista, è un unico
personaggio, Gec, un bimbo che vive in una cornice di
fantasia, avventure prenatali, scanzonate e favolose»); la copia
di una targa attestante il conferimento del secondo premio
all'edizione 1961 del «Premio Castello, Concorso nazionale di
letteratura per ragazzi», assegnato a Sanguinetto, paese della
bassa veronese; l'attestazione - e la corrispondenza relativa,
nonché i relativi
ritagli di stampa -
della collocazione
al quarto posto nella «Lista d'onore
al Premio Andersen Award 1962», vinto quell'anno da Meindert De
long; inoltre, lettere di un avvocato incaricato di ottenere da
Morano il rispetto del contratto, pagamenti, copie del libro,
eccetera. Materiali, insomma, piuttosto consueti ma anche un po'
troppo «esposti» per un libro che non abbia un'origine più che
legittima. Frugando
tra le carte di Mariangela Cisco ho scoperto poi che prese parte
alla Resistenza a fianco dei «piccoli maestri» raccontati da
Luigi Meneghello; inoltre ho scoperto che era la moglie di Gigi
Ghirotti, giornalista autore di importanti inchieste, negli anni
Cinquanta e Sessanta, sulla malattia e sul sistema sanitario, sul
banditismo in Sardegna, sul «miracolo economico» e i suoi
squilibri, sui diritti civili, nonché autore presso Vallecchi
negli anni Cinquanta di un libro importante sulla magistratura.
Ghirotti, che è il partigiano di cui Meneghello racconta che
partecipava alle azioni della Resistenza senza fucile perché
antimilitarista ma portando sempre con sé la vanga per seppellire
i morti, morì il 17 luglio 1974 affetto da morbo di Hodgkin, la
stessa malattia che sette anni prima aveva ucciso don Lorenzo
Milani. Dico questo non per fare una digressione o un po' di
colore ma per una ragione che riguarda l'argomento di cui ci
stiamo occupando. Ghirotti nel 1965 era andato a Barbiana insieme
a un collega; era il periodo che don Milani chiamò del «blocco
continentale», cioè del divieto a intellettuali e giornalisti di
recarsi a visitare la sua scuola a seguito di equivoci e
fraintendimenti e un'ulteriore scontro con l'arcivescovo di
Firenze. Per l'insistenza di Giorgio Pecorini, che poi diventerà
il suo biografo e il suo studioso più attento, don Milani
concesse una deroga al «blocco» e Ghirotti, che allora lavorava
per la «Stampa», andò a Barbiana insieme a un giornalista del
«Resto del Carlino». Questo giornalista era Ferrante Azzali,
amico di Silvio D'Arzo. Azzali potrebbe avere avuto da Ghirotti un
dattiloscritto di Mariangela Cisco (o da lei stessa; purtroppo non
si può appurare alcunché, essendo Azzali morto il 15 settembre
1989), e potrebbe altresì averlo passato a Macchioni Jodi. Quanto
a Giorgio Pecorini, che non ha conosciuto Silvio D'Arzo ma ha
conosciuto e frequentato sia Azzali sia Ghirotti, alla mia
richiesta di notizie su Mariangela Cisco mi ha detto subito, senza
che io accennassi alcunché, che aveva scritto un libro per
ragazzi, Una camicia per Gec, e che ricorda bene un periodo
in cui, a cena tra amici, lei raccontava gli sviluppi della
storia. Tutto questo, evidentemente, non costituisce una prova, ma
incrementa sensibilmente i miei dubbi. Ma
c'è un elemento ulteriore - e questo lo si potrebbe anche
definire una prova - che mi fa pensare che il libro in questione
non sia da attribuire a Silvio D'Arzo. Elemento, questo, che mi è
stato segnalato da una giovane studiosa bolognese, Emanuela
Orlandini. A pagina 63 del dattiloscritto pseudodarziano, e a
pagina 90 del libro di Mariangela Cisco, compare questa frase: «Corsero
parole grosse: segreti atomici, ricerche nucleari, Sputnik».
Ebbene, il primo lancio dello Sputnik è avvenuto il 4 ottobre
1957, e ovviamente Silvio D'Arzo, che ci ha lasciati il 30 gennaio
1952, non può avere scritto quella frase. Sono
arrivato a questa conclusione senza baldanza, ma con un senso di
sollievo. Troppo grande, infatti, è la distanza, soprattutto nel
linguaggio, di questo Gec dal Pinguino senza frac, da
Tobby in prigione, da Penny Wirton e sua madre. E
Silvio D'Arzo ponderava una per una le sillabe, e non considerava
certo una vacanza lo scrivere «per ragazzi». E in una lettera a
Vallecchi, per esempio, scriveva: «Che ti piaccia o no io oso
sperare che tu ammetta che io ci abbia lavorato attorno come se
fosse un libro per uomini: e anche più». Se
la congiura congiunta di biologia e di storia non avesse prevalso,
forse oggi avremmo quella «Eneide del XX secolo» cui D'Arzo
pensava. Non è dato esserne certi, ovviamente. È certo però che
quel che ci ha lasciato lo fa fortemente supporre. Non mi
riferisco soltanto, beninteso, a Casa d'altri, o a Penny
Wirton. Penso, per esempio, anche a un racconto incompiuto
scritto probabilmente nel 1950 e intitolato kiplinghianamente Una
storia così. In esso, di cui ci è pervenuta soltanto la
prima parte, in sette capitoli, si racconta di un collegio alla
Dickens, il «Premiato Collegio Minerva», diretto da Tobia
Corcoran, il quale «aveva in testa soltanto un'idea. (E non una
alla volta, intendiamoci: no, il signor Tobia Corcoran sotto il
suo vecchio cappello aveva quella e poi quella soltanto. E non
sospettava nemmeno che qualche altro potesse pensarla in un modo
diverso dal suo, perché anche questa sarebbe stata un'idea, e lui
invece ne aveva una sola.) E
alla domenica, poi, com'è giusto e come vuole perfino la legge,
le concedeva libera uscita: dimodoché, per ventiquattr'ore
precise, in testa non aveva più neanche quella. E così stava
meglio del solito. Ed
ecco qui la sua idea: "Uno
studente dai sei anni in avanti non può compiere azione più
immorale, malvagia, spregevole, pericolosa, allarmante che leggere
libri che non siano i tre libri di testo. E
a sua volta un maestro dai vent'anni in avanti non può compiere
azione più infamante, allarmante, pericolosa, spregevole,
malvagia, immorale che far leggere libri che non siano i tre libri
di testo. Per
non aver nessun dubbio in proposito, i tre libri di testo son tre:
1. Trattato di geometria e d'aritmetica, del signor Tobia Corcoran;
2. Trattato di grammatica, del signor Tobia Corcoran; 3. Trattato
di analisi logica, del signor Tobia Corcoran. Durante
i cinque minuti di riposo agli allunni è concesso di ricrearsi
guardando le figure geometriche. Tenuto
conto però dell'indole particolarmente esuberante dei giovani
alunni, e in via del tutto eccezionale, il signor Tobia Corcoran,
emerito quanto modesto direttore da più di vent'anni del
'Premiato Collegio Minerva', si benignerà all'occorrenza di
derogare dalle norme su esposte: e, se i ragazzi lo avran meritato
durante l'intero anno scolastico, l'ultimo giorno di Carnevale sarà
in grande allegria festeggiato con la lettura in classe di una mia
visita alla raffineria di zucchero nella provincia di Portland del
signor Tobia Corcoran". Questo,
per dirvi che tipo». Un
bel tipo davvero, e parente stretto del signor Thomas Gradgrind di
Tempi difficili di Charles Dickens, il quale aveva in testa
soltanto che «In questa vita non abbiamo bisogno d'altro che di
Fatti, signore; nient'altro che Fatti!» e non faceva che ripetere
«Louisa, non immaginare mai!»; parente stretto anche di quel
maestro di una delle Storie del buon Dio di Rilke, che «va
misurando in lungo e in largo la strada con una faccia scura scura»
giacché «è sempre male, per un maestro, quando i bimbi imparano
qualcosa, e non sia stato, a narrarla loro, egli stesso». Però
un giorno accade una cosa; anzi, due. Accade che il signor
Corcoran si ammali, e lasci un appunto con la prescrizione delle
dosi di analisi grammaticale e di geometria e di calcolo da
somministrare ai ragazzi in sua assenza, nonché una ulteriore
nota accoratamente specifica relativa al divieto assoluto dei
libri: «Niente libri, niente libri e soprattutto niente libri».
Ma capita anche che arrivi al «Premiato Collegio» Teddy Tedd,
Maestro Supplente che, per avere qualche soldo con cui comprarsi
un vestito decente o almeno una giacca, si era messo a scrivere un
grosso romanzo. E Teddy Tedd, alla faccia del signor Corcoran,
appena arrivato al collegio «fece scendere tutti quanti i ragazzi
in giardino: li portò proprio dietro lo stagno, dove alberi e
siepi eran più fitti e più folti che mai, e distribuì un libro
a testa. Ecco qua. Per un mese non farete altro che leggere
questi: lo prescrive il nuovo programma. E adesso, buon appetito». Si
capisce che molte cose cambiarono: «I ragazzi non facevano che
leggere e leggere, e giocare a quel che avevano letto: ed erano
tutti più allegri che mai». E ogni sera, quando i ragazzi
rendevano i libri al Supplente, «nella stanza di questi si
ripeteva la medesima scena. Il primo a sbucar fuori era Tarzan
[...] dopo un po' tutti gli altri: Alice, col suo Coniglietto,
Pinocchio, i tre Porcellini, La Bella Addormentata nel Bosco,
Mowgly, Davide Copperfield, il piccolo Lord Fauntleroy, Topolino,
i Nani di Gulliver, John Silver, Jimmy Hawkins, il dottor Jeckill
e Robinson Crusoe, e, insomma, un bel sacco di gente». Un
bel sacco di gente, sì, e soprattutto un sacco di bella gente. Un
sacco di bella gente in una bellissima storia. Una storia
incompiuta, sì, ma che pur nella sua incompiutezza si configura
come una storia rappresentativa di una poetica rintracciabile in
tutto il lavoro di D'Arzo: una poetica in cui il fiabesco e il
magico impregnano i versanti del dire, e il mistero che permea i
versanti del vivere perdura ben oltre i disvelamenti. Qui
più che mai Silvio D'Arzo si dimostra autentico Tusitala,
narratore di belle storie, evocatore sottile di belle storie,
tessitore sapiente, raffinato e colto e corposo cantore. Una
storia godibile in sé, ma ancor più godibile se letta dopo aver
conosciuto gli attori. Una storia la cui incompiutezza ci fa
scalpitare, ma che potremmo anche accogliere come una benedizione
provvidenziale per quanto implica in termini di apertura. Leggiamo
questa storia, e la sua incompiutezza provoca rabbia, dolore,
fors'anche una misura di disperazione; ma leggendo questa storia,
con quello stagno che si configura come un «giardino segreto»,
come un'isola di tesori, ci prende anche una limpida felicità. E
una felicità aggiuntiva nasce proprio dall'incompiutezza, che non
chiude orizzonti, bensì apre ai nuovi apporti, ai nuovi rinforzi
che possiamo portare a tutti i Davide Copperfield che rischiano di
venire bruciati dalla ferocia e dalla tristezza: il topo e suo
figlio di Russell Hoban, il Cosimo Piovasco di Rondò di ltalo
Calvino, il Michele di Furio Jesi, la bestia d'ombra di Uri Orlev,
il Peter Fortune di lan McEwan, l'Hogarth de L'uomo di ferro di
Ted Hughes, il Soumchi di Amos Oz, l'Harun di Salman Rushdie,
soprattutto il Nono Feierberg di quello che io ritengo «L'isola
del tesoro» del Novecento, Ci sono bambini a zigzag di
David Grossman. Personaggi che camminano camminano nel «chi sono
io?», attraverso i cieli e le terre degli insidiosi versanti del
vivere. Nel
saggio Kipling senza trombe Silvio D'Arzo ha scritto che
alcuni scrittori (e si riferiva a James Barrie, a Charles Kingsley,
allo stesso Kipling) hanno saputo dire «appunto con due fiabe per
bimbi la loro parola più alta e duratura». Parole alte e
durature D'Arzo non si è limitato a dirle nell'ambito della
cosiddetta letteratura per l'infanzia, ma ha dimostrato quanto
anche in esso ciò sia possibile, percorrendo la regione del «chi
sono io?» in un camminare camminare di densissima leggerezza. Ma
sono «per bambini», storie come Penny Wirton, Il pinguino
senza frac, Tobby in prigione, Una storia così? Sì, sono per
bambini; ma, beninteso, nel senso di «degne della loro
intelligenza». Allora sì, in questo senso sì. Perché di esse
si può dire quel che Antonella Anedda ha detto delle Storie
per bambini di Isaac Bashevis Singer: «Un testo di
meravigliosa intelligenza e purezza che sembra fatto di nulla,
come quei giocattoli di carta che volano al primo soffio, e invece
racchiude pietre di grande sapienza. [...] Per i bambini nel senso
di "degno della loro intelligenza" è quello spazio
della mente e della scrittura in cui riescono a incontrarsi difesa
e libertà, custodia del passato e desiderio di trasformazione». Una
storia così è
poi anche una storia che molto ci dice di quel che Silvio D'Arzo
pensava della scuola, della trasmissione del sapere, dei rapporti
educativi. E
a me, maestro di scuola immalinconito dal mito e dalla mistica
della Programmazione e della Verifica, maestro di scuola
immalinconito dalla presunta scientificità delle sempre più
precoci partizioni disciplinari, maestro di scuola che dall'età
di vent'anni altro non fa che compiere l'azione spregevole di
raccontare e leggere e far leggere libri che non siano i libri di
testo, ha fornito con Teddy Tedd il modello, la figura cui
appagatamente ispirarsi: il Buon Maestro, insomma. Certo,
con un modello siffatto è molto probabile che si arrivi a non
riuscire a comprarsi un vestito decente e si vada a finire in un
racconto incompiuto, ma dietro lo stagno, in giardino, aver reso i
ragazzi «più allegri che mai» è qualcosa che aiuta a dotare di
senso l'abitare il proprio frammento del vasto mondo. Tddy
Tedd, prima che sopraggiunga l'oscurità, distribuisce un libro a
testa e augura «buon appetito». Anche Tusitala, Stevenson, prima
del sopraggiungere dell'oscurità, ha scritto a proposito della
stretta parentela tra le storie e il cibo. Ma io qui voglio
chiudere con un brano del bellissimo L'invenzione della
solitudine, di Paul Auster: «Il bisogno di storie per un
bambino non è meno vitale del bisogno di cibo, e si manifesta con
lo stesso meccanismo della fame. Raccontami una storia, dice il
bambino. Raccontami una storia. Ti prego, papà, raccontami una
storia. Allora il padre si siede e racconta una storia a suo
figlio [...], e comincia a parlare, come se la sua voce fosse la
sola cosa rimasta al mondo, raccontando una storia a suo figlio
nell'oscurità. [00.] la storia della memoria è una storia di
sguardo; e rimane una storia di sguardo anche se le cose che si
debbono vedere non ci sono più. Per questo la voce prosegue. E
anche quando il bambino chiude gli occhi e si addormenta, la voce
di suo padre non cessa di parlare nell'oscurità». |