Gli
orizzonti inaspettati di Silvio D'Arzo
Parlando
di quel grande bellissimo libro che è La Storia,
Pasolini accusava
Elsa Morante di
avere peccato di pigrizia e di «non amore» nei confronti
dell'apparentemente tanto amato personaggio Davide Segre, Scriveva
infatti che «il parlato di Davide non ha riscontro in nulla: il
ragazzo si presenta come bolognese, in realtà è mantovano, ma
parla una specie di
veneto. Non c'è tuttavia angolo nell'Alta
Italia in cui cadere si dica cader'» e quindi il fatto «che
Davide dica cader è offensivo per il lettore: ma è
soprattutto offensivo per lui».
Elsa
Morante è sicuramente tra i più grandi scrittori, ma queste
parole dure e definitive erano soltanto dolorosamente giuste.
Nonostante si trattasse di un grande bellissimo libro quelle
parole andavano dette.
E
cosi, se per un peccato di questo tipo non si poteva assolvere
nemmeno Elsa Morante, tantomeno, per qualcosa di analogo, potrà
essere assolto Biagio
Laprea - curatore
di una edizione di un libro bellissimo di quel grande scrittore
misconosciuto che è Silvio D'Arzo, Penny Wirton e sua madre, pubblicato
da Einaudi Scuola nella collana «Nuove letture» - curatore che
spiega, in una nota ad uso della costumata gioventù cui il libro
è rivolto, che cosa facesse il locandiere di Shorly quando «radeva
il formaggio».
Essendosi
cimentato non solo con il proprio friulano e con le borgate romane
ma anche con quel Canzoniere italiano (Guanda '955,
disponibile ora da Garzanti) che raccoglieva dialetti e parIate di
ogni angolo, e non solo dell' "Alta Italia», Pasolini aveva
evidentemente qualche titolo per poter negare l'esistenza di un
verbo in qualche parte di mondo. Di questi titoli io invece non ne
possiedo alcuno, e quindi il mio ergermi a giudice ha
probabilmente a che fare con la presunzione, ma devo dire di
essere vissuto per un consistente numero d'anni in un paese
dell'Appennino tosco-emiliano - un paese che somigliava molto ai
luoghi di certe storie di D'Arzo e non ne distava che qualche
vallata
dove
ho avuto modo di vedere abbondantemente che cosa facesse chi «radeva
il formaggio», E quando, dopo tredici anni trascorsi lassù, sono
sceso in città per studiare, tra quella città e quella in cui D'Arzo
era vissuto c'era qualcosa come venti chilometri, e anche li chi
«radeva il formaggio» era come su ai monti. Sia li che lassù
chi «radeva il formaggio» altro non faceva che grattugiarlo.
E
poi basterebbe fare un salto, o anche soltanto una telefonata,
nella provincia di Reggio Emilia, per scoprire come ancor oggi
quei dialetti intendano ancora lo stesso; e D'Arzo conosceva
bene
i dialetti di quelle parti, essendosi laureato
a Bologna nel 1941 con
una tesi di
filologia relativa appunto a dialetti di alcuni paesi
dell'Appennino reggiano Aggiunte e correzioni all'A.I.S. per il
centro 444, tesi
di laurea che ora è stata pubblicata a cura di Lando L. Landini,
con il nome di
Ezio Comparoni, il nome vero, essendo infatti «Silvio D'Arzo»
solo uno dei tanti pseudonimi di cui D'Arzo si servì. E lo stesso
Landini, in
AA.VV., Silvio
D'Arzo. Uno pseudonimo per legittima difesa, Editrice Bertani
& C., Cavriago 1994, racconta come D'Arzo gli avesse un giorno
fugacemente spiegato come quello pseudonimo stesse a indicare
semplicemente le sue origini: «arzàn», in dialetto, significa
infatti reggiano.
Invece il curatore
dell'edizione scolastica del bellissimo Penny di D'Arzo, in
una nota relativa al «radeva», e in ogni caso di per sé
solamente superflua, scrive che l'oste di Shorly quel formaggio lo
«tagliava». Pigrizia, direi, e direi anche offensiva per la
costumata gioventù cui si rivolge, nonché per quell'oste e per
il povero autore - per di più impossibilitato a difendersi,
essendo egli morto nel 1952 in quella stessa Reggio Emilia in cui
era nato nel 1920.
È
evidente
che una nota inutile e sbagliata potrebbe anche essere qualcosa su
cui tranquillamente sorvolare, ma D'Arzo era attento ai versi e ai
gesti e alle voci come un cane da caccia o anche due, e niente
l'ha messo lì a caso, e guardava davvero quello che raccontava, e
stava finanche a contare le sillabe, ché fossero giuste, non una
di meno. E neanche di più.
Ma quel che
davvero mi sembra importante denunciare non è tanto quella nota
sbagliata o la pigrizia di un curatore (e voglio tacere della
brutta, stonata copertina); il guaio vero è che di un libro come Penny
Wirton e sua
madre sia stata
fatta l'edizione scolastica, con tanto
di note e di «Percorsi
di lettura».
Nel caso specifico
questi sono due: si chiamano "Percorso A» e «Percorso B»,
il primo fatto di domande secche secche,
il secondo più
disteso, entrambi lì pronti per le «fasce di livello» e il culdipiombismo
docente.
Certo,
la questione degli «apparati didattici», dei «suggerimenti per
le tue ricerche», delle note a piè di pagina, dei questionari e
dei giochi allegati a romanzi racconti fiabe
leggende poesie, insomma la questione delle edizioni scolastiche
è una questione che
richiede
sicuramente qualcosa di più delle sommarie parole di condanna
pregiudiziale, di principio,
che qui vorrei comunque ribadire. E se poi è anche vero che ci
sono insegnanti che hanno molto bisogno d'aiuto e che non sono in
grado di prendere un libro e di farci qualcosa,
questa è un'altra questione che merita qualche
parola specifica, ma non si capisce
perché a fare
le spese di una
realtà sconfortante
debba esser per
forza una storia.
E però,
se l'edizione scolastica di un libro è sempre un
problema, nel caso di D'Arzo
lo è ancora di più.
Un libro
impregnato di scuola è un libro ammansito, è meno dell'ombra
del
suono del
tacco, e infatti cammina con gambe non
sue. E se può esser vero che un libro impregnato di
scuola si predispone a essere forse più
conosciuto e comprato,
è vero altrettanto che è molto
difficile che possa
diventare un libro
amato.
In
questo caso il problema è ancora più grande che mai, perché
Silvio D'Arzo merita meno di
altri questa fine. Oltre ad
essere un grande scrittore misconosciuto, D'Arzo era anche una
persona con idee singolarmente chiare sulla scuola, sulla lettura,
sulla scrittura, sulla cosiddetta letteratura
per !'infanzia, sulle
storie per i ragazzi, sulla possibile funzione
delle storie nella vita;
ma nessuna di queste aveva qualcosa a che fare con gli
ammansimenti. Potevano avere a che fare con certe debolezze,
con certe ipervalutazioni della Letteratura, per esempio, ma
non certo con gli ammansimenti. Anzi, una delle caratteristiche di
D'Arzo è proprio quella della radicalità degli intenti. E, a
proposito di scuola,
basti dire che D'Arzo aveva
espresso l'intenzione di scrivere una storia
con un «Buon
Pirata che,
vecchio ormai,
sfinito, abbandona
ai flutti la sua vecchia nave: si
fa col legno della
«vecchia nave» la gamba di legno:
gamba di legno che, lui morto, si pianterà in un albero
di terra, e verrà su,
dopo un poco, albero grande dove sorgerà la vecchia,
indimenticabile Scuola di Pictaun».
Inoltre
bisogna ricordare che nella Prefazione a quella che avrebbe dovuto
essere
la sua opera più articolata
e ampia, il romanzo
Nostro lunedì, D'Arzo scriveva:
«Forse la prima
ragione per cui ogni cosa ha diritto sempre ad
un po' di rispetto
è proprio quella di avere una storia».
La Prefazione a Nostro
Lunedì comparve
per la prima volta
nel 1960, in un importante volume antologico intitolato
Nostro lunedì e
curato da Rodolfo Macchioni
Jodi per le
edizioni Vallecchi. Volume introvabile ma
ancor oggi molto importante,
in quanto si tratta della raccolta
più ricca di
scritti darziani, essendo
composto da racconti, poesie e saggi. Inoltre si tratta dell'unica
possibilità di leggere un racconto come L'osteria, mai
ripubblicato in
nessuno dei libri che
in questi anni hanno
variamente riproposto gli altri scritti contenuti nel volume
Vallecchi e alcuni inediti.
La
più recente raccolta è L'aria della sera e altri racconti, curata
da Silvio Perrella per i Tascabili
Bompiani nel 1995
e contenente i racconti
brevi, una redazione
della storia «per ragazzi» Il pinguino
senza frac, la
Prefazione a Nostro
lunedì, il prodigioso Casa
d'altri. Questo
straordinario racconto si trova anche nei «Nuovi Coralli» di
Einaudi, in un'edizione
tanto elegante
quanto carente di coordinate, sia
sull'autore sia
sul suo capolavoro. Il libro curato
da Perrella
contiene anche un racconto, Piccolo
mondo degli
umili, proveniente
dal primo libro di
D'Arzo, uscito da
Carabba
nel 1935, Maschere,
riproposto interamente, insieme agli incompiuti L'uomo che
camminava per le strade
e Un ragazzo
d'altri tempi, in un libro,
cui quest'ultimo racconto dà il titolo complessivo, pubblicato da
Passigli
nel 1994.
Poco
prima, nel 1993, era uscito da Quodlibet un libro, curato da
Daniele Garbuglia, contenente i racconti brevi, la Prefazione a Nostro
lunedì e il già ricordato L'uomo che camminava per le
strade, che dava il titolo al volume.
Di
All'insegna del Buon Corsiero sono uscite recentemente due
edizioni: quella di Adelphi, corredata di una Premessa di Enzo
Turolla e di una Nota al testo di Anna Luce Lenzi; e quella delle
Edizioni La Vita Felice, che riproduce l'edizione 1988 di Claudio
Lombardi Editore, con prefazione di Mario Spinella.
E
risulta ancora disponibile nel catalogo Garzanti, pur essendo
uscito nel 1976, il romanzo Essi pensano ad altro, curato
da Paolo Lagazzi e accompagnato da una nota di Attilio Bertolucci.
L'editore
Diabasis di Reggio Emilia, inoltre, ha pubblicato un prezioso
cofanetto contenente tre plaquettes: Poesie, Lettere per Ada,
Una storia così, affiancate rispettivamente da scritti di
Gianni Scalia, Anna Luce Lenzi e Paolo Lagazzi. Di quest'ultimo,
sempre presso Diabasis, era uscita in precedenza una raccolta
di studi darziani, Comparoni e
«l'altro».
Sulle tracce di Silvio D'Arzo, recante
in appendice il racconto inedito Una storia cosi risalente
alla fine degli anni Quaranta e pubblicato da Lagazzi nel 1992 per
la prima volta nella sua pur incompiuta integrità.
È
poi importante ricordare che presso Sellerio, nel 1987, a cura di
Eraldo Affinati, erano usciti i bellissimi saggi di Contea
inglese, con l'appendice delle lettere di D'Arzo a Emilio
Cecchi e a Ada Gorini.
Altrettanto
importante è ricordare che presso l'editore Mucchi di Modena, nel
1986, era uscito Nostro lunedì -
di Ignoto
del XX secolo: un libro ignorato da tutti ma molto importante,
giacché con esso la curatrice Anna Luce Lenzi, a partire dalla già
ricordata Prefazione e assemblando racconti pubblicati e frammenti
inediti, tentava di dare corpo a un più volte accennato, da D'Arzo
stesso, grosso romanzo, a quelle cinquecento pagine di cui parlava
nell'ultima sua lettera a Enrico Vallecchi, a una sorta di «Eneide
del XX secolo» peraltro ben più che intravedibile nella
Prefazione. Congettura, ovviamente, questa della Lenzi, ma
sicuramente suggestiva e, quel che più conta, assai argomentata.
Ma il lavoro di
Anna Luce Lenzi, studiosa vera di D'Arzo, va ricordato tutto, e
qui in particolare per menzionare la sua appassionata e rigorosa
cura del cospicuo Carteggio (194I-I95I) tra Silvio D'Arzo e
Enrico Vallecchi, pubblicato dalla Biblioteca «A.Panizzi» di
Reggio Emilia come numero doppio della sua rivista «Contributi»
nel 1984.
Ci
sono almeno un paio di ragioni alla base del mio attardarmi in
questa non breve - seppure non esausti
va, e soprattutto volutamente priva di un «capitolo» particolare
-
digressione
bibliografica.
La prima ragione
consiste semplicemente nel desiderio di propagandare l'opera di
questo straordinario scrittore, come e cosa del suo lavoro sia
possibile leggere. La seconda ragione nasce invece dall'esigenza,
a dispetto di tanta abbondanza, di recriminare, di lamentare
lacune. Per esempio, perché, dopo il volume vallecchiano del
1960, non è più stato possibile leggere L'osteria, un
importante racconto, dei primi anni Quaranta, abitato da alcuni
personaggi indimenticabili? E perché a nessuno è dato di leggere
la redazione di Casa d'altri che venne pubblicata da Sansoni nella
«Biblioteca di Paragone» nel1953? Perché non c'è un editore
che voglia osare la pubblicazione di un libro composto dalle due
redazioni di questo impareggiabile
racconto? In questo modo,
visto che D'Arzo ha trovato cosi presto «la strada di casa»,
potremmo essere noi, lettori innamorati o innamorabili, a decidere
se abbiano avuto ragione Silvio Perrella e l'Einaudi e Macchioni Jodi
proponendoci di Casa d'altri la redazione da loro pubblicata;
oppure se abbia ragione Paolo Lagazzi, che si schiera per la
redazione Sansoni, «con tutte le sue maggiori cautele, con le sue
più lunghe ironie, con i suoi particolari magici (certi
bellissimi accessori del vestiario della
Zelinda), perfino
con certi Iati oscuri, irritati, ancora lievemente infantili
dell'umanissima
psicologia del prete» -
e poi
sarà utile, a
questo proposito, attingere agli importanti studi di Paolo
Briganti e di CIelia Martignoni pubblicati in Silvio
D'Arzo. Lo
scrittore e la
sua ombra, Atti delle Giornate di studio, Reggio Emilia 29-30
ottobre 1982, Vallecchi 1984.
E
ancora: perché, a fianco di tanti piccoli encomiabili e preziosi
rivoli, non
c'è
qualche lago? E perché non un mare? Perché non c'è un «tutto D'Arzo»
che so? - nei Grandi Libri Garzanti, nei Tascabili
Einaudi, negli Struzzi?
Ho
trascurato, nella mia digressione bibliografica, il «capitolo»
riguardante i libri «per ragazzi». Li ho trascurati di
proposito; e questo non già per assecondare quel sentire
prevalente che assegna uno status di inferiorità a questo tipo di
produzione, bensì perché è proprio sul D'Arzo «per ragazzi»
che intendo soffermarmi. In questo «capitolo» l'elenco dei
titoli è breve, e le pubblicazioni sono tutte abbondantemente
postume: Penny Wirton e sua madre, Einaudi 1978; Il
pinguino senza frac e Tobby in prigione, Einaudi 1983; Una
storia così, Diabasis 1995. Un elenco però cosi breve da non
rendere certo l'idea di come e quanto per D'Arzo fosse importante
questa articolazione del suo lavoro.
Bisogna
dire inoltre che questo breve elenco è formato da titoli databili
al finire degli anni Quaranta, ma l'interesse di Silvio D'Arzo per
la cosiddetta letteratura per l'infanzia è documentato da ben
prima. Risale infatti al12 febbraio 1943 una lettera di Enrico
Vallecchi a D'Arzo, nella quale l'editore dice di voler «sapere
se vi sorriderebbe l'idea di scrivere per conto nostro un libro
per i ragazzi. Con la vostra fantasia, che si accende anche nelle
occasioni
più
modeste, mi sembra che potreste riuscire brillantemente anche nel
settore della letteratura infantile».
La
risposta di D'Arzo è non solo
entusiastica, ma rivelatrice di un interesse già ben
coltivato: «E veniamo, ora, al libro per
ragazzi. Vi dirò
senz'altro che la vostra proposta mi fa riaffiorare
un vecchio e mai soddisfatto desiderio
di scriverne appunto uno,
al modo mio. Cinque anni fa circa [cioè almeno intorno al 1938],
leggendo il Perrault, prima, poi, poco dopo, J. Matthiew Barrie,
scoprii -
checché il Croce voglia pensarne in merito -
degli orizzonti insospettati,
vastissimi, un miracolo nella letteratura per bambini: un campo
nuovo, o quasi - non credete? - benché di - diciamo -
coltivazione assai
difficile.
Più volte ci ho
pensato, vi ripeto, e la vostra proposta mi giunge assai a
proposito, come una parola dell'amico
che invita a
lasciare certe timidezze: e - poiché, Iddio volendo, fra due
mesi, avrò tutto il giorno a mia disposizione -
mi applicherò
senz'altro, con un ardore,
vedrete, affatto nuovo, perché
desidero
scriverlo, soprattutto, a un
modo mio,
che non può trovare la sua completa
espressione se non in un mondo fatto per bambini».
Comincia
così con questo scambio di lettere, un percorso che durerà anni,
e sarà avventurosamente costellato di progetti, anticipazioni,
ripensamenti, dubbi, slanci, insistenze, incomprensioni. E quel
che Vallecchi aveva acutamente intravisto, cioè il fatto che D'Arzo
potesse «riuscire brillantemente anche nel settore della
letteratura infantile», sarà sempre accompagnato dalla
consapevolezza del rischio che «certi risultati magici della
vostra prosa» possano dimostrarsi «non adatti per i piccoli
lettori, i quali non rintraccerebbero il valore evocativo di
gesti, situazioni, ecc».
D'Arzo
lavorò molto al «libro per ragazzi», tanto che arrivò a
scriverne in realtà ben più di uno, e nel carteggio con
Vallecchi se ne trovano in abbondanza titoli e trame, abbozzi e
fantasmi, ombre e figure massicce. Quanto ai «risultati magici»
della propria scrittura, ne tenne ben conto, ma non certo per
banalizzarsi o impoverirsi, bensì per spendersi ancora di più,
se possibile, preoccupato di evitare quella «goffa mediocrità»
che aveva riscontrato nella quasi totalità dei libri per ragazzi
alla cui lettura si era dedicato. Non è difficile credergli,
conoscendo lo scrupolo quasi maniacale con cui affrontava ogni
lavoro; né è difficile capire e condividere quel giudizio
desolato, pensando a molta desolante produzione italiana del
periodo. D'Arzo considerava la scrittura un'attività che poteva
fornire senso all'esistere, non certo un surrogato dimesso del
vivere, ed era persona troppo seria ed esigente per potersi
concedere il lusso di assentarsi, seppure temporaneamente o
parzialmente, dal proprio fondo profondo; inoltre considerava i
bambini e i ragazzi innanzitutto persone serie. Molto
probabilmente perché sapeva bene di quanta e quale alterità
fossero inesorabilmente portatori; e perché altrettanto bene
sapeva quale ricettacolo di dolore, di disillusioni, di
immedicabilità potesse essere il tempo dell'infanzia.
Bisogna
poi considerare anche il fatto che D'Arzo, come già ricordato,
aveva cominciato a muoversi nella cosiddetta letteratura per
l'infanzia a partire da Perrault e da Barrie; progettava «uno
studio abbastanza lungo su 'Tre viaggi": quello di Gordon Pym,
quello del capitano Achab di Moby Dick, quello dell'Hispaniola
di Stevenson»; si accingeva a tradurre Peter Pan; inoltre pensava
a modelli come il Kipling «senza trombe» delle Storie proprio
cosi, come Conrad, come Stevenson, «benché, ad esso, io sia
del parere che viaggi per mare, con pirati e tesori, siano troppo
pericolosi, dopo che Stevenson ci ha messo le mani».
Purtroppo,
del progettato studio sui «Tre viaggi» non ci è arrivato nulla,
ma a Stevenson D'Arzo ha dedicato almeno
due
saggi nel 1950 (L'isola di Tusitala e
Una morte più
bella di un poema, ora
leggibili nel già
citato Contea inglese),
che sono
bellissimi e molto ci dicono della particolare sintonia tra i due
scrittori.
Dal carteggio con
Vallecchi si ricavano notizie su quei libri che in seguito si è
arrivati a conoscere, ma anche numerosi accenni a trame poi
abbandonate, o magari sviluppate altrove, e anche forse in qualcosa
ancora da scoprire, giacché con D'Arzo non si finisce mai di
scoprire. Ma dal carteggio si ricavano anche strani silenzi, e
accenni estremamente fugaci, abbastanza inspiegabilmente lasciati
senza riprese. Per esempio, è solo alla data del 20 settembre
1949 che si trova
un accenno a «un mio libro per ragazzi Tobia in prigione (una
storia di castorj), accompagnato dalla rivelazione di averlo «venduto
per 20
anni a Paravia,
che me lo ha pagato veramente in misura soddisfacente»; e due
mesi più tardi, nel dicembre di quello stesso 1949, D'Arzo dice a
Vallecchi di avere scritto <<un breve libro per ragazzi,
che, ti giuro, mi ha divertito e riposato assai: Il pinguino
senza frac>>. E aggiunge: «Non credere che questo sia
un disperdersi: alla storia del pinguino povero, che non può
andare nemmeno a scuola assieme agli altri perché è cosi povero
da non potersi comprare il frac, e se ne va a lavorare per il
mondo, fra foche e gabbiani, e crede di essere diventato matto
perché s'accorge che anche l'orso, e anche il terribile uomo,
piangono come lui, soffrono come lui, sono, in fondo, come lui (e
in questo tutti gli animali trovano la loro più intima e profonda
parentela), e ritorna al suo vecchio paese più triste e povero di
quando era partito, ma ecco che si accorge che gli è spuntato il
frac più splendido immaginabile (e gli altri, al confronto, sono
povere e vecchie cose), questa storia, dico, scritta per ragazzi,
mi ha servito a chiarire molte cose».
Ecco:
su questi due titoli nient'altro, nel minuzioso carteggio. Eppure
D'Arzo ruminava a lungo i suoi libri; e questi due racconti,
pubblicati nel 1983 da Einaudi in un volume della collana «Libri
per ragazzi» con il titolo Il pinguino senza frac e Tobby
in prigione (ma una diversa redazione, più breve, del Pinguino
era stata pubblicata nel 1977 da Anna Luce Lenzi in appendice
al suo Silvio D'Arzo. Una vita letteraria, Tipolitografia
emiliana; nel 1985 da Enrico Ghidetti e Leonardo Lattarulo in La
bottega dello stregone. Cent'anni di fiabe italiane, Editori
Riuniti; e ora da Silvio Perrella nel già ricordato L'aria
della sera), sono due racconti compiutamente elaborati: nella
partitura, nelle cadenze, nei richiami, nelle profondità, nelle
levità, nelle ossessioni.
Quando,
nel 1978, Einaudi pubblicò Penny Wirton e sua madre, ne
rimasi un po' come folgorato. È per questo che fu
con
particolare avidità e eccitazione che lessi, su «Il Ponte»
dell'aprile 1979, un articolo - letto e riletto poi mille volte, e
conservato accuratamente fino a
oggi - di
Rodolfo Macchioni Jodi intitolato
Silvio D'Arzo narratore «per ragazzi». Un articolo che
raccontava in modo circostanziato dell'esistenza, tra le carte di
D'Arzo, oltre a Penny Wirton, di altre storie scritte «per
i ragazzi»: Tobby in prigione, Il pinguino senza frac, Una
storia casi, Gec.
E quando,
pochi anni più tardi, uscirono
da Einaudi Tobby e il Pinguino, capii
che aveva avuto senso aspettarli. Non erano Penny, d'accordo,
ma erano storie importanti e belle davvero. E ancora, un bel
mucchio d'anni più tardi, negli anni Novanta, quando Una
storia così comparve nelle già ricordate edizioni Diabasis -
ma un assaggio si era potuto gustarlo già nel 1990, quando sul
numero 2 di «Idra» ne era uscito un capitolo - ancora, dicevo,
la stessa felice sensazione di un'attesa premiata. Certo, anche
questo racconto non era grande come Penny Wirton, ma era
un'ulteriore conferma, e il fatto che fosse incompiuto
- seppure leggibilissimo -
accresceva l'amaro del fatto che D'Arzo avesse trovato a soli
trentadue anni «la strada di casa».
In
«Una storia così» che
è un racconto composto probabilmente alla fine degli anni
Quaranta, di cui ci è pervenuta soltanto la prima parte, in sette
capitoli - si
raccontava di un collegio alla Dickens, il «Premiato
Collegio Minerva», condotto da Tobia Corcoran, direttore dagli
orizzonti ampi quanto quelli del signor Thomas Gradgrind di «Tempi
difficili» di
Dickens. Come Gradgrind
aveva in testa che «in questa vita non abbiamo bisogno d'altro
che di Fatti, signore: niente altro che
Fatti!» e
«Louisa, non immaginare
mai!», il Tobia Corcoran di Una storia così «aveva in
testa soltanto un'idea (...) Ed ecco qui la sua idea: «Uno
studente dai sei anni in avanti non può compiere azione più
immorale, malvagia, spregevole, pericolosa, allarmante che leggere
libri che non siano i tre libri di testo. E a sua volta un maestro
dai vent'anni in avanti non può compiere azione più infamante,
allarmante, pericolosa, spregevole, malvagia, immorale che far
leggere libri che non siano i tre libri di testo».
Però
un giorno accade una cosa; anzi, due. Accade che il signor
Corcoran si ammali, e lasci un appunto con la prescrizione delle
dosi di analisi logica e di geometria e di calcolo da
somministrare ai ragazzi in sua assenza, nonché una ulteriore
nota accoratamente specifica relativa al divieto assoluto dei
libri. Ma
capita
anche che arrivi al Premiato Collegio Teddy Tedd, Maestro
Supplente che per avere qualche soldo con cui comprarsi una giacca
si era messo a scrivere un grosso romanzo. E Teddy Tedd, alla
faccia del signor Corcoran, appena arrivato al collegio, «fece
scendere tutti quanti i ragazzi in giardino: li portò proprio
dietro lo stagno, dove alberi e siepi eran più fitti e più folti
che mai, e distribuì un libro a testa. - Ecco qua. Per un mese
non farete altro che leggere questi: lo prescrive il nuovo
programma. (...) E adesso, buon appetito».
Si capisce che
molte cose cambiarono: «I ragazzi non facevano che leggere e
leggere, e giocare a quel che avevano letto: ed eran tutti più
allegri che mai».
E ogni sera,
quando i ragazzi
rendevano i libri
al Supplente, «nella stanza di questi si ripeteva la medesima
scena. Il primo a sbucar fuori era Tarzan (...) dopo
un po' tutti gli
altri: Alice, col suo Coniglietto, Pinocchio, i tre Porcellini, La
Bella Addormentata nel Bosco, Mowgly, Davide Copperfield, il
piccolo Lord Fauntleroy, Topolino, i Nani di Gulliver, John
Silver, Jimmy Hawkins, il dottor Jeckill e Robinson Crusoe, e,
insomma, un bel sacco di gente».
Seppure
nella sua incompiutezza, anche Una storia casi è un testo
rappresentativo di una poetica rintracciabile in tutto D' Arzo,
una poetica in cui il fiabesco e il magico impregnano i sentieri
dei versanti del dire, e il mistero che permea i versanti del
vivere perdura ben oltre i disvelamenti.
L'importante
articolo di Macchioni
Jodi
parlava anche di Gec. Ne parlava, è vero, considerando una
sola cosa Gec e Gec
dell'avventura -
mentre quest'ultimo,
come ha precisato Anna Luce Lenzi
in una nota del Carteggio
D'Arzo-Vallecchi, era uno dei titoli che D'Arzo
provvisoriamente appose a quel che sarebbe poi diventato Penny
Wirton e sua madre - ma, al di là dell'equivoco, Macchioni
parlava di una storia precisa, e ne parlava raccontandone
ampiamente la trama, senza lasciare margini di dubbio. Macchioni
scriveva che in Gec, «ancora un po' acerbo nella struttura
e nello stile«, D'Arzo faceva «confluire ingredienti di diversa
estrazione>>, sovrapponendo a «una trama narrativa
prevalentemente
legata ai fasti della tradizione animalista quella in qualche modo
collegabile alla dissacrazione delle Ghost-stories posta in
atto, fra gli altri, da Oscar Wilde nel Fantasma di Canterville.
Ne deriva che il suo fantasma, non appartato, per ragioni
professionali, come quello wildiano, ma inserito
nella vita
corrente, ancorché alquanto anomala per l'equiparazione dei
comportamenti fra uomini (in minoranza)
ed animali, non ha
alcuna velleità terrificante, ma, anzi, mansueto e provvisto
di un apprezzabile
senso di socialità,
ama stare con gli
altri, si adatta alle loro abitudini, alle loro voglie, talvolta
stravaganti. Fantasma, dunque, casalingo nel senso migliore -,
è emotivo e puerilmente nostalgico. Si affeziona ad un
pesce giapponese
vinto al luna park, si
diverte sul
cavalluccio di una giostra
perché gli dà
l'illusione di rivivere i suoi giorni felici, lontani di secoli.
Personaggio essenzialmente triste, che nell'economia del racconto
ha un ruolo minore, dapprima fra i pipistrelli (<<i coniugi
Pipistry>>), nel castello di Tartarucchi, infine attore in
una compagnia teatrale che, rappresentando l'Amleto, gli affida la
parte che gli è naturalmente congeniale. Il protagonista è Gec,
il bambino che non vuol nascere <<con la camicia>>,
simbolo proverbiale della fortuna. Si capisce che nel rifiuto, che
comporta una volontà attivistica (la fortuna uno se la
deve conquistare
da solo, non possederla per diritto di nascita), risiede la morale
del libro, dietro la quale non è difficile intravedere una
matrice autobiografica, ove si tenga conto che l'autore, nato
povero e senza padre, veramente <<senza camicia>>,
aveva dovuto
farsi da sé. È
uno dei pochi personaggi appartenenti al versante umano ed è
fatto agire in una condizione prenatale, quindi del tutto anomala,
anche se di fatto non distinguibile da quella di un ragazzo
qualsiasi. Del resto, nonostante la funzione primaria, la sua
presenza si limita a pochi interventi, dal tentativo iniziale di
nascita, subito fatto rientrare per la minaccia di dover indossare
l'indumento ch'egli respinge con decisione, ad una serie di fughe
provocate dal ripresentarsi della stessa minaccia. Solo alla fine,
dopo aver trovato rifugio, in
qualità di
suggeritore, nella stessa compagnia teatrale presso la quale
finisce il fantasma, egli può nascere, senza camicia, secondo il
suo volere. Gli altri personaggi sono animali parlanti, ma senza
alcun sussiego pedagogico: l'usignolo, che, divenuto amico di Gec,
ne va alla ricerca ogni volta che fugge; la cicala e la formica,
nel ruolo di giornalisti-investigatori, secondo un cliché
abbastanza divulgato, anch'essi sulle tracce di Gec; il bruco
cavolaio, che esercita la professione di sarto alla moda; lo
Scarabeo, <<Maestro Albert Scara>>, artista «di
eccezionale levatura, oltre che di nobili, antichissime origini«.»
Anche
Gec non era sicuramente una storia all'altezza di Penny
Wirton, almeno per quel che se ne poteva capire leggendo
l'articolo di Macchioni, il quale peraltro sottolineava che «se
sul piano strutturale Gec si dipana abbastanza scioltamente
sotto la spinta di un'immaginazione che si sintonizza su alcuni
motivi tradizionali, sul piano stilistico
esso
si mantiene di qua dal linguaggio più tipico e personale di D'Arzo.
Parrebbe quasi che, preoccupato di riuscire accessibile al piccolo
lettore, rinunci agli estri, alle cadenze che meglio lo
caratterizzano, magari a costo di apparire frettoloso o banale,
col risultato di suscitare l'impressione di trovarci di fronte ad
una testimonianza appartenente alla sua preistoria».
Non poteva essere Penny
Wirton, d'accordo, ma era un'altra conferma, o una serie di
conferme. E a me, nello specifico, premeva anche l'aspetto «quantitativo»:
scrivere «per i ragazzi»
non era stato per
D'Arzo un episodio isolato. Forse, addirittura, annidate chissà
dove, esistevano altre storie, ancora.
Di
Gec, però, poi non seppi più nulla. Oltre Macchioni, ne
parlò soltanto Anna Luce Lenzi: al Convegno darziano del 1982; in
Silvio D'Arzo, l'isola e il mondo (contenuto in Scrittori
nei due ducati, Comune di Montecchio Emilia, 1986), poi nel Carteggio
D'Arzo-Vallecchi. E anche Anna Lenzi, ma da un punto di vista
diverso, sottolineava come Gec si presentasse non risolto: «L'assunto
principale, il non voler nascere privilegiati, è proposto
semplicemente come un «capriccio» su cui riflettere: ma
difficilmente un bambino, cui la grazia e la libertà di fantasia
sembrano rivolgersi, potrebbe capire tale rifiuto e godere
dell'immedesimazione nell'aspirante self-made-man, il «tra-qui-e-Ià»
Gec, assai meno bambino del pinguino e del castoro dei successivi
racconti».
Si,
certo, non poteva essere del livello di Penny Wirton, però
mi sarebbe molto piaciuto leggerlo, l'inedito Gec. Poi, un
giorno, successe una cosa.
Mi
trovavo in una piccola cittadina e
curiosavo
svagatamente in una libreria che allineava sugli scaffali, secondo
criteri indecifrabili, libri di ogni tipo e d'ogni tempo: libri
appena usciti, libri introvabili, pezzi di antiquariato, poesia,
fumetti. saggistica, gialli, manuali del pescatore, guide
turistiche, classici della filosofia. Uno stordimento, insomma.
Mi
capitò di posare lo sguardo sulla costa bianca di un libro.
Sfilandolo, la copertina mi lasciò indifferente: brutta
illustrazione, autrice sconosciuta, editore Morano. Riposi il
libro e andai oltre. Qualche metro più avanti, però, cominciò a
rodermi un tarlo. Non un pensiero; una «cosa» indistinta, un po'
come se fossi rimasto impigliato e mi
sentissi
trattenere. Ripresi il libro dallo scaffale e, nonostante una
seconda occhiata senza vita alla copertina, lo aprii. E fu un
colpo secco.
Incipit:
«lo sono nato con la camicia e mi trovo benissimo. Se scrivo un
libro, c'è subito chi me lo stampa; se chiedo al cameriere un
pezzo di torta mi capita quello con la ciliegina candita; se gioco
alle corse dei cavalli, perdo è vero, ma trovo sempre chi ha
perduto più di me. lo dalla vita non ho avuto amarezze e se
dovessi rinascere, sempre vorrei rinascere con la camicia. Perciò
ho trovato stranissima la storia di Gec, il bambino che non voleva
nascere con la camicia.»
Gec.
Non
poteva esser altro che Gec, il cui incipit ricordavo
perfettamente per averlo letto e riletto mille volte nei saggi di
Macchioni Jodi e di Anna Luce Lenzi. E cosi acquisiva significato
anche il titolo del libro: Una camicia per Gec scelta
redazionale o reperto delle carte di D'Arzo, aveva poca
importanza. Quel che importava era che si trattava di Gec. E
non solo: quel che mi impressionava era che nel 1960, cioè lo
stesso anno della pubblicazione del vallecchiano Nostro lunedi curato
da Macchioni Jodi e a otto anni dalla morte di D'Arzo, l'editore
Morano ne pubblicava un libro di cui nessuno si era accorto, di
cui nessuno sapeva nulla.
Ma c'era ancora
dell'altro, ed era la scoperta dell'ennesimo pseudonimo di Ezio
Comparoni. Ora, nella lista, a Silvio D'Arzo, Raffaele Comparoni,
Andrew MacKenzie, Sandro Nedi, Sandro Nadi, Ignoto del XX secolo,
Oreste Nasi, Andrea Colli, Aldo Colli, Aldo Collin, si aggiungeva
quest'altro: «Mariangela Cisco». Che si trattasse di pseudonimo
femminile non era troppo strano; pur senza mai individuarne
alcuno, almeno una volta D'Arzo stesso aveva ipotizzato di
servirsene.
Ma,
subito, all'euforia della scoperta si affiancò un sospetto
torbido. Il sospetto che non di pseudonimo si trattasse, bensì di
appropriazione indebita, furto, trafugamento, plagio. In effetti,
qualche giorno dopo, una sommaria ricerca in biblioteca mi fece
scoprire che
Mariangela
Cisco era una persona reale: oltre
a Una camicia
per Gec aveva pubblicato nel 1971 un libro da Rizzoli, L'ultima
cicogna, nella collana <<I Gemelli>>
curata da Giovanni
Arpino.
Mi rivolsi a
Maurizio Festanti, direttore della Biblioteca Municipale «A.
Panizzi» di Reggio Emilia, presso la quale sono conservate molte
carte darziane, per poter leggere l'inedito Gec. Festanti
mi rispose che Gec non si trova tra le carte possedute dalla
Biblioteca di Reggio, e potrebbe essere tra i materiali di D'Arzo
detenuti dalla inavvicinabile vedova di Macchioni Jodi.
Imboccai
allora un'altra strada. <<Ringrazio Carlo Carena e l'editore
Einaudi per avermi concesso la lettura del dattiloscritto inedito Gec>>,
aveva scritto Anna Lenzi in una nota del suo saggio Silvio
D'Arzo narratore per ragazzi. E
io chiesi AlIa Lenzi, e a Carena, e all'Einaudi, ma nessuno aveva
quel dattiloscritto. Poi finalmente, riuscii ad averlo, su indicazione
della Lenzi, dalle edizioni Quodlibet di Macerata (casa editrice
che sul n. 32/1995 di «Marka» ha pubblicato alcune pagine di Cec).
Le differenze tra il dattiloscritto e il libro pubblicato da
Mariangela Cisco con Morano sono minime, e potrebbero essere definite
come interventi di semplificazione e banalizzazione. Per esempio,
un «istrione» si trasforma in «imbroglione»; un ragazzino «linfatico»
diventa «malaticcio»; «macabra» diventa «triste»; «le
physique du ròle» diventa «la taglia adatta»; «una pila di 'rese'»
diventa «una pila di giornali vecchi»; «aveva dato parola»
diventa «aveva promesso»; delle bellezze «perverse» diventano
«perfide»; l'usignolo «famoso cantore» diventa «famoso
cantante»; scompare una «catarsi»; scompare «era diventato il
loro Petronio»; scompare la considerazione che «gli avvocati in
genere sono
dei filibustieri»;
scompaiono completamente i pensieri di monsieur Pipistry mentre
guarda riviste francesi illustrate (e questa scomparsa non fa
capire cosa significhi il suo abbandonarsi segretamente alla
nostalgia, schivando la petulante moglie): «Balletti, canzoni,
PIace Pigalle, il 14 luglio, Juliette Greco, eh! anche la Francia
aveva i suoi Iati buoni» -
pensieri troppo
rivoluzionari? troppo solleticanti?
troppo «maschili»?
Inoltre,
qualche passo è rimaneggiato, e là dove il dattiloscritto dice
che le api erano noiose e «troppo di sinistra» il libro dice che
«si occupavano solo di questioni sindacali».
Ma
questi sono soltanto alcuni esempi; io mi fermo qui. Dovranno
essere studiosi seriamente attrezzati di competenze specifiche a
puntigliosamente ponderare il tutto, e cercare di appurare
qualche verità. È certo
infatti che esse ben difficilmente possono essere individuabili
dagli innamorati; altrettanto certo è però che il chiarimento
debba avvenire, se non altro per sciogliere il dubbio che
Mariangela Cisco sia stata uno squallido sciacallo capace
solamente di ghermire dentro le macerie della sguarnita casa
devastata.
Trovare
Mariangela Cisco non era
facile:
da Morano mi dissero che era trascorso troppo tempo (1960!); da
Rizzoli mi diedero un indirizzo romano, aggiungendo però che
probabilmente si trattava di un recapito inutilizzabile perché
nel 1976 una lettera era stata rispedita in casa editrice essendo
il destinatario sconosciuto a quell'indirizzo. Arpino era morto.
Morano era morto. Macchioni lodi era morto. Sottosopra la
Vallecchi. Inavvicinabile la vedova di Macchioni.
Poi,
purtroppo, venni a sapere, da suo fratello, che Mariangela Cisco
non c'era più.
Se
poi il dubbio riguardante Mariangela Cisco si dovesse sciogliere a
suo favore, altrettanto importante sarebbe chiarire se
l'attribuzione di Gec a D'Arzo sia dovuta a un abbaglio di
Macchioni Jodi o a che altro.
Non si può
escludere forse nemmeno qualche confusione vallecchiana: nel
luglio 1977 una lettera della Direzione Editoriale della Nuova
Vallecchi Editore a Macchioni Jodi diceva: «Cogliamo l'occasione
per restituirle insieme ai tre dattiloscritti di D'Arzo che ci
richiede, anche altre carte ancora giacenti nei nostri archivi». E
seguiva un elenco
di quattro titoli in cui, oltre a Penny
Wirton, il
Pinguino e Tobby in prigione, compariva
anche, e al primo posto, il titolo
Pick. Molto probabilmente quest'ultimo è solo un refuso
per Gec, ma in
ogni caso è
un segnale che allarma, per diverse intuibili ragioni.
Inoltre sarà
opportuno tenere presente
che Mariangela Cisco
era in qualche
modo in contatto con
Vallecchi (fra
l'altro, editore in quegli anni di
almeno un libro del
fratello) se in una lettera
del 1963 poteva
scrivere che, per
aiutarla nella
«gran fatica di trovare un editore», Vallecchi le
aveva consigliato di partecipare al Premio
Laura Orvieto.
Le
carte di D'Arzo venivano restituite a Macchioni sulla base di un
dattiloscritto,
datato 31 gennaio
1962 e firmato da
Rosalinda Comparoni,
nel quale la madre
di D'Arzo disponeva che «i manoscritti,
le carte e le pubblicazioni di
mio figlio Ezio (Io scrittore
noto con lo
pseudonimo Silvio D'Arzo) siano consegnati al dott. Rodolfo
Macchioni Jodi, attuale
vicedirettore della
Biblioteca Municipale di Reggio Emilia».
Bisogna dire che
Macchioni non si è mai
scatenato a cercare
di pubblicare qualunque
cosa; anzi, si potrebbe quasi affermare
che sia avvenuto il contrario
- in
ogni caso si risentì quando Paolo Lagazzi
curò per Garzanti la pubblicazione
di Essi pensano
ad altro, e
cercò di
ostacolare il progetto di ulteriori pubblicazioni per lo stesso
editore. E naturalmente i processi alle intenzioni non si possono fare,
cosi non è possibile concludere davvero qualcosa a
proposito delle ragioni delle sue cautele. Non è possibile, per
esempio, stabilire se esse fossero dettate dal convincimento da
lui espresso nella presentazione
dell'inedito Un
ragazzo d'altri tempi, sul
n. I3/1983 di «Contributi», là dove diceva di non essere mai
stato entusiasta «della curiosità, certo innocente e in qualche
caso meritoria, che spinge a frugare fra gli
"scartafacci" di uno scrittore per portarne alla luce
qualche abbozzo, opere inconcluse o anche complete che,
salvo casi eccezionali (in primo luogo quello della morte che ha
troncato il lavoro in fieri), si collocano nell'ambito dei suoi
rifiuti». Altrettanto impossibile è stabilire se quelle cautele
fossero invece ispirate, almeno in parte, anche dal voler
mantenere una «esclusiva» delle carte darziane che sentiva forse
precaria, e come intaccata dall' avvertire quasi «concorrenziale»
l'interesse per D'Arzo di altri studiosi, essendo per di più di
labile valore legale il documento con cui la madre di D'Arzo gli
aveva lasciato le carte del figlio (una dichiarazione battuta a
macchina, non di pugno della firmataria, senza alcuna
registrazione di autentica; il venir meno dell'incarico presso la
Biblioteca di Reggio).
È
evidente che si rende necessario che la questione sia affrontata
da filologi seri. Quel che a me sembra di poter dire è che
leggendo Gec ci si trova ben lontani dal D'Arzo «stevensoniano»
di Penny
Wirton e sua
madre, ma questo,
evidentemente, non cambia nulla. l Iimiti
di questo ingenuo Gec, d'altra parte, erano stati
individuati sia da Macchioni sia da Anna Lenzi. E se ne potrebbero
aggiungere altri, ma non è questo il punto. Il punto è invece un
altro. Si tratta della necessità di non dimenticare Silvio D'Arzo,
di studiarlo, di evitare di rinchiuderlo nella pur dorata gabbia
della irripetibilità di Casa d'altri, di evitare che
l'assenza di eredi ne faccia sorgere di arbitrari e indebiti o assecondi
svariate trascuratezze.
Medesimo
discorso vale a proposito del D'Arzo «per ragazzi», soprattutto
pensando che anche «Penny Wirton» è a suo modo «irripetibile».
«Penny Wirton e sua madre» e la storia di un ragazzo che vive solo
con la madre nella contea di Pictown, luogo immaginario quanto lo
è il Settecento in cui è collocata la vicenda. Vicenda da leggersi
senza intermediari, e
che quindi non racconterò. Dirò solo
che, oltre a Penny
e sua madre, ci sono i suoi spocchiosi compagni di scuola; il
Supplente, «Baccelliere d'Arte e maestro di scuola»; il Cieco,
un mendicante cantastorie imbroglione che diffonde immani panzane
e scomode verità; l'oste della locanda di Shorly; il Cancelliere
di Villa, il Primo Intendente, il Referendario, il Procuratore
Signifero, il Maestro Aulico, i briganti della Compagnia del
Coltello; e c'è una commedia
che salta, ed un
rapimento, e una fuga da casa, e bambini che non nascono più, ed
un Cancelliere che sbianca di
fronte ad un certo
biglietto e allora ritira l'accusa, cosa che fanno anche il Primo
Intendente di Villa e poi anche il Vice e il Consigliere di Prima
e Ultima
Istanza. E c'è la
Collina, e lassù, dietro
un cancello, ogni
notte i morti parlano
a lungo -
quelli che
qualcuno ricorda, perché
chi sfuma dalla memoria dei vivi svanisce nel nulla. E sulla
Collina, là,
dietro al
cancello, c'è il padre di Penny, e sua moglie ogni notte si reca
a parlargli, e discutono a lungo perché lei ha detto al figlio:
"Nessun uomo (di questo puoi stare tranquillo) valeva l'ombra
del suono del tacco del tuo povero padre. Con un pezzo di
sciabola in mano e
un cavallo sotto
di sé, sapeva fare cose
da libro, da
cantarsi alle fiere per anni. Come del resto è accaduto. E prima
di marciare per la brughiera di Fellow, dove doveva cadere, per
tradimento o disgrazia o tutti e due messi insieme (perché mai
una causa soltanto riuscì ad avere ragione di lui), mi disse
questo e nient'altro: "lo voglio che mio figlio sappia un
giorno combinar tante cose da farmi vergognare delle poche che ho
fatto..." Capisci lo stile, ragazzo? Beh, questo era tuo
padre». E lui invece vorrebbe che Penny sapesse la verità, ché
il suo idolatrato padre non era altro che un povero sellaio. Verità
che Penny, per
caso, un giorno
scoprirà, e ne deriveranno conseguenze che qui non dirò. Non le
dirò soprattutto perché è meglio gustarlo nella limpida lingua
del suo autore, questo bellissimo libro «per ragazzi». E a tutti
coloro che al solo pensiero di questa «categoria» storcano il
naso, vorrei ricordare quel che scrisse in proposito Attilio
Bertolucci su «la Repubblica» nel febbraio 1978: «I grandi, cui
oggi caldamente raccomando il libro, spero non abbiano il palato
cosi guasto da trovare Penny Wirton un tantino, come dire,
semplice. Mi credano, è molto più complesso e labirintico di
quel che non sembri, anche se risolto con solare chiarezza, giusta
la lezione di quel Robert Louis Stevenson da Silvio D'Arzo tanto
amato».
Sì,
la sintonia di D'Arzo
con Stevenson si è espressa nella sua cifra più alta proprio in
"Penny Wirton e sua madre". Un libro, questo, pubblicato
da Einaudi soltanto nel 1978 ma databile al 1948, sulla cui
prolungata e complessa stesura, e su quel che per D'Arzo
rappresentò, si può leggere molto nel carteggio con Vallecchi.
Un libro che sicuramente costituisce un documento importante anche
nella dolorosa vicenda biografica di D'Arzo, ma che testimonia
esemplarmente di quale considerazione effettiva egli avesse dello
scrivere "per ragazzi".
Penny
Wirton e
sua madre è a mio parere il più bel libro «per ragazzi»
scritto in lingua italiana dopo Pinocchio. Il più bello e il più
intenso, e il più
duraturo. Un
libro carico di contenuti
forti ma
assolutamente privo di pesantezze e moralismi; un libro che in
piena levità si distende sulle vicende interiori e sulle
dinamiche sociali senza mai
cadere nella
precettistica e nella noia. Un libro in cui a Silvio D'Arzo è
riuscito quel «miracolo» che lui stesso aveva sottolineato
parlando dell'Isola del tesoro: «Perché Stevenson sapeva una
cosa importante: che ai nostri tempi, ai tempi «dei più savii
giovani d'oggi», una sola condizione è rimasta per cui si possa
accettare anche il più poetico dei c'era una volta: che sia
documentato anche più di una storia o una cronaca. (...) Ma ne
sentiva una anche più importante: che la più ben congegnata
invenzione, il più logico e conseguente sviluppo degli
avvenimenti, lo stesso senso della proporzione, cosi mirabile in
lui, potevano finir col creare un che di lontano dall'avventura e
dall'arte come lo è dalla vita anche la più saggia delle sagge
sentenze di Polonio. Che per trovare logica un'avventura occorre
un alito di illogicità. Che, insomma, per «credere» veramente a
una favola occorre in fondo che sia un poco incredibile».
Eppure,
nonostante tutto, Penny
Wirton
è
sostanzialmente misconosciuto. Bertolucci, in quello stesso
articolo, lamentava che l'editore Einaudi avesse scelto di «ghettizzare
il mirabile racconto nella pur ottima collana «Struzzi Ragazzi»».
Aveva semplicemente ragione. Perché quella scelta, sicuramente
ispirata da intenzioni nobili, non poteva che portare a
conseguenze doppiamente disastrose: da una parte allontanare il
lettore adulto, diffusamente convinto di non doversi abbassare ai
livelli della cosiddetta letteratura per l'infanzia; dall'altra
non arrivare mai ai ragazzi. E invece avrebbe dovuto avvenire
esattamente il contrario. Anzi, a me sembra che questo sia uno dei
casi in cui è opportuno, o necessario, che un editore non si
dedichi solo ai propri conticini e sappia osare
la doppia
edizione, una «per ragazzi» e una «non-per-ragazzi». Perché
è verissimo quel che sosteneva Bertolucci,
che «Penny
Wirton andrà collocato fra L'isola del tesoro e Huck
Finn: che stanno sia nella biblioteca dei ragazzi che in
quella dei grandi. Libri sfuggenti e alati, possono spostarsi
dall'una all'altra perché hanno la natura di Ariele»
Ma
altrettanto vero è che siamo pervasi di cultura del pregiudizio e
del preconfezionato o precotto, e per far si che una propria lettura
passi a figli o allievi è necessaria una piuttosto rara «buona
volontà»: quella che si fonda e si sviluppa su una complicità,
tra adulti e ragazzi, che,
consapevole
della propria sostanza di gesto d'amore, si manifesta nel passarsi a
vicenda, con discrezione e serena determinazione, l'acqua della vita
nelle sue variegate versioni - e tra queste una parte importante
hanno le parole e le storie.
Ai figli, agli
allievi, agli amici d'età verde o verdissima non mi pare che basti
fornire qualcosa di che sopravvivere: sarà necessario dar loro
anche il
mare e il vento e
le nuvole e le montagne, cioè anche libri, che so?, come Harun e
il Mar delle Storie di Rushdie, Il diavolo nella bottiglia
di Stevenson, Il paese dei ciechi di Wells, Ci sono
bambini a zigzag di David Grossman, Il prigioniero nel
Caucaso di Tolstoj, Lazarillo de Tormes. Libri come Penny
Wirton e sua madre, per esempio. Ma, beninteso, ben alla larga
dalle paludi dell'editoria scolastica.
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