Cammina cammina, in cerca di avventure per la nostra felicità

L'opera saggistica e narrativa di Beatrice Solinas Donghi

su Rosso Scuola gennaio-febbraio 1991

                                                                                                                     

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 Se dicessi d'avere, a tutt'oggi, molto ma molto errato, direi soltanto il vero: pertanto lo dirò. Ma il dire presuppone - o non lo presuppone, ma poi ci incappa dentro - il farsi intendere, e allora

 entrano in gioco mille cose e finisce che poi cascano gli asini.

Dato che tengo molto all'incolumità degli asini e che tra quelle mille cose so bene esserci anche l'esistenza di benevoli e malevoli, la secca verità non sarà sufficiente. Infatti, se dico d'avere molto errato, subito e ciecamente i benevoli mi riterranno erratico, i malevoli erroneo. Il vero invece è questo: hanno ragione entrambi, ed entrambi hanno torto, avendo io molto errato erratico ed erroneo. Del mio essere erroneo, però, qui vorrei solo tacere -ché ci sono altri luoghi più acconci alla bisogna - e vorrei dire invece dell'errare erratico. Nessuno si spaventi: non parlerò dei miei viaggi, anche perché non mi riesce difficile riconoscermi, ben più che nel ruolo di avventuriero attivo, in quello di avventuriero passivo, «ruolo che consente il piacere di avventure meravigliose senza che ci si debba sottoporre agli inconvenienti e alle sanzioni divine e sociali che esse comportano», come spiega Pierre Mac Orlan nello squisito Piccolo manuale del perfetto avventuriero, Tusitala 1986.

Il mio stato di avventuriero passivo non mi ha però impedito, per diverse ragioni che qui non interessano, di errare parecchio, cambiando piuttosto spesso abitazione. E così m'è accaduto di avere numerosi vicini: generalmente, a prescindere da certi ululati che si regalano in famiglia, dentro i loro appartamenti, persone educate e corrette. Quelli attuali, per esempio, incontrati per le scale salutano, e sono anche in grado di dire se quel giorno faccia molto caldo oppure molto freddo, quanto abbiano impiegato a parcheggiare o, nei giorni di pioggia, quanto piova. E casi cambierò casa ancora; non mi piace avere cattivi vicini. Perché questi altro non sono che tali: dice infatti Peter Bichsel che un buon vicino è uno che racconta qualche cosa, al contrario di uno che dica qualche cosa. Si potrebbero fare, a questo proposito, molti discorsi, si potrebbero dire molte cose; io mi limiterò a ricordare quale forza vitale indistintamente ci sia nel narrare se Shaharazàd, per mille e una notte, salva la propria vita raccontando; mi limiterò a ricordare questo e a raccontare una storia. È una storia chassidica, ricordata da Gershom Scholem in Le grandi correnti della mistica ebraic,. (Il Saggiatore 1965), che trascrivo qui con le parole che Scholem affermava di avere riportato dalla viva voce di Shemuel Yosef Agnon:. «Quando Bàal Shem [che fu il mistico fondatore del chassidismo) doveva assolvere un qualche compito difficile, qualcosa di segreto per il bene delle creature, andava allora in un posto nei boschi, accendeva un fuoco, diceva preghiere, assorto nella meditazione: e tutto si realizzava secondo il suo proposito. Quando, una generazione dopo, il Maggid di Meseritz si ritrovava di fronte allo stesso compito, riandava in quel posto nel bosco, e diceva: "Non possiamo più fare il fuoco, ma possiamo dire le preghiere"- e tutto andava secondo il suo desiderio. Ancora una generazione dopo, Rabbi Moshè Leib di Sassow doveva assolvere lo stesso compito. Anch'egli andava nel bosco, e diceva: "Non possiamo più accendere il fuoco, e non conosciamo più le segrete meditazioni che vivificano la preghiera; ma conosciamo il posto nel bosco dove tutto ciò accadeva, e questo deve bastare". E infatti ciò era sufficiente. Ma quando di nuovo, un'altra generazione dopo, Rabbi Ysra'èl di Rischin doveva anch'egli affrontare lo stesso compito, se ne stava seduto in una sedia d'oro, nel suo castello, e diceva: "Non possiamo più fare il fuoco, non possiamo dire le preghiere, e non conosciamo più il luogo nel bosco: ma di tutto questo possiamo raccontare la storia". E il suo racconto da solo aveva la stessa efficacia delle azioni degli altri tre».

Un pozzo nel mondo.

C'è un pozzo, nel mondo, e ha pure una certa capienza, al quale si potrebbe tutti quanti attingere per fornirsi di strumenti per affrontare qualche compito difficile e avere di che salvarsi la vita per ben più che mille e una notte. È l'insieme, sterminato davvero, di tutte le storie, d'ogni tempo e paese. Per esempio, non dice proprio nulla ad arabi e israeliani a proposito del loro essere in conflitto il fatto di avere nei rispettivi patrimoni culturali le due storie che qui ricorderò?

In un racconto popolare arabo a Giuha viene rubato l'asino. Allora si mette a correre e gridare minacciando che, se non gli verrà restituito,<<"farò come ha fatto mio padre!" Spaventati, i ladri stavano per restituire l'asino, ma uno di loro domandò: "Che cosa ha dunque fatto tuo padre?" "È semplice" rispose Giuha "ne ha comprato. un altro'>>(Racconti popolari arabi, a cura di E. Console, C. Gutermann e S. Villata, Mondadori 1985). E in una delle Storielle ebraiche (a cura di F. Folkel, Rizzoli 1988) si racconta che a un mercante ebreo viene rubato il cavallo mentre si trova in una locanda. Quando scopre il fatto si mette a gridare: «"Guai a voi miserabili (...) Mio padre mi ha insegnato che cosa fare in questi casi". Il vecchio Mendel, terrorizzato, gli si avvicina e gli chiede: "Ma che cosa ha fatto suo padre?" "Che cosa ha fatto? Se ne è andato a piedi"».

Significherà pur qualcosa il fatto che esistano, nella storia delle storie di due entità che cercano di distruggersi a vicenda, ed esistono in entrambe, due situazioni immaginative, memoriali, narrative, comportamentali, emotive, sociologiche, culturali, tanto vicine. Troppo semplice? Forse si, ma proprio questo dovrebbe costituire l'incentivo decisivo a tenerne conto. E invece mica se le raccontano le loro storie; non si raccontano nulla: pessimi vicini.

Questi «esempi» potrebbero anche essere come qualche cosa che equipara il raccontare a qualche altro agire umano e anzi qualche volta a questo «altro agire» si sostituisce. Lascio a chi voglia farlo di prendere alla lettera la faccenda; l'intento mio è invece d'altro tipo. L'intento mio è quello di sottolineare quanto utile potrebbe derivare dal praticare il «dilettevole», nella convinzione che, come diceva Leopardi; «il dilettevole sia più utile che l'utile». Ma, se il raccontare può salvare la vita, mutare l'essenza dei rapporti tra vicini, provocare il sospetto di una possibile profonda fraternité tra coloro che passano la vita a perseguitarsi, perché non assumere del raccontare i «luoghi privilegiati» - le storie - prima di tutto in quanto storie, racconti di vicende, luoghi di affascinato incantamento?

Beatrice Solinas Donghi, una quindicina d'anni fa, ha scritto un libro molto bello e molto importante, La fiaba come racconto. In questo libro, limpido e profondo, giustamente polemico e appassionato, Solinas Donghi ha rivendicato la necessità di restituire alla fiaba il maltolto. Troppo a lungo, ripetutamente, con reiterata ostinazione, ci si è serviti delle fiabe per cercare in esse «spiegazioni» che tutto consideravano tranne la loro essenza prima, il loro essere appunto innanzitutto un racconto; con il risultato di ridurre la fiaba a chiave interpretativa unidirezionale: arrivando così a un impoverimento oggettivo, a fronte della prodigiosa ricchezza di possibilità di lettura che il racconto in sé contiene e che ognuno deve trovare da sé, se lo vuole.

 

Un'eco creativa

Contro queste impostazioni Beatrice Solinas Donghi non ha però scritto soltanto quell'importante libro di saggi - oggi purtroppo non più disponibile -; il suo discorso si era avviato in precedenza ed è proseguito fino a oggi attraverso le sue storie, le sue fiabe e i suoi romanzi. Le sue narrazioni, mai ispirate ad una finalità dimostrativa di messaggi più o meno esibiti, si sviluppano all'intemo di una frequentazione assidua e lieve dei luoghi canonici della fìaba, soprattutto a partire dalla tradizione popolare. Una frequentazione assidua e lieve, profondamente assorbita, assimilata, è come rilanciata in una continuità che si innesta su temi e linguaggi senza travisamenti e nello stesso tempo con sviluppi - di temi e di linguaggio - che non ne fanno una stanca ripetizione ma al contrario qualcosa come una sensibile eco, un'eco che non si contenta di rinviare il già emesso da altri. È un po' come se si trattasse di un'eco che alla riproduzione di un suono ricevuto accompagni una propria voce, di quel suono mantenendo integro il timbro ma nello stesso tempo rielaborandolo e restituendolo rinnovato. Non si tratta di banali aggiornamenti di linguaggio, non si tratta di inserimenti di oggetti e personaggi dei nostri giorni; si tratta piuttosto di calibratissime vibrazioni, di sapienti spostamenti minimi, operati quasi con pudore ma con forza semplice e quindi vera.

Si potrebbero prendere le fiabe di Beatrice Solinas Donghi e cercare in esse i riferimenti, i rimandi, le citazioni di luoghi, situazioni, temi e motivi della fiaba popolare; si potrebbe cercare in esse tutto questo e si scoprirebbe che molto ma molto resterebbe comunque ancora, elaborato con eleganza sottile, e con altrettanto sottile ironia.

Questa impostazione di ripresa di motivi della fiaba tradizinale aveva avuto due felicissimi esiti nella Gran fiaba intrecciata e nelle Fiabe incatenate; ma anche nel recentissimo Le storie di Ninetta questa impostazione ritorna, cosi come ritorna il principio di fornire una serie di storie che, pur in piena autonomia e pienamente fruibili singolarmente, formano un insieme complessivo, una storia sì articolata in parti ma fortemente unitaria. E sostanzialmente succede un po' questo: si leggono le singole storie, e queste si rivelano piacevolissime e vive; ma leggendo l'intero libro si ha un ulteriore incremento di piacevolezza, dovuto al fatto che il legame fra le parti della storia è tanto lieve ma saldo da costituire di per sé un'attrazione.

Quando, qualche anno fa, uscì Quell'estate al castello, il romanzo fu accolto evidenziando un felice ritorno del «romanzo per ra.gazzine». In effetti si tratta di un libro che si colloca in quel filone, con una precisa parentela con i romanzi che uscivano nella «Biblioteca dei miei ragazzi» della Salani. Si tratta però a mio parere di qualcosa di più: un romanzo di ragazzine, ricco di avventure e vicende raccontate con ironia leggera, con la giusta dose di mistero e con un'attenzione alla dimensione della memoria che ne fa anche un utile strumento di conoscenza di un tempo diverso dal presente. Questo fa si che il romanzo sia molto fruibile non soltanto dalle «ragazzine» ma anche dai ragazzini e dagli adulti. Perché queste ragazzine non sono sdolcinate eroine, sono piuttosto personaggi «veri», forti del disponibile e partecipe e allegro e doloroso sentire. Allora anche le avventure, tante e avvincenti, si rivelano essere poi qualche cosa di più; si rivelano essere l'accompagnamento e il contorno di altre avventure, le avventure interiori - e allora, forse, è anche necessario che di ragazzine si tratti, essendo queste fornite di un di più di sensibilità rispetto agli adulti e ai ragazzini -. E questo non vale soltanto per le protagoniste di Quell'estate al castello, ma anche per Peonia e Fenice, ne La figlia dell'Imperatore. E non solo; anche Ninetta, la protagonista di Le storie di Ninetta, è un personaggio che appartiene al piccolo popolo delle bambine avventurose e sagge, disponibili e quietamente ma tenacemente determinate. Delle bambine che si sanno stupire e appassionare, e perseguono con costanza stupori e passioni; delle bambine serie e sorridenti che capiscono subito che tipo sia l'Uomo Selvatico e sanno interpretare la sua ostica lingua; delle bambine gentili e tenaci e che proprio per questo vengono scelte dalla Gattaferra per svelare loro la propria caratteristica di gatta parlante e per aiutarle contro le insidie del gerolamese, la perfida trappola del rude zio Gerolamo. Delle bambine, insomma, che camminano camminano, e vivono avventure per la felicità degli avventurieri passivi. I quali errano molto, erratici ed erronei e, pur continuando probabilmente a ripetere errori e farne pure dei nuovi, sarebbero felici di fermarsi in una casa in cui trovare un ottimo vicino come Beatrice Solinas Donghi, narratrice di storie.