Un maestro

da Cooperazione Educativa novembre-dicembre 2004

di Maria Bacchi

                                                                                                           

 

Un maestro

 

     Dal 9 aprile 2004 Giuseppe Pontremoli non c’è più. Non aveva ancora 48 anni. 

     “ Le persone non muoiono, restano incantate”, scrive Joao Guimaraes Rosa, autore della sua

 “seconda Bibbia”, Il grande Sertao.[1] Qalunque sia la natura dell’incanto che ci ha privati di Giuseppe, la sua perdita è pesante e dolorosa: per la letteratura, per le donne e gli uomini che educano e insegnano, per le bambine e i bambini, per le sue amiche e i suoi amici, per tutti coloro che ha amato e che lo hanno amato - la sua compagna,  suo figlio, le sue sorelle, in primo luogo-.

     Siamo stati amici (e già è difficile usare questo tempo passato a cui l’incanto che mi priva delle sue parole vive mi costringe). Ci siamo conosciuti, era l’ottobre del 2001, nel teatro dell’Unione Femminile, in corso di Porta Nuova 32, a Milano, dove lui partecipava, cantando in un coro, alla presentazione del mio primo libro.     Quella sera abbiamo camminato a lungo per la città afosa parlando un po’ di tutto, soprattutto delle nostre infanzie. Ma la nostra amicizia è maturata nelle lettere che ci siamo scambiati, sfidando la labile efficacia delle parole, la loro estenuante polisemia, l’impossibilità di farle coincidere col reale e,  pure, la loro inoppugnabile, pietrosa realtà. Per entrambi il tentativo, mai reso esplicito, era forse rispondere all’interrogativo Chi sono io?, in relazione in primo luogo all’infanzia, ma anche alla storia, alla letteratura, alla politica -al suo senso e alle scelte che comporta-, all’amicizia, al dolore, alla felicità della comunicazione. E poi, negli ultimi dolorosissimi mesi, all’ineguale scambio di emozioni tra chi sente avvicinarsi la morte e chi ne patisce con l’amico, ma è destinato a sopravvivergli.

     Giuseppe aveva accolto con gioia l’idea di una mia recensione del suo ultimo libro, Elogio delle azioni spregevoli, su <<Cooperazione Educativa>>. Ma ora mi accorgo quanto scrivere di lui in sua assenza sia doloroso e difficile . Difficile perché Elogio è un libro complesso e dialogico, con infiniti percorsi e innumerevoli interrogativi aperti, e le citazioni che lo costellano più che evocazioni di testi amati paiono a volte diventare invocazioni agli autori, perché  diano  forza  e voce ulteriore al suo progetto narrativo che forse non è errato interpretare, nella sua essenza più autentica, anche come progetto esistenziale; un progetto ‘trasgressivo’, dato che Elogio vuole far capire quanto vitali, liberanti, accomunanti, gioiose, pensose fino a diventare potenzialmente ‘sovversive’, possano essere, dentro e fuori la scuola, la letteratura e la lettura; e questo in spregio alla diffidenza o addirittura all’insofferenza degli educatori tradizionali, (e dei loro numerosissimi quanto a volte ben mimetizzati epigoni), che hanno ritenuto superfluo o addirittura inutile o dannoso leggere altro dai manuali scolastici. Come quel signor Tobia Corcoran, direttore del “Premiato collegio Minerva” che, ci racconta Silvio D’Arzo, aveva in testa un’idea soltanto:” Uno studente dai sei anni in avanti non può compiere azione più immorale, malvagia, spregevole, pericolosa, allarmante che leggere libri che non siano i tre libri di testo”[2]. Analogamente, con le aggravanti del caso, l’anatema valeva per i maestri che facessero leggere ai ragazzi libri che non fossero i testi previsti dal signor Corcoran. Ma scrivere di  Elogio delle azioni spregevoli è difficile anche perché esso, di fatto, è una singolare forma di autobiografia nella quale un uomo - che è scrittore e maestro, che intensamente è stato bambino e adolescente e da quell’età di voli a tutti i costi non intende congedarsi - sceglie di raccontare di se stesso e del suo sguardo sul mondo soprattutto attraverso un infinito lavoro di tessitura  delle storie che si intrecciano e si sovrappongono nei grandi libri che una tradizione critica tanto equivoca quanto pervicacemente inadeguata, ha voluto destinati esclusivamente all’infanzia. La trama di vita dell’autore di questa ‘autobiografia’ si intravede leggera. Eppure Giuseppe in questo libro c’è,  con un’intensità e una passione  che ne rendono dolorosa la rilettura per chi  soffre della sua assenza. Vi ricorrono, dicevo,  le grandi storie contenute nei libri che Giuseppe Pontremoli ha amato, ma anche quelle che, bambino, ascoltava raccontare nella bottega dei suoi genitori, in un paese dell’Appennino tosco-emiliano, “una stanza in cui, lungo le pareti, scaffali di legno sostenevano stoffe, sacchi, vasi, scatolame contenente bottoni, caramelle, biscotti, citrato, pepe, saponi, corde”. In quella bottega Giuseppe  sedeva ad ascoltare, tra un sacco pieno di zucchero e le bacinelle in cui stavano in ammollo i merluzzi. Anche lì hanno avuto origine le sue storie. Una passione che si accende ancor più nel gusto di violare i  divieti ad ascoltare i racconti che in bottega fanno due “ brutte donne” che arrivano una volta al mese a piedi dall’al di là del monte, un al di là tanto remoto e oscuro che pare un Al di là estremo e infernale; sono racconti pieni di cose che fan tremare:  maledizioni, stregonerie, apparizioni, punizioni; e più sua madre tenta di allontanarlo da quelle narratrici un po’ blasfeme e furibonde verso la vita, più Giuseppe a quelle storie si avvince e le rimugina perché “ vere o inventate che fossero, quelle storie erano vere: vere perché fatte di sangue e respiro, di voci vive, di sentimenti forti come la terra, forti come il vento e i rami, l’erba,  le radici. Vere perché non mi lasciavano più.”[3]

     

Elogio delle azioni spregevoli

La passione per le storie, e insieme la straordinaria capacità di incarnarsi in esse e di esserne nel contempo incarnato, nasce in questo scenario d’infanzia, così come sui vecchi muri della camera da letto che lasciano affiorare, nelle macchie d’umidità, forme fantastiche, figure che Giuseppe ‘legge’ insieme a sua sorella. Suggeriscono narrazioni avvincenti anche il  torrione che si erge nella piazza del suo paese, i boschi che esplora, la città che, stretto alla mano di  suo padre, scopre per la prima volta andando a visitare uno zio all’ospedale. La città è irta di insidie e di oscuri presagi, minacciosamente strana per l’assenza di animali liberi, per gli ippocastani e i tigli “inspiegabilmente allineati”. Inspiegabile trama quella urbana,  per lui, bambino montanaro che la guarda, “la mano sudata nella mano sudata di mio padre”. Ed in questa immagine c’è una metafora di quel che lega l’adulto responsabile e il bambino: la mano del padre suda come quella del figlio perché si sta esponendo alla stessa avventura: il rischio di perdersi nella città, di affrontare la parte sconosciuta della vita; “smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta, è una cosa tutta da imparare”[4] scrive Pontremoli, citando l’ Infanzia Berlinese di Walter Benjamin.

     Il bosco, la foresta sono i luoghi di ogni narrazione della vita. Del resto la divisione fra città e campagna, tra rurale e urbano è “utile solo agli esattori fiscali”,  il bosco è “un extraspazio”, un luogo simbolicamente simile al deserto, il rifugio di chi cerca la solitudine e non vuole fare i conti con la legge, i palazzi, i terreni coltivati. “Per notare la differenza tra il rurale e il boscoso basta pensare alla Bella Addormentata o a Cappuccetto Rosso. Non sono racconti rurali, bensì racconti del Bosco. Hanno una forte carica simbolica e parlano della realtà interiore”[5] sostiene lo scrittore basco Bernardo Atxaga. Per questo Giuseppe può solo approdare a “storie boscose”, (e da esse ripartire infinite volte) non importa che siano ambientate in città o nelle selve, purché abbiano una forte carica simbolica e parlino della realtà interiore.

    Questo è ciò che accomuna il padre e il bambino che si avventurano nella foresta-città, mano sudata nella mano sudata:  il timore e lo stupore,  il tremore e l’incanto di avere a che fare con la vita, che, come ripete il protagonista de Il grande Sertao, “è una faccenda molto pericolosa”.

    E di tutte le avventure, di tutte le imprese rischiose una pare fondare tutte le altre, quella che ci vede impegnati a rispondere all’interrogativo più radicale: “Chi sono io?” Nel capitolo dell’Elogio che reca questo interrogativo come titolo, Giuseppe Pontremoli prende le mosse da Pinocchio che, nonostante le ambiguità a cui può dar adito la sua controversa conclusione, resta, secondo Giuseppe “ Il grande libro della paura e dell’ironia, della fame e dell’ironia, della notte e dell’ironia; il grande libro del teatro, il grande libro dell’essere incalzati, dell’andare correndo, il grande libro del figlio e del padre, il grande libro dell’infanzia”[6].  Pinocchio è un bambino, e quando si smette di essere bambini “ o meglio, quando ci si accorge che è arrivato il tempo in cui è necessario smettere di essere bambini, da quell’età si prendono scompostamente le distanze, e si guarda ad essa spesso con artificiosa alterigia, finanche con rancore. Si arriva anche a temerlo quel tempo, a temere che possa sopravvivere, che possa riaffiorare a tradimento come riaffiorano le stridulità della voce”[7]. Collodi con Pinocchio: “Ha messo in scena  la condizione tragica dell’infanzia(…), l’inafferrabile alterità, la soffocante e ineluttabile dipendenza; ha rappresentato l’essere, il porsi e il divenire di una definizione di sé”. Non è un caso che da qui parta Pontremoli per abbozzare il nucleo fondamentale di un discorso su Chi sono io?  che attraversa tutto il libro e che conclude la sua ultima intervista[8]: la separazione netta fra infanzia ed età adulta che fonda tante gerarchie nella scuola, nella cultura, nella società. Perché se un confine c’è – e ci deve essere anche per rispettare l’alterità dell’infanzia e delle sue culture- è un confine mobile e, come scrive Bruno Schultz, “l’autentica maturità è maturare verso l’infanzia”[9]. Se “maturare non significa superare ma crescere”; se, in questa prospettiva, “l’adulto non è un bambino che ha cessato di vivere, ma un bambino che è sopravvissuto”, sarà allora necessario

 

   camminare camminare  continuando a scrutare il cielo e la terra del “Chi sono io?”, nuotando nel mare dell’impasto di divenire e memoria; e sarà necessario essere non già dei “Peterpan” appagati e protetti e acquietati in un  sogno regressivo, bensì dei Peter Pan costituzionalmente inconciliabili, dei refrattari dalle suole di vento, dei bambini a zigzag, dei burattini di legno che magari vorrebbero anche crescere, ma che spesso proprio non possono farlo perché radicalmente estranei a quel ‘crescere’ che è il tacitarsi, l’accondiscendere e farsi maggioranza [10]

 

    A queste immagini  del labile confine tra infanzia e adultità, dovrebbe avvicinarsi chi vuole essere educatore, titolo che Pontremoli attribuisce con convinzione a Pasolini e a don Milani, “pedagogisti” oltre che educatori, per il loro effettivo mettersi in gioco tutti interi nella relazione educativa[11],  come persone fatte di corpo e di emozioni, “ di tensioni ideali e di dolore, personale e storico, fatte insomma del proprio multiforme e incomprimibile io”: tutte caratteristiche, o se si vuole “doni”, o se si vuole “stigmate” che fanno di Pasolini e di don Milani il contrario dei soggetti che troppo spesso accade di incontrare nelle scuole; dove, su tutti, prevalgono due mali: l’indifferenza -talvolta mascherata da asettica  “professionalità”, altre volte dovuta a delusione, dolore, frustrazione, “percezione angosciosa del procedere del proprio tempo biologico” o a “labilità modereccia”-, e la rassegnazione, una “scelta di morte” “elevata a valore e a modello da riprodurre”. Mali entrambi riconducibili forse a quella che Pasolini chiamava un’ “invincibile ansia di conformismo”.

    Nel rapporto educativo deve invece entrare la vita vera e intensa con i suoi interrogativi, le sue passioni, le sua stanchezze. Deve entrarci grazie ad un’assunzione di responsabilità,

 

    la responsabilità di assumersi responsabilità ricercandosi un senso, una passione, un appassionato agire la propria parte. Perché comunque siamo coinvolti (…) perché le parole possono essere pane e bevanda e giaciglio e strumento di difesa; e perché, laddove inventiva e memoria non siano ombra o orpello ma sostanza dell’essere, crescere e cambiare è davvero possibile; e poi perché probabilmente il mondo sarà perduto, ma i ‘ragazzini’ avrebbero potuto –potrebbero? Potranno?- salvarlo.[12]

 

    Non importa a Giuseppe Pontremoli se in queste parole possono risuonare echi di apparente moralismo, volontarismo o enfasi. Perché è vero, le obiezioni facili alla passione pedagogica non portano da nessuna parte, e invece da qualche parte bisogna andare. Verso la consapevolezza di sé e della propria condizione, magari, sapendo che molte domande su se stessi e sul mondo resteranno aperte, molte questioni resteranno irrisolte e ce le terremo così, consapevoli, come  scrive Grossman  che “se la conoscenza è forza, è anche vero che il mistero possiede una dolcezza speciale”[13].

     Il mistero ha a che fare con il segreto, con ciò che ci sovrasta senza che possiamo interamente comprenderlo.  Sono dimensioni che spesso intensamente compaiono negli scritti di Giuseppe Pontremoli e nel suo pensiero pedagogico; sono dimensioni ancora una volta, del suo stesso esistere. Di mistero e di segreto, ad esempio occorre ragionare con i bambini nell’aiutarli a vivere il rapporto con la natura al di fuori di ogni retorica.

    A questo proposito sottolinea l’alterità culturale dei bambini, l’impossibilità dell’infanzia a restar chiusa nei luoghi comuni; ci ricorda, con Eugenio Montale, che

 

I bambini sono teneri

e feroci. Non sanno

la differenza che c’è

tra un corpo e la sua cenere.

I bambini non amano

la natura ma la prendono.[14]

 

     Quando arriva la neve, ad esempio, preparano tagliole per catturare i fringuelli, ma, come nella poesia di Rocco Scotellaro, amano anche ascoltare i versi d’amore per gli uccelli che la maestra legge a voce alta.[15]

Nella speranza (Giuseppe non crede nella verificabilità degli insegnamenti profondi, e nella riducibilità del vivere in obiettivi didattici) di educare i bambini a un rapporto di cura nei confronti dell’ambiente in cui vivono ritiene << che ciò che dovrebbe essere dato a tutti gli uomini, proprio come il latte materno>>  sono <<l’aria di una concezione dell’essere basata sulla capitiniana “compresenza dei morti e dei viventi”>>[16] in cui la memoria ha un ruolo fondamentale; insieme a quell’idea di infinito e di segreto che si evince dalle parole di Anna Maria Ortese:

 

    Primo: dove siamo, e chi siamo. A questo proposito informare subito qualsiasi bambino che la Terra è una palla sospesa nello spazio, modesto sassolino perso in un universo il quale a sua volta è perso entro altri universi; e avvertire  che molto difficilmente, anche se l’uomo dovesse avere mezzi tecnici portentosi, si saprà cosa sono questi universi; spiegare il concetto di infinito e di segreto (che può essere benevolo, ma non è certo) che ci sovrasta.[17] (p.75)

 

    Tutta la pedagogia di Giuseppe Pontremoli è intrisa della complessità di ciò che è infinito e segreto: l’interezza e la singolarità dei soggetti –adulti e bambini- in gioco nella relazione educativa e la compenetrazione intrinseca tra le età (il bambino che sopravvive all’infanzia, il maturare verso l’infanzia) non danno spazio a soluzioni tecnicistiche che, secondo Pontremoli, sono la spia di un vuoto da riempire, ma che non  lo riempiono, dato che ogni insegnante, nella ricerca di un rimedio vero a questo vuoto, dovrebbe cercare di colmarlo

 

   con quanto ha di meglio –il meglio di sé, della propria storia. E quindi innanzitutto con le

Ballata per tutto l'anno e altri canti

 proprie passioni e le proprie storie (…) Raccontare storie ai bambini, cioè aiutarli a crescere, aiutarli a imparare a vivere.

    Vivere e crescere. Non sopravvivere, non trascinarsi; non: adeguarsi all’esserci consentendo comunque.   Vivere e crescere –e cambiare quindi (…). Allora però è necessario che dietro il raccontare, prima del raccontare, ci sia  qualcosa di enorme, come il senso stesso della propria esistenza. Una passione vera, almeno, che muova e accompagni- che perseguiti forse; che non lasci respiro al respiro affannoso, all’arrancare, e che aliti invece il proprio respiro ampio. Si può chiamare amore, dolore, Dio –ognuno ha la propria storia- non è il nome che conta, quel che è essenziale è che la rivelazione ci sia e sia mantenuta viva e alimentata: con passione, con disponibilità a stupirsi e a rinnovare lo stupore [18]

 

     Questo programma così grande, pieno di respiro e di incanto, di cultura e di amore, di memoria, di letteratura e di vita introduce a un altro mistero: come si trasmette la conoscenza? Attraverso quali strade si delinea un progetto e il progetto diviene conoscenza viva e condivisa e spendibile per conquistare nuovi saperi e nuove storie?

    Sul numero 9 di Primapersona [19] Giuseppe ha pubblicato uno scritto molto bello intitolato La vista della cicogna. Il titolo riprende il tema di un racconto che  Karen Blixen ascoltava spesso quand’era bambina. Vi si parla di un uomo che viveva la sua vita in una casetta dalle forme ordinatamente geometriche nei presi di uno stagno.  Una notte l’uomo venne svegliato da un terribile rumore che proveniva da un luogo difficile da localizzare. Il poveretto, spaventato,  prese a correre affannosamente nell’oscurità per lo spazio che circondava la sua casa in cerca dell’origine di quel frastuono: inciampò, cadde, si rialzo più e più volte, spostando massi e disseminando di tracce la terra. Finché si accorse che l’argine dello stagno aveva ceduto e che acqua e pesci stavano tracimando. Riparò la falla e andò a dormire. “ La mattina dipoi affacciandosi alla finestrella tonda –il racconto finisce così, in maniera drammatica- che vide? Una cicogna! (…)”[20] Il perché di tante tribolazioni, di tanti intoppi che sembravano messi a bella posta sul suo percorso stava lì, nel disegno della cicogna che aveva delineato col suo correre cieco, ma tenace. Una corsa affannosa che ebbe  fine solo quando riuscì a raggiungere il suo proposito. La cicogna era la sua ricompensa, ma poté vederla solo alla fine, dall’alto della sua finestrella tonda. E Karen Blixen si domanda “Questo buco dove mi muovo appena, questa fossa buia in cui giaccio, è forse il tallone di un uccello?” E Giuseppe a questo punto si chiede:

 

    Quando il disegno della mia vita sarà completo, mio figlio vedrà una cicogna? Vedranno una cicogna i miei alunni? Una cicogna o quant’altro ovviamente, giacché quei contorni non sono necessariamente il solo tracciato possibile solcato dall’arrancare di ogni giorno, dal cercare di tamponare falle, dal cercare di scoprire da dove provengano le insidie  che costellano il cammina cammina. Vedrà una cicogna mio figlio?   Mi sembra che quel che potrebbe dare un senso alla mia vita sia proprio il fatto che egli possa  vedere che io nel mio arrancare ho tracciato una cicogna.[21]

 

     Non è possibile verificare l’essenza della nostra pratica educativa “perché è qualcosa che non si finisce mai di scoprire che si va facendo”. I passaggi determinanti, le svolte, gli atti che hanno lasciato segni indelebili, si vedranno solo a distanza di tempo, di molto tempo, a volte. A volte capiremo molto tardi chi siamo. E non è detto che riusciremo a farlo.

    Conclude con questa sospensione angosciosa anche la sua ultima intervista Giuseppe, il 2 marzo, circa un mese prima della sua morte. E strappa all’intervistatore di Fahrenheit il tempo per raccontare per radio qualcosa che due anni prima aveva già citato nello stesso saggio di Primapersona, dopo le sue riflessioni sul profilo della cicogna. E’ un racconto che compare ne Il processo di Kafka: un uomo rimane per tutta la vita davanti a una porta il cui accesso credeva precluso da un guardiano. Quando ebbe la sensazione di essere vicino alla morte chiede al guardiano  perché nessun altro si sia presentato a quella porta, per cercare di attraversarla. “Qui, nessun altro poteva ottenere il permesso: questa entrata era riservata solo a te. Vado a chiuderla”. [22]

 

     

Rabbia birabbia

“L’idea di essere soggetti  responsabili di una storia è probabilmente un’idea presuntuosa e illusoria, ma forse è l’unica che  possa aiutare a non finire come l’uomo (di cui racconta Kafka)” osserva Giuseppe. Questo interrogativo –di quale storia siamo responsabili? Chi siamo in realtà? Qual è  la via d’accesso riservata solo a noi?- è  un rovello che molti di noi si portano dentro senza avere nemmeno la forza di formularlo, un rovello che non deve averlo abbandonato mai. Ha camminato e camminato attraverso la letteratura, la musica, le relazioni, l’educazione, la politica (nel suo senso migliore di assunzione delle responsabilità che derivano dall’abitare il mondo con tutti i suoi conflitti) attento alla singolarità di ognuno, alle risonanze che ogni piega della vita aveva dentro di lui e alle parole con cui dirle senza tradirle.

 

      E’ una cicogna bellissima, Giuseppe, quella che hai tracciato, nel tuo camminare. Un disegno pieno di incisività e di senso. Tutto si tiene, ogni parte rinvia all’altra e le linee più involute si sciolgono all’improvviso in forme armoniose; e più col dito e con gli occhi quelle forme si accarezzano e si ripercorrono più si capisce quanto siano essenziali e necessarie. Necessarie in sé e necessarie a noi, che ora possiamo cogliere qualcosa del tuo disegno. Che, come tutti i disegni, è incompiuto però.

     Ma “Che Dio ci guardi dal completare qualcosa; tutto questo libro è soltanto l’abbozzo di un abbozzo” come c’è scritto nel primo libro della tua Bibbia, nel tuo Moby Dick.

    L’abbozzo di un abbozzo. Sì, forse anche Elogio delle azioni spregevoli potrebbe esserlo.

    Una volta, nel giugno del 2003, mi hai mandato, allegato a una email, un testo magnifico intitolato Noi diroccati un po’ ci ninnavamo. Mi scrivevi: “ E’ un capitolo di un libro che spero tu un giorno possa e
voglia leggere integralmente (ma spesso mi viene da pensare che accadrà che io muoia prima che lui nasca).”.  Tu ti riferivi forse alla difficoltà di trovare un editore (un mese dopo l’editore c’era, finalmente); o forse, con quel “mi accade di pensare che accadrà che io muoia prima che lui nasca”, (stavi ancora bene in giugno) evocavi davvero la possibilità che il tuo libro restasse solo

 un “abbozzo di un abbozzo”, ma solo per sua intrinseca vocazione, nutrito com’è del farsi incessante, non esaustivo, non esauribile, delle passioni della tua mente. Rilette oggi, però, quelle parole mi fanno rabbrividire. E un tremore mi viene anche dal contenuto di questo straordinario capitolo mancante ( che mi auguro possa trovar  spazio in una seconda edizione ampliata dell’Elogio).

     “Sono ancora senz’altro in sospeso, i miei conti più veri con la notte e il sonno”: esordisci così. E pare che a tenerti sveglio fosse la passione, intensa fino a essere dolorosa, del vivere “C’è sempre ancora almeno una cosa da fare: preferibile o inderogabile o utile o necessaria o cupamente ossessiva”; oltre all’attesa di quel “terzo pensiero”, tra il sentirsi smarrito nella dimensione sconfinata del mondo e il sentirsi schiacciato dalla sua piccolezza, come ti suggerisce un altro dei tuoi oracoli, Joao Guimaraes Rosa. Ma tra le voci che la notte ingigantisce, “illuminata di spine” com’è, c’è quella che ti invita a diffidare del sonno perché

 

Numerose volte, molte volte,

l’uomo s’addormenta, il suo corpo lo sveglia;

poi una volta, soltanto una volta,

l’uomo s’addormenta e perde il suo corpo[23]

 

     E tu ripeti più e più volte, con le parole di Vivian Lamarque “Io al mattino voglio svegliarmi e alzarmi/ non starmene lì sotto terra”[24].

    Di questo parli nel capitolo smarrito. E del dolore che accompagna la vita, e della stupidità crudele del voler “ridimensionare” (ancora una volta usi le parole amate di Vivian Lamarque: “non è come stringere un vestito/ non è indolore/ si taglia la pelle del cuore”[25]), e della stanchezza:

“…questo niente riposare sballottati tra insidie incombenti, silenzi senza silenzio, incantamenti; o anche il sentirsi persone forti, sì, ma con la continua tentazione di non esserlo; basterebbe anche questo soltanto, per sentirsi spossati, diroccati.”[26]

      Ci si sente spesso diroccati. E citi Tiziano Rossi, quando in Quasi costellazione, dice che

 

in ultimo, nel nòcciolo più scuro

bisognosi di cura

(…)

noi diroccati un po’ ci ninnavamo[27]

 

     Poi inviti a riflettere sul singolare contrasto fra la retorica zuccherosa ed edificante che comunemente avviluppa i discorsi e la letteratura ‘per l’infanzia’ e le biografie ‘difficili’ di molti e molte che hanno scritto d’infanzia. La tua “Galleria del dolore” va da Silvio D’Arzo, a Stevenson a Kipling a Pinin Carpi a Andersen a Ted Hughes, a Rohal Dhal a Mark Twain e molti altri ancora.

     Quale misteriosa malattia lega l’infanzia al dolore, Giuseppe? La nostalgia? La fatica della perdita? La fine del volo?

     Ancora Vivian Lamarque:

 

Le sue ali infantili

spiccano ogni volta felici il volo

incontro a chi spara.[28]

 

     Solo, soltanto durante l’infanzia il volo è davvero possibile  “e proprio perché volo, libero e gratuito, incurante di tutto; e felice ogni volta perché assoluto, unico e irripetibile, necessario e incontenibile come un respiro. E ci sono spari, spari di ogni tipo, contro i voli, perché il libero, il gratuito, il felice, l’incontenibile dirsi altro non è se non intollerabile. E così gli si spara – ed è uno sparo anche il fatto, inevitabile, che  quel tempo del volo abbia poi fine”[29].

    Una nostalgia infinita, Giuseppe.

 

 Mantova, 25 luglio 2004.

 

Note


[1] Scrive Giuseppe Pontremoli nell’appendice bibliografica a Elogio delle azioni spregevoli, intitolata Sentieri dentro un bosco di storie: “Grande Sertao, di Joao Guimaraes Rosa, secondo libro della mia Bibbia personale è del 1963. Nella traduzione di Edoardo Bizzarri è uscito nel 1970 presso Feltrinelli, che nel 1985 ne ha pubblicato la seconda edizione e successivamente lo ha edito nella collana economica Universale Feltrinelli “.

La  “prima Bibbia” di Giuseppe Pontremoli è Moby Dick, di Herman Melville.

Elogio delle azioni spregevoli è uscito per l’ancora del Mediterraneo, Napoli, nel gennaio 2004.

[2] In Elogio delle azioni spregevoli alle pagine 32 e 33, Giuseppe Pontremoli cita ampiamente un racconto incompiuto di Silvio D’Arzo che si trova in Una storia così. Poesie. Lettere per Ada, Reggio Emilia, Diabasis, 1995.

[3] Giuseppe Pontremoli, Elogio delle azioni spregevoli, cit.,  p. 28.

[4] Walter Benjamin, Infanzia berlinese, Einaudi, Torino, 1973, p.9.

[5] Le parole di Bernardo  Atxaga, riportate da Pontremoli alla pagina 76 dell’Elogio,  compaiono nell’intervista a cura di Paolo Collo pubblicata nel numero 66 del dicembre 1991 di <<Linea d’ombra>> con il titolo Minoranze e dimenticanze.

[6] Giuseppe Pontremoli, op.cit., p.104.

[7] Ibidem, p.105.

[8] Giuseppe Pontremoli ha parlato del suo Elogio delle azioni spregevoli, il 2 marzo 2004, durante la trasmissione radiofonica Fahrenheit.

[9] L’impegnativa e affascinante affermazione di Bruno Schultz compare in Lettere perdute e frammenti, a cura di Jerzy Ficowski, Feltrinelli, Milano 1980, p.103.

[10] Giuseppe Pontremoli, op. cit., pp.118-119.

[11] Giuseppe Pontremoli accosta ripetutamente Pasolini e don Milani per la dimensione  “pervasiva” che ha in entrambi la dimensione pedagogica e  rimpiange che fra loro non ci sia stata la possibilità di un confronto che oggi è solo deducibile dalla lettura parallela delle loro opere. Di don Lorenzo Milani cita Lettere a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1967 e le Lettere, a cura di Michele Gesualdi, Mondadori, Milano, 1970. Di Pier Paolo Pasolini riporta brani dalle pagine del diario e un articolo sulla funzione dell’educatore che compaiono in  Un paese di temporali e di primule, Guanda, Parma, 1993, e il “trattatello pedagogico” Gennariello che si trova in Lettere luterane, Einaudi, Torino, 1976.

 

[12] Giuseppe Pontremoli, op.cit., pp.123-124.

[13] La dichiarazione di Grossman proviene da Zigzagando tra i propri Doppi, intervista a cura di Carla Poesio, <<Liber>>, 36, ottobre-dicembre 1997,p.23. Grossman discute con Poesio del proprio libro, Ci sono bambini a zigzag, Einaudi, Torino, 1994.

[14] I versi di Eugenio Montale sono in Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 1977, alle pagine 409-410, nella poesia Un mese tra i bambini.

[15] Con la neve si prepara la tagliola/ e si aspettano i gridi dei fringuelli./ La maestra ai bambini della scuola/ legge un verso d’amore per gli uccelli:/ Mi piacevano i versi e la tagliola.

Rocco Scotellaro, E’ fatto giorno, Mondadori, Milano, 1982, p.136.

[16] Giuseppe Pontremoli, p.75.

[17] Anna Marita Ortese, Il cardillo addolorato, Adelphi, Milano, 1993, p.17. La citazione compare in Elogio a pagina 75.

[18] Giuseppe Pontremoli, op.cit. p.17.

[19] Giuseppe Pontremoli, La vista della  cicogna, in <<Primapersona>>, n.9, Archivio Diaristico Nazionale, Provincia di Arezzo, dicembre 2002, pp.51-54.

[20] Karen Blixen, La mia Africa, Feltrinelli, Milano, 1959, p.199.

[21] Giuseppe Pontremoli, La vista della cicogna, cit. p.52.

[22] Franz Kafka, Il processo, Einaudi, Torino, 1983, p.235.

[23] René Char, Poesia e prosa, Feltrinelli, Milano, 1962, pp.563-565. Come più volte mi ha ricordato Giuseppe Pontremoli, giocando sul senso di invidia che provavo per questa edizione ormai introvabile del libro di Char, la traduzione è di Giorgio Caproni.

[24] Vivian Lamarque, Una quieta polvere, Mondadori, Milano, 1996, p.70.

[25] Vivian Lamarque, Teresino, Società di poesia-Guanda, Milano, 1981.

[26] Giuseppe Pontremoli nel capitolo inedito Noi diroccati un po’ ci ninnavamo.

[27] Tiziano Rossi, Quasi costellazione, Società di poesia, Milano, 1982, p.65.

[28] Vivian Lamarque, Teresino, cit.

[29] Giuseppe Pontremoli, Noi diroccati…cit.



Ringrazio Alberto Melis,  scrittore e maestro, per la sua lettura partecipe  di questo testo e per il bellissimo sito Internet che ha dedicato all’amico Giuseppe Pontremoli.