Cattivi Maestri da "Volontà" marzo 1992 |
«I pedagoghi e i maestri di scuola, queste macchie nere e malinconiche che rattristano l'orizzonte sereno della prima fanciullezza...». Certo, qualcosa da obiettare ci sarebbe, e fin da subito, sull'effettiva serenità di questo tempo del vivere, ma qui, su questo, e almeno per ora, non mi soffermerò. Magari
sarà il caso di tornarci più avanti
ma, per ora, mi limiterò soltanto ad accennare al fatto
che sarebbe opportuno cercare di fare qualcosa perché quella
serenità possa essere non più solamente pretesa. Molto meno, ma
proprio molto molto, è invece possibile obiettare circa ai
pedagoghi e i maestri di scuola, troppo spesso, purtroppo, macchie
malinconiche e nere. E per di più con una aggravante. Questa:
Carlo Lorenzini mise quelle parole nel suo primo libro firmato con
lo pseudonimo Collodi, Macchiette. Il libro uscì nel 1879,
ma vanno bene ancora oggi. Qualche
tempo fa (non molto, e quanto non importa, ma in ogni caso a ben
più di cento anni di distanza dalle parole di Collodi) m'è
capitato di incontrare una bambina, figlia di conoscenti di
Portoferraio; e la bambina, alla mia evidentemente incauta
affermazione circa il mio mestiere di maestro, ha detto subito
queste indimenticabili parole: «Ecco, rovinata la serata».
Memoria d'una macchia, indubbiamente, e sconforto per un seppur
limitato futuro inevitabilmente individuabile come nient'altro che
malinconico e nero. Certo,
ci sono sicuramente differenze notevoli tra quel che poteva vedere
Collodi e quel che balenò quella sera agli occhi della bambina,
ma quello che alla fine è decisivo è che in ogni caso non si
trattava di verdi paradisi bensì di macchie nere. E si potrebbe
anche pensare che l'esperienza di quella bambina altro non fosse
che una dolorosa eccezione in un paesaggio complessivo
radiosamente multicolore: potrebbe anche essere (ma questo non
cambierebbe di una virgola la sua condizione, arrivando anzi a
configurarla come un'angheria inesplicabilmente subita in
solitudine) però non è così. Probabilmente
c'è anche da considerare, e non secondariamente, una parte di
atteggiamento necessariamente oppositivo, tanto da parte di
quella bambina quanto da parte di qualunque altro; oltre a questo
però non si può dimenticare come per i bambini l'insegnante
costituisca un polo di riferimento molto forte, e di altrettanto
forte legame emotivo e affettivo: comunque egli sia. Nonostante si
connoti a seconda dei casi come orco o fata, strega spregevole o
incantevole mago, l'insegnante è probabilmente davvero, come
viene definito in Cina, il «re dei bambini». Non conosco la
storia di questa definizione cinese, ma mi sembra che possa essere
assunta in ogni caso come buona, buona in sé, perché l'ambito in
cui si colloca la connota sia come espressione evocativa di magico
fiabesco sia come definizione antonomastica di una condizione di
potere. Questo può piacere oppure no, ma non c'è autocritica di ruolo che basti: da una parte i bambini recepiscono l'insegnante (nel bene e nel male) come una figura di potere pressoché assoluto; dall'altra (al di là del soggettivamente recepito) nei loro confronti non si fa che esercitare potere. E non
necessariamente perché malintenzionati, ma per il semplice fatto di occupare quel luogo della loro vita. Certo, anche tra gli insegnanti ci sono i malintenzionati, questo è fuori di dubbio, ma il gioco di costoro è per niente giocoso e fin troppo evidente, e in quanto tale abbastanza facilmente smascherabile. Più difficili da stanare sono invece le sottili perfidie, consapevoli o meno che siano, dei <<non malintenzionati>>. Questi, a differenza dei primi (che, come diceva Charles Dickens a proposito dei maestri dello Yorkshire, sono «ignoranti e truffatori, avidi e indifferenti, esseri sordidi e brutali» che «approfittano dell'idiozia dei genitori oltre che dell'impotenza dei bambini»), sono (siamo) perlopiù acculturati, sostanzialmente onesti, di buone maniere e addirittura disponibili a bere rammodernamenti di linguaggio e meraviglie della tecnica e aggiornamenti vari e quant'altro i prolifici pedagogisti ufficiali ritengano incontenibilmente esternabile. E dunque eccoli lì (eccoci), zelanti e diligenti, a compilare caselle, a mettere freccine, a pigiare il pulsante che accende la lavagna luminosa. Importa
poco che il testo (anzi, scusate, il Testo) sia per esempio la
lista della spesa; quel che conta davvero è usare la lavagna
luminosa, e metter le freccine e le caselle, e tutte le crocette
al posto giusto: obiettivo raggiunto, raggiunto parzialmente,
quasi completamente... Quel che conta davvero è avere programmato
(scusate: Programmato), (e averlo fatto senza dimenticare di
mettere nero su bianco che, per esempio, l'Obiettivo Generale è
senz'altro Essere-Consapevoli-Della-Necessità-Di-Una-Corretta-E-Completa-AIimentazione,
conseguibile senza dubbio attraverso gli imprescindibili Obiettivi
Specifici: a) Acquisto Del Cavolo Cappuccio; b) Acquisto
Dell'Acqua Della Salute; c) Acquisto Dell'Abilità Di Manovrare Il
Carrello Del Supermercato; d) Acquisto Dell'Acquisto
Dell'Acquisto... E poi Metodi e Mezzi, diligentemente elencati: a)
Attraversamento Della Strada; b) Superamento Della Soglia Del
Supertempio; c) Banconote E Miseri Spiccioli... E poi, implacabile
come la morte, la Verifica. Ah, la Verifica! Ma non si deve
pensare che tutto questo incasellare (scusate: Programmare)
produca aridità; tutt'altro: ne nascono anzi espressioni
(libere!, fuori casella fiato di pura umanità!) che hanno a
vedere addirittura col sublime: «Mi ha fatto dei ruttini
tutti di gola, mi ha fatto!». «C'è miseria più grande,
Signore?», diceva Silvio D'Arzo, e parlava anche lui di
educatori, lui che della scuola sapeva ben qualcosa e aveva
pensato a una storia in cui avrebbe parlato di una scuola da far
crescere all'ombra della gamba di legno di un pirata. Sì,
certo, all'orrore non c'è limite, e quindi, per esempio, la
miseria dei maestri dello Yorkshire è senz'altro più grande; ma
è anche più chiara, più esplicita, meno subdola, insomma. E
comunque anche il non avere cattive intenzioni è qualcosa di non
sufficiente: non lo è mai, ma ancor meno lo è quando si pratica
un'attività in cui si ha a che fare con persone, e meno ancora lo
è avendo a che fare con persone che vanno formandosi, con
autentica voglia di esserci e fare, di dire e sentire, di capire e
sapere, disponibili davvero all'incantamento e allo stupore. Ma
poi c'è un altro problema, più sottile e più grande, acutamente
evidenziato da Dickens e riguardante ancora tutti noi insegnanti,
forse soprattutto se «non malintenzionati…: il perdurare
(eterno?) di due nodi per così dire sovratemporali: l'impotenza
dei bambini e l'indifferenza nei loro confronti. Che
non è tratto peculiare degli insegnanti, ma tra essi talmente
diffusa da fare sospettare che sia quasi una voce del mansionario,
quasi un'entità da elevare a valore, e divenuta per molti una
bandiera di volta in volta sconciamente esibita oppure malamente
camuffata sotto la sbrindellata maschera della professionalità. L'indifferenza però, come si può ben vedere guardando appena intorno, non è peculiare degli
insegnanti, bensì di tutti i cinici, di tutti gli
acquiescenti, di tutti i pervasi da quella che Pier Paolo Pasolini
chiamava nelle Lettere luterane (Einaudi, Torino, 1976) «invincibile
ansia di conformismo». Qualcosa quindi caratteristica di bottegai
e tassisti, di giornalisti e vigili, liberi professionisti e servi
loro; e quindi anche di madri e di padri. Dice un bambino nelle Storie
del buon Dio di Rainer Maria Rilke: «E i nostri genitori,
come si comportano invece? Guardateli! Vanno intorno coi visi
arcigni e imbronciati. Nulla va loro bene. Urlano. Strapazzano. E,
nonostante ciò, eccoli lì, indifferenti a tutto". E però,
se l'indifferenza del lattaio al mondo e alle sue sorti, e alle
sorti di quei tanti mondi che sono ognuno
dei suoi disgraziati clienti, può essere definita come
fastidiosamente sgradevole, quella di genitori e insegnanti (di
coloro cioè che naturalmente e storicamente dovrebbero essere lì
a contribuire, prima di tutto, a formare e informare) è invece
nient'altro che repulsivamente intollerabile. Non
voglio dire che non ci siano ragioni che spieghino questo
atteggiamento, né che non ci siano situazioni ed eventi che
spingano e congiurino ad assumerlo: ce ne sono sicuramente di più
delle pur molte che ognuno ben conosce; eppure, a mio parere, non
ce n'è una sola che giustifichi e assolva. Perché se, in questo
strano e particolare lavoro che è insegnare-educare-trasmettere
cultura, un qualche senso esiste, anche uno solo, esso è forse
proprio quello di darsi in apertura, di darsi denudandosi, di
darsi incentivando desideri e stupori, «donchisciotteschi e duri»
(Pasolini), senza rassegnazione. Se così fosse, e credo che lo
sia, si tratterebbe allora di prenderle in mano, le ragioni che
spingono a indifferenza e sconforto; prenderle in mano e
pastrugnarle a lungo, e guardare ben fissi dentro il fondo degli
occhi i tanti orchi convenuti a formarle: delusioni storiche,
dolori personali, frustrazioni, misconoscimenti, burocrazia,
economia, ideologia (cioè falsa coscienza), e la stanchezza, e
Cronos, e quant'altro. No,
non voglio negarle, quelle ragioni; e però il non negarle a me
sembra che sia soltanto un pezzo, necessario sì ma non più che
un frammento. E allora a questo frammento mi sembra sensato e
necessario giustapporre qualcosa (per arrivare poi a contrapporla)
che talloni e tormenti quelle indubitabili e infauste ragioni: un
rivoltoso rivendicare buon senso e letizia, libertà e verità,
gratuito darsi e dirsi, e appassionato spendersi, giocarsi. A
questo punto magari qualcuno penserà che sto riproponendo la «missione»:
chi voglia faccia pure, non m'arriva l'accusa, soltanto
m'intristisce, nel caso, la poca fantasia. Perché non di «missione»
si tratta; si tratta piuttosto semplicemente di
assunzione di responsabilità: culturale, politica ed etica.
Assunzione di responsabilità che implica anche inevitabilmente
l'acquisizione della consapevolezza di quanto necessariamente
ampio, globale, debba essere il coinvolgimento. Peter
Bichsel, nell'introduzione all'edizione tedesca di Lettera a
una professoressa (reperibile in italiano nel suo
bellissimo libretto di saggi, Al mondo ci sono più zie che
lettori, pubblicato nel 1989 da Marcos y Marcos), commentando
la pretesa del celibato per gli insegnanti da parte di don Lorenzo
Milani e dei ragazzi della scuola di Barbiana, molto
opportunamente definisce assurda ed erronea tale pretesa; ma,
altrettanto opportunamente, afferma che «se anche questa
conclusione è sbagliata, l'argomentazione di base è giusta, e
cioè che fare scuola è un compito globale». E in una pagina di
diario, riportata da Nico Naldini in Pasolini, una vita (Einaudi,
Torino, 1989), e che si ritrova quasi letteralmente in un articolo
del 1948 riproposto recentemente nelle pagine di La terra vista
dalla luna, supplemento della rivista Linea d'ombra del
dicembre 1992, Pasolini scriveva: «La ricostituzione della mia
purezza avvenne improvvisa: a Versuta c'era una ventina di ragazzi
che non potevano, a causa dei pericoli, frequentare la scuola di
San Giovanni. Io e mia madre divenimmo i loro maestri; con che
tremore, con che reale interesse mi accinsi a
quell'impresa". A me sembra che in questa breve e
semplicissima frase sia contenuto un indizio significativo
dell'atteggiamento riscontrato in sé da Pasolini nell'accingersi
a quell'impresa: un atteggiamento a mio parere necessario per fare
in modo che il rapporto educativo si connoti come autentica
apertura. Il fatto che Pasolini parlasse del proprio «tremore» e
del proprio «reale interesse» indica quale fosse il
coinvolgimento, quale fosse il livello di assunzione in carico
dell'impresa, quale fosse il «sentimento» della peculiarità di
questo lavoro; e indica anche quanto di vocazione si trattasse.
Una vocazione senza scopi, senza missioni, ma piuttosto imperniata
su di sé, e il cui senso profondo risiede in quello che implica
per se stessi e non già per i destinatari di presunti «messaggi». Ho
fatto i nomi di Pasolini e don Milani non a caso, ma perché mi
sembra che siano tra i pochi pedagogisti italiani con cui sia
davvero necessario confrontarsi. E se un rammarico può esistere
per quel che li riguarda, esso proviene dal pensare che purtroppo
hanno potuto soltanto sfiorarsi senza poter dure sviluppo a un
confronto di cui esistevano i presupposti per così dire oggettivi
e che possiamo ora soltanto dedurre dalla lettura parallela delle
loro opere. Quello che voglio però evidenziare è che per
entrambi la dimensione pedagogica è una dimensione pervasiva, una
dimensione in cui quello che più di tutto viene evidenziato e
individuato come valore è il portato personale, la componente
emotiva e affettiva, l'effettivo mettersi in gioco; l'esserci
interi, come persone intere; fatte di corpo e di emozioni, fatte
di tensione ideale e di dolore, personale e storico, fatte insomma
del proprio multiforme e incomprimibile io. Pasolini, in quelle
stesse pagine di diario e sempre a proposito dell'esperienza di
insegnante, affermava di credere di non essersi «mai dato agli
altri con tanta dedizione» e di avere offerto «il meglio di
quelle energie che mi si erano serbate pure». Certo, quello che
si attiva non è secondario; non sono indifferenti i contenuti.
Eppure io credo che, sul piano della effettiva formazione, i
contenuti vengano in qualche modo dopo. È la presenza o meno di forza interiore a essere l'elemento decisivo; è il fatto di vedere davvero una passione che può innescarne altre, magari d’altro segno ma d'altrettanta forza.
In
un bel romanzo di Pawel Huelle, Cognome e nome Weiser Dawidek (Feltrinelli,
Milano, 1990), si parla della signora Regina, «l'unica
professoressa della scuola alla quale fossimo sinceramente
affezionati. La signora Regina ci insegnava il polacco, non parlava
mai dello sfruttamento, non ci sgridava e leggeva le poesie in modo
così fantastico che quando Ordon faceva saltare in aria la ridotta
con dentro se stesso e gli aggressori moscoviti, o quando il
generale Sowinski moriva difendendosi a spada tratta dai nemici
della patria, non c'era volta che non stessimo a sentirla con il
fiato sospeso. Sì, probabilmente la signora Regina badava poco ai
programmi didattici, e oggi gliene sono infinitamente grato». Credo
che acquisire conoscenze sia un risultato importante, l'esito di un
percorso che tutti si desidera percorrere, la soddisfazione di un
bisogno. Prima e ben più di questo, però, è determinante il
percorso, il modo in cui si arriva a sapere: e allora i
contenuti saranno di necessità secondari e prioritario sarà invece
il modo, e sarà esso stesso un contenuto, il contenuto. Decisivo
sarà allora che la signora Regina legga le poesie in modo
fantastico, non tanto che legga fantastiche poesie; cioè che
fornisca una esemplificazione di come ci si può riempire la vita
piuttosto che esempi di riempitivi della vita; cioè che non
fornisca delle soluzioni ma piuttosto lo stimolo a cercarne. La
funzione sana dell'educatore non potrà essere allora che quella
indicata da Pasolini in Scuola senza feticci (un altro
articolo di quasi cinquant'anni fa, anch'esso riproposto nel numero di
Linea d'ombra citato), in cui auspicava un lavoro di liberazione
e di depurazione in seguito a cui venga riprovocata nell'impube la
sua vera natura, ripercorrendo a rebours le cristallizzazioni
dell'autorità. E poiché è ovvio che quella sua natura prima,
individuale non è altro in fondo che potenzialità a peccare e
quindi a riscattarsi, ossia in senso negativo e positivo
peccaminosità, quello che l'educatore dovrebbe fare non sarebbe
altro che mantenere il ragazzo in tale suo clima per creargli la benefica
abitudine di una sia pur rozza introspezione. Chi agisce in senso
contrario (ciò che avviene nell'assoluta, quasi totale maggioranza
dei casi) si comporta come una specie di demiurgo dell'infelicità e
dell'angoscia, proprio mentre si considera un savio propinatore di
salute. Egli infatti mantenendo i suoi scolari in un'atmosfera di
categorie e di assiomi, di obbedienza e di fiducia, non fa che
illuderli di una sicurezza della vita (degli adulti) e sedimentare
nell'animo dei ragazzi una serie di equivoci, gettando le basi per
la delusione nel peggiore dei casi, per la superficialità nel
migliore. Quando invece è dimostrabile che il ragazzo fin dai primi
momenti debba acquistare coscienza non solo della propria
eccezionalità, ma anche di quella degli altri, venendo così a
porsi nei confronti dell'esistenza in uno stato d'animo critico e
polemico. Anzi la critica dovrebbe essere la prima cosa da coltivare
in un ragazzo, anche se questo dovesse costare la caduta di
un'infinità di idoli, e primo fra questi l'insegnante stesso.
Progetto, questo, che Pasolini riprenderà con ancora maggiore
lucidità soprattutto nell'ultima fase della sua vita, quando
pubblicherà (sul settimanale Il Mondo, e verranno poi
raccolte nel postumo Lettere luterane) alcune parti di un
dettagliatamente progettato ma purtroppo incompiuto «trattatello
pedagogico», Gennariello. In esso Pasolini, tra l'altro, si
presentava al proprio immaginario allievo formulando un intento di
questo tipo: «Sappi che negli insegnamenti che ti impartirò, non
c'è il minimo dubbio, io ti sospingerò a tutte le sconsacrazioni
possibili, alla mancanza di ogni rispetto per ogni sentimento
istituito. Tuttavia il fondo del mio insegnamento consisterà nel
convincerti a non temere la sacralità e i sentimenti». Un intento
analogo, per esempio, a quello di don Milani nella lettera al
giovane comunista Pipetta: «Ma il giorno che avremo sfondata
insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa
dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidar
di me, quel giorno io ti tradirò". Ecco,
a me sembra che l'unico modo per contrastare il manifestarsi
detestabilmente ragionevole della scuola, nonché di qualunque altra
entità formativa, possa consistere nell'assumere a proprio
fondamento questi principi, queste intenzioni: la caduta degli
idoli, il perseguimento di tutte le sconsacrazioni possibili, il
tradimento a ogni conseguimento di potere. Ci si dovrà allora anche
guardare dall'acquisizione di conoscenze, dal sapere, e prepararsi a
tradire. Perché sapere è utile e necessario, ed è il
soddisfacimento di un bisogno, la risposta buona a un desiderio; ma
si dovrà tradirlo ogni volta (il sapere, il suo farsi potere),
facendosi tallonare dalla necessità di completare quei princìpi
con queste parole di Peter Bichsel, contenute in un altro saggio del
suo già citato libretto: «La frase il sapere è potere mi
piace sempre meno via via che ci rifletto sopra. Risale all'epoca
pionieristica del movimento dei lavoratori, a un'epoca in cui
l'emancipazione in sé e per sé, la liberazione dalla miseria, era
tutto, in cui si trattava di rendere presentabile in società il
movimento dei lavoratori. Ha avuto la sua importanza e non lo
contesto. Ma questa frase mi piacerebbe di più se fosse: Il
sapere è resistenza, è resistenza contro il potere». Con
strumenti di questo genere si potrebbe forse fare davvero qualcosa contro,
per esempio, la spregevole ragionevolezza della scuola, lugubre
convoglio diretto a Tristapoli, capitale della cosiddetta realtà,
un posto misero e monotono come acqua stagnante in cui si adorano le
divinità dell'Accettazione e del Silenzio, e dove si raggiunge la
santità attraverso la Verifica e il Controllo (cioè attraverso la
dimostrazione di non essere minimamente divergenti rispetto al
binario che porta agli Obiettivi Generali). C'è
di che esserne nauseati. E contro (parola sacra, lasciatemela
riscrivere: Contro) a me sembra che si debba fare di tutto; e vorrei
dire che si dovrebbe iniziare con il sostituire la Programmazione
con una cosa come la disponibilità e l'apertura
all'improvvisazione sapiente, e il mito del curriculum con una
cosa come il raccontare storie, cioè cose che abbiano a che
vedere con la memoria viva, con il presente sempre reinventato, con
il futuro sperabile. Insomma con quello che può avvicinare i
confini di quei poli così costituzionalmente distanti che sono gli
impulsi educativi e gli impulsi libertari. Diceva
Lev Tolstoj, in un saggio contenuto in un prezioso e purtroppo
introvabile libro (Quale scuola?, pubblicato dalla Emme nel
1975 e da Mondadori nel 1978), che "l'educazione è l'azione
coercitiva, unilaterale, esercitata da un individuo su un altro
individuo», "la tendenza di una persona a plasmarne un'altra a
sua immagine»; e Giacomo Leopardi, in una pagina dello Zibaldone
del 1821, scriveva che "il gran torto degli educatori è di
volere che ai giovani piaccia quello che piace alla vecchiezza o
alla maturità; che la vita giovanile non differisca dalla matura;
di voler sopprimere la differenza di gusti, di desiderii (...); di
volere che gli ammaestramenti, i comandi, e la forza della necessità
suppliscano all'esperienza». E
Franz Kafka, in un brano poi espunto dal racconto Indagini di un
cane, dice che "ogni educazione mira probabilmente a due
cose soltanto: in primo luogo a respingere l'irruente assalto dei
bambini ignoranti alla città e poi a introdurre i bambini umiliati
nella menzogna». Sono,
queste, grandi opprimenti verità, illuminazioni brucianti del vero.
Proprio per questo è più che mai necessario evitare di ricorrere a
rintanamenti e falsa coscienza: il «bambino della ragione» non è
meno inconsistente di quell'altro fantasma che era il «bambino
tutto intuizione e sentimento»; la scolarizzazione di massa è un
grande risultato ma non spazza ogni analfabetismo e pone
comunque problemi nuovi, al di là delle patacche; le tante
informazioni sono ben più che preziose, ma c'è bisogno d'altro e
d'altro ancora; e le fughe tecnicistiche e pseudoscientifiche sono
appunto fughe, e non servono a nulla, servono solo a sfuggire il
confronto vero con l'altro e con il vasto mondo, a umiliare e
spingere nella menzogna, a fare della cosiddetta realtà un'entità
immutabile, data una volta per sempre. "Non
capisco che senso abbia sapere così tante cose ed essere bravi e
brillanti come pochi se poi non si è felici», dice Jerome Salinger
in Seymour. Sì, davvero non si capisce. A meno che non si
sia disponibili a credere alla spiegazione che ne dà un
contastorie, e per colmo d'ignominia in un libro per bambini: Salman
Rushdie, che nello splendido Harun e il Mar delle Storie (Mondadori,
Milano, 1991) racconta così: « Ma per quale ragione odia tanto le
storie? Sbottò Harun, assolutamente sbalordito. Sono divertenti le
storie... Il mondo, però non è fatto per il Divertimento, replicò
Khattam-Shud. E fatto per il Controllo. Quale mondo?, si costrinse a
domandare Harun. Il tuo mondo, il mio mondo, tutti i mondi, fu la
risposta. Tutti esistono per essere Dominati». Certo,
sono parole di contastorie, e blasfemo per giunta, e le parole dei
contastorie, è ben noto, sono di pertinenza dei cieli della
finzione, dell'immaginazione, dell'utopia. Lo sanno anche i bambini.
Sì, i bambini lo sanno, ed è proprio per questo che da quelle
parole si lasciano incantare, coscienti come sono che immaginazione
e utopia sono il motore del mondo. Anche questo i bambini lo sanno.
Lo sanno fino a quando, umiliati, abbandonano il flauto di Peter Pan
e l'orizzonte sereno per entrare trionfalmente nella menzogna. |