Da Leggere gli anni verdi: racconti di lettura sull'infanzia e l'adolescenza ed. e/o Roma 1992 |
Dentro un bosco di storie
****************
-
Siete buono - disse la signora Arnoux. -
Perché? -
Perché amate i bambini. -
Non tutti! (Gustave
Flaubert, L'educazione sentimentale) bambini
che osservano con stupore le stelle, è
lo scopo e la conclusione. Non
essendo che uomini, camminavamo tra gli alberi. (Dylan
Thomas, Poesie inedite) l'infanzia
che m'ha dato questo
caro sgomento mio d'esistere. (Giovanni
Giudici, Prove del teatro) ****************
So
bene di meritare il biasimo incondizionato di Monsignor Giovanni
Della Casa, ma non ha senso fingere: a tante prescrizioni del suo
Galateo proprio non mi riesce d'attenermi; anzi, d'alcune di queste
indicazioni disattese ho fatto più o meno una bandiera, un agire di
cui quasi menare vanto. E così, per esempio, sono uno che,
"massimamente in favellando", anziché starsene lì tutto
compìto, "straluna gli occhi e l'un ciglio lieva a mezzo la
fronte e l'altro china fino al mento", e sono proprio tra
quelli che "muovono sì fattamente le mani come se essi ti
volessero cacciare le mosche"1.
Dolersene? E perché? Il fatto è che le chine sono fatte così: un primo scivolone è soltanto l'avvio d'una liscia caduta senza fine. E allora dirò pure che ho un'altra biasimevole abitudine: quando, camminando, mi accada d'incontrare qualcuno o qualche cosa che mi piaccia o m'interessi molto, osservo intensamente e persino mi volto. Certo, di questo agire ci sono spiegazioni, attenuanti, ma questo chi mi vede non lo sa, e chissà cosa pensa, anche perché il sentire dominante mi sembra caratterizzato più che altro da diffidenza e sospetto. Per
esempio, chi mi vede voltarmi a guardare i bambini nel migliore dei
casi mi riterrà un maleducato ficcanaso, ma ancor più facilmente
penserà che io sia un pedofilo in agguato; non penserà certo che
sono un operatore pedagogico a tempo pieno in servizio permanente
effettivo. Sì, io mi volto a guardare i bambini. Nonostante abbia a
che fare ogni giorno con loro, per capirli davvero mi sembra
necessario anche guardarli e ascoltarli per le strade, sugli
autobus, negli angusti e polverosi spazi attrezzati a
"verde"; mi sembra necessario ascoltarne le tante domande
rivolte alle madri e vederne lo scalpitare alla risposta, ansiosi di
passare ad un'altra domanda; e ascoltarne il linguaggio; e
osservarne i gesti e i bagliori degli occhi. Perché anch'io, come
il professor Carlo Stresa2, penso che non ci sia molto
"di più bello degli occhi dei bambini quando ridono"3;
e questo anche per il fatto che si tratta ogni volta della replica
di un antico evento prodigioso: infatti,"quando il primo
bambino rise per la prima volta, il suo riso si spezzò in mille
frantumi che si sparsero intorno saltellando, e questa fu l'origine
delle fate".4 Ma
non è tutto qui. A Carlo Stresa io mi sento ancora più vicino
quando lo vedo guardare la piazza, la torre, il cavallo che,
"solo e quieto nel primo pomeriggio, faceva anche un poco pietà".
E guardare le tortore e sentire il tranquillo desiderio di
carezzarne una; sentire anche un peso, nato forse dal compiere
proprio quel giorno ventinove anni e rendersi conto che "da
ventiquattro a venticinque c'è solo un anno di differenza, come fra
venticinque e ventisei; ma fra ventinove e trenta c'è un lustro, un
secolo, la vita”. E non solo: "Fra poco, alle due, sarebbe
andato al Ginnasio, in Via Maccari, a conoscere tutti i suoi
colleghi: ed anche questo gli pesava; gli pesava e non ne sapeva
bene la ragione nemmeno lui. O forse, ancora un po' vaga, una
ragione poteva esserci in fondo: il timore di scorgere in loro se
stesso fra vent'anni. Carlo Stresa che a cinquant'anni fa
un'antologia col “Cinque Maggio” “Odio l'allor” “In Morte
di Napoleone Eugenio”, e comincia la prefazione così:
"Nell'affidare alle stampe questo volume mi sento in
dovere..": o che parla per mezz'ora sull'etimologia della
parola "lapsus". C’è miseria più grande Signore? (...)
Ecco, deciso: il giorno che non si fosse più voltato a guardare un
bambino per la strada sarebbe uscita la sua prima antologia"5. Ed
ora eccomi qui, alle prese con una specie di antologia. Ma io non ho
l'età temuta da Stresa, e non ho smesso di voltarmi a guardare i
bambini, e questa “antologia” non è mia; e, soprattutto, questa
“antologia" non contiene nulla di miserabile. E dirò anche
che il fatto di essere, alle prese con questa “antologia" ha
pure incrementato il mio voltarmi; e non solo sugli autobus o lungo
le strade, ma anche nei libri, dentro racconti e romanzi. Per
deformazione professionale, probabilmente, ma anche perché in
questo modo succede di riuscire a vedere pezzi importanti del vasto
mondo; importanti e "istruttivi", e spesso anche solo
bellissimi per tragici oppure gioiosi che siano. Voltarsi
a guardare - nei libri, intendo - è vantaggioso per almeno due
ragioni. La prima è che Lloyd de Mause ha torto quando sostiene che
non ci si può affidare a Mark Twain per conoscere l'infanzia e la
società6
- e basterebbe aprire anche a caso Tom Sawyer o Huck Finn per
verificare l'infondatezza di quella affermazione. La seconda ragione
è che proprio con questi due libri - soprattutto il secondo, e per
limitarsi a Mark Twain, ma il discorso vale per numerosissimi altri
libri - si può fare l'esperienza di leggere una storia ricavandone
se non altro - e soprattutto - un grande, grandissimo piacere: il
che non è certo secondario, né sul piano
"utilitaristico" né su un piano culturalmente più
sofisticato: diceva infatti Auden che “il piacere è ben lungi
dall'essere un criterio critico infallibile: è però il meno
ingannevole”7.
' A
giustificare il fatto di voltarsi e soffermarsi sarebbe sufficiente
questa seconda ragione" ma anche la "prima esiste, ed è
quasi un po' come se si imponesse. Un solo esempio: la poesia di
Montale Un mese tra i bambini non dice forse (se non
addirittura di più) almeno quanto diversi studi psicopedagogici?
“I bambini sono teneri / e feroci. Non sanno / la differenza che
c'è / tra un corpo e la sua cenere. / I bambini non amano / la
natura ma la prendono" 8.
Chi
volesse voltarsi e soffermarsi anche soltanto sulle narrazioni (come
imponeva la regola che agli "antologizzatori" qui
convocati è stato chiesto di rispettare) che rappresentano in
qualche modo gli "anni verdi" - ampiamente o soltanto di
sfuggita - avrebbe probabilmente bisogno di vite supplementari.
Allora io, trovandomi qualche alibi più meno adeguato per
giustificare la scelta, qui dirò qualcosa soltanto su alcune
rappresentazioni d’infanzia, sui bambini, sui
"fanciulli", per usare quella che Luigi Meneghello dice
essere una "parola, a Malo, di irresistibile effetto
comico" 9. Un
primo alibi potrebbe essere quello fornito dal professor Stresa, e
mi sembra abbastanza consistente; il secondo è invece più fragile.
L'ho trovato in Melville, là dove si dice che "la mia
esperienza, passata per un seguito - peggio che uno stillicidio - di
trentacinque garzoni, mi dimostra che l'adolescenza non è che uno
stadio naturale della furfanteria"10.
Bello, come alibi, ma proprio debole perché due pagine dopo non si
parla più soltanto dell'adolescenza e il dialogo procede così:
"Crescendo superano le loro storture? Da ragazzi cattivi
spuntano uomini buoni? Signore, il bambino è il padre
dell'uomo:,quindi, dato che tutti i ragazzi sono furfanti, tali son
gli uomini"11
E ancora: ""Adesso, signore, prenda un ragazzino, un
giovane infante maschile, meglio un fanciullo, maschio insomma - che
cosa osserva, riverito signore, in primo luogo?". "Un
farabutto, signore! presente e potenziale, un farabutto!"12.
Il funzionario dell'Ufficio di Collocamento Filosofico, l'
<<uomo di fiducia>>, astuto e brillante gabbatore, a
proposito di ragazzi - adolescenti o fanciulli che siano - si trova
in difficoltà più che in altre imprese, e nel tentativo di
convincere la vittima di turno ricorre in ogni caso ad una
valutazione non certo positiva dell’età giovanile; suggerendo di
non punire preventivamente l'adulto per il suo inevitabile trascorso
stato di ragazzo al suo oppositore, che comunque replica così:
"La farfalla è il bruco con un vestito sfarzoso, spogliata di
quello, rimane il lungo fuso d’impostore del suo corpo, un verme
come agli inizi"13. Forse
cercare in Melville l'alibi per parlare di bambini è un po' troppo
funambolico - anche perché, per esempio, in Israel Potter, usa
poche inequivocabili parole: "L'immaginazione dipingerebbe
facilmente l'infanzia di Israel nei campi. Ma tralasciamo questo
meno che immaturo periodo"14
-, però mi consente, appena di passaggio, di mettere qui un titolo
che con gli "anni verdi" ha molto a che fare: Moby Dick.
Perché Moby Dick, Don Chisciotte, I viaggi di
Gulliver, Robinson Crusoe, sono sicuramente tra i libri
più complessi di ogni tempo, ma si tratta di narrazioni così
prodigiose da essere riuscite a diventare anche letture giovanili e,
con inevitabili riduzioni, anche letture per i bambini. Di
Melville voglio però riportare qui un frammento da un racconto:
"Colpiva la sua attenzione una negra addormentata, che
attraverso l'intrico di certe manovre s'intravedeva, distesa, le
giovani membra negligentemente abbandonate, sottovento alla murata
come una daina all'ombra di una rupe selvosa. Si divincolava sul
capezzolo del suo seno il suo cerbiatto vispo e nudo, col corpicino
lucido semi sollevato sul ponte, di traverso al corpo della madre: e
le due mani come zampette le davano la scalata, la bocca e il naso
frugavano inutilmente per giungere al segno, emettendo intanto un
fastidioso grugnito che si confondeva al pacato russare della negra.
La non comune vigoria del bimbo finì per svegliare la donna, che
balzò in piedi, facendo fronte a distanza al capitano. Ma, come se
nulla le importasse dell'atteggiamento nel quale era stata colta,
essa afferrò gioiosamente il bimbo in un trasporto d'amore materno,
e lo coprì di baci. Ecco qui la natura schietta: nient'altro che
amore e tenerezza pensò il capitano, compiaciuto"15.
In un momento in cui il capitano Amasa Delano è combattuto tra
sospetti e rassicurazioni, assistere alla scena del piccolo bambino
e della serenità gioiosa della madre, gli acquieta le tensioni e lo
predispone a una rinnovata fiducia. Un
effetto analogo, ma, per così dire, oggettivo – sul lettore e non
sul personaggio – si produce in una pagina di Faulkner, dove c’è
un bambino “che aveva le palpebre socchiuse, e le palle degli
occhi gli rotolavano all’indietro, nell’orbita, così che
soltanto il bianco era visibile, color latte scremato”16.
Ed è un po’ come se quelle piccole fessure bianche
rischiarassero, seppure per poco, tutto il cupo e il violento degli
eventi circostanti. Tanto
in Melville quanto in Faulkner – che in tutte le sue storie ha
raccontato di numerosi bambini -, le rappresentazioni
dell’infanzia sono articolate; alle loro spalle c’è
evidentemente una concezione dell’infanzia piuttosto dinamica, e
non un’assolutizzazione spigolosa di questa età dell’uomo
elevata a simbolo del luminoso o del torbido. Un’impostazione
per certi versi analoga si trova anche in Hawthorne. Nel racconto La
bambina di neve: miracolo infantile17
si narra di due bambini, Violetta e Papavero, che, giocando sulla
neve, decidono di costruire un pupazzo: “Facciamo un fantoccio con
la neve: che rappresenti una bambina, e sarà la nostra sorella e
correrà per il giardino e giocherà tutto l’inverno con noi
(…). E immediatamente i bambini si accinsero alla grande impresa
di fare un fantoccio di neve che corresse per il giardino”18.
La neve; le mani dei bambini; l’entusiasmo; i fiati; i riflessi di
una nuvola rosa che illumina le guance, quello delle nuvole dorate
che si posa sui capelli e non se ne va più; folate del vento di
ponente che danno vita a vortici di bianco; i baci dei bambini che
colorano le labbra: la bambina di neve nasce, si anima, e la madre
di Violetta e Papavero, chiamata dalle voci gioiose dei figli che
cosa credete che vedesse? Violetta e Papavero, naturalmente, i suoi
due piccini diletti. Ah, ma chi o che cosa vide oltre a loro?
Ebbene, se mi credete, vi era la figuretta esile di una bambina,
tutta vestita di bianco, con le guance rosee e i riccioli color
d’oro che giocava per il giardino coi due bimbi”19.
La madre, stupita e confusa, chiede ai figli chi sia quella bambina
e, alle loro risposte, non riesce a opporre che un incremento di
stupore e incredulità, confusione e disagio. “Mentre la mamma era
ancora esitante su quel che dovesse pensare e dovesse fare, il
cancello d’ingresso del giardino si spalancò e il padre di
Violetta e Papavero entrò (…). Scorse subito la piccola estranea
candida che correva qua e là per il giardino come una danzante
ghirlanda di neve (…) – Chi è mai quella bambina? –
s’informò quell’uomo di buon senso”20.
E alle risposte eccitate dei figli e poco connesse della moglie,
reagisce definendo il tutto – seppur benevolmente – come
sciocchezze e preoccupandosi di portare dentro, al riparo dal
freddo, la bambina. “Mentre il buon signor Lindsey la conduceva su
per i gradini della soglia, Violetta e Papavero, con gli occhi pieni
di lacrime che si congelavano prima di scender giù per le guance,
lo guardarono in viso e di nuovo supplicarono il padre di non
portare in casa la loro bambina di neve”21.
Ma, come tutti ben sanno, i bambini non hanno potere, e così la
bambina di neve “avvilita, avvilita, sempre più avvilita”, fu
portata dentro e “l’uomo di buon senso mise la bambina di neve
sul tappeto proprio dinanzi alla stufa che sibilava e fumava”22.
A questo punto il padre si allontanò per andare a rintracciare i
genitori della bambina e la madre per procurare calze scialle
coperte e latte caldo, ma furono subito richiamati dalle grida di
Violetta e Papavero ‘- Te l’avevamo detto, papà! (…) Hai
voluto portarla dentro; e adesso la nostra povera cara, bella
sorellina di neve si è liquefatta!”23
Alla fine del racconto Hawthorne dice che da questo si può ricavare
che “è dovere degli uomini, e specialmente degli uomini benevoli,
considerare bene le cose cui si accingono e, prima di agire per i
loro filantropici fini, essere ben sicuri di comprendere la natura e
tutte le relazioni di quel che hanno per le mani”24. E
aggiunge, a conclusione: "Ma, infine, non vi è nulla da
insegnare ad uomini saggi dello stampo del buon signor Lindsey.
Sanno tutto, oh certo! tutto ciò che è stato e tutto ciò che, per
ogni possibilità futura, debba essere. E, se qualche fenomeno della
natura o della Provvidenza dovesse trascendere il loro modo di
pensare, essi non lo ammetterebbero; neanche se accadesse proprio
sotto il loro naso. - Moglie – disse il signor Lindsey, dopo un
accesso di umore taciturno- guarda quanta neve hanno portato in casa
i bambini attaccata alle scarpe! Ha formato una vera pozzanghera,
qui davanti alla stufa. Ti prego, di’ a Dora di portare degli
stracci e di asciugarla!"25. Sulla
base di questo racconto si potrebbe pensare,
anche attraverso l'insistita definizione del signor Lindsey
come uomo "benevolo" “di buon senso",
benintenzionato - un gretto, o un tiranno, non l'avrebbe nemmeno
vista, e tanto meno ospitata, la bambina di neve - che Hawthorne
attribuisca all'infanzia una sorta di potere magico, derivante
dall'entusiasmo, dalla fantasia, dalla capacità di appassionarsi,
di cui l'età adulta sarebbe inequivocabilmente
e tristemente priva. Ma Hawthorne, altrove, parla anche della
"perversità che è propria dei bambini in misura più o meno
accentuata, e che in Perla era perlomeno decuplicata"26.
Non solo: nel racconto Il dolce fanciullo27,
che, come scrive Goffredo Fofi, ha al suo centro "la figura
sacrificale di un fanciullo, la cui morte lava il peccato della
comunità"28,
i bambini sono presentati anche in una luce che non ha nulla di
magico, di fantastico o portatore di vita. Sullo
sfondo della feroce guerra fra i puritani e i quaccheri, un colono
puritano, mentre ritorna a casa, vede un bambino che piange sotto il
patibolo sul quale, proprio perché appartenente alla setta dei
quaccheri, è stato ucciso suo padre. L'uomo, pur avversando la
setta, rimane molto colpito da quel dolore e ospita il bambino nella
propria casa, offrendogli attenzioni e affetto. Questo fatto provoca
l'indignazione dei puritani, che guardano il bambino con disgusto,
come fosse un essere immondo e demoniaco da cui guardarsi per
evitare di essere in qualche modo contaminati. Da questo
atteggiamento nessuno è esente: dal pastore, ai vecchi, dalle
"beghine rugose" alle "giovinette di mite
aspetto". E "il disprezzo e l'astio di cui era oggetto
pesavano molto su Ilbrahim, soprattutto quando egli capiva da
qualche episodio che i bambini suoi coetanei condividevano l'ostilità
dei genitori"29. Un
giorno succede che un ragazzo, un puritano, si ferisce cadendo da un
albero nelle vicinanze della casa di Ilbrahim e lì viene soccorso e
ospitato. Ilbrahim gli sta vicino, lo aiuta, gli si affeziona. Poi,
essendo l'amico ormai in via di guarigione seppure ancora nella
necessità di appoggiarsi a un bastone, una volta che Ilbrahim lo
vede insieme ad altri ragazzi che giocano si avvicina con serenità
e sicurezza, "come se, avendo manifestato il suo affetto a uno
di loro, non avesse più da temere d'essere respinto"30.
Ma a quel punto "il silenzio calò sulle voci gioiose dei
bambini; nel momento stesso, in cui lo riconobbero, e cominciarono
allora a confabulare tra loro, mentre Ilbrahim si avvicinava, poi il
demone dei loro genitori entrò nel cuore degli scatenati, e
lanciando grida acute e feroci si avventarono contro il povero
bambino quacchero. In un attimo Ilbrahim si trovò nel mezzo di una
turba di piccoli spietati nemici che alzavano bastoni contro di lui
e lo colpivano con pietre, mostrando un istinto di distruzione molto
più ripugnante della sete di sangue degli adulti. Il piccolo
infermo, che nel frattempo si era tenuto in disparte dalla ressa,
gridava intanto ad alta voce: "Non aver paura, Ilbrahim vieni
qui e prendimi per mano". Dopo aver osservato con calmo sorriso
e senza batter ciglio l'infelice amico che si sforzava
faticosamente. di raggiungerlo, il piccolo farabutto sollevò poi il
suo bastone e colpì Ilbrahim sulla bocca così forte che il sangue
gli sgorgò a fiotti. Il poverino, che teneva le mani sulla testa
per ripararsi dai colpi, le lasciò allora ricadere subito. Poi i
piccoli aguzzini si accanirono sul poveretto caduto a terra,
calpestandolo e trascinandolo per i lunghi capelli biondi" 31.
E'
evidente che una rappresentazione di questo genere non è dettata da
un convincimento di " angelicità" dell'infanzia o di
"superiorità morale" di questa sulle altre età
dell'uomo. Nasce invece - più semplicemente e più profondamente
dall'osservare anche questa età unicamente per quello che è, e
quindi nel suo variegato manifestarsi. C'è anche, però, un
particolare importante: sia nel caso dei fratelli che danno vita
alla bambina di neve sia nel caso dei bambini aguzzini, siamo in
presenza di "sentimenti forti", di pulsioni e azioni prive
di mediazione, sostanzialmente assolute; e non è un caso, che si
tratti di situazioni che hanno a che fare con due cose enormi come
la vita e la morte, con il nascere e l'istinto di distruzione. I
bambini amano poco – e ancor meno le praticano - le sfumature.
Queste infatti, essendo null'altro che il risultato di una
mediazione, nel momento in cui prendono forma si delineano
inevitabilmente come qualcosa che non è più riconoscibile nemmeno
come frammento del desiderio - o della paura - iniziale. E' un'altra
cosa. E può anche essere apprezzata, ma appunto come altra cosa, e
soprattutto in un momento diverso, non certo nel tempo in cui il
desiderio - e nei bambini il desiderio si connota con la forza e con
l'urgenza del bisogno -, quel desiderio iniziale, li abita. Quel che
desiderano è "quella cosa lì ", non ciò che la è stata
o la diventerà. Racconta Luigi Meneghello: “La mia bambinaia era
la Ernestina, ed è tra le prime cose al mondo che ricordo. Era una
cosa molto bella. La Ernestina e io in granaio facevamo la rivista
dei giocattoli rotti; c'era un bel tramonto, e mi sentivo felice.
"Mi sono molto goduto oggi ", dissi alla Ernestina. Lei si
felicitò con me per la bella giornata. "Questo giorno qui lo
voglio di nuovo domani", dissi. La Ernestina disse sorridendo
che anche domani sarebbe stato un bel giorno. M'insospettii e dissi
freddamente: "Io voglio che torni questo giorno qui".
"Questo giorno qui ormai è passato", disse la Ernestina,
"domani ne viene un altro". Mi rivoltai come un
forsennato, intravedevo che c'era di mezzo una specie di regola
intollerabile, la Ernestina non ne aveva colpa ma la graffiavo
urlando: "Voglio che torni questo giorno qui! Questo giorno
qui! Voglio che torni!". Niente da fare”32.
Scriveva
Walter Binni che Leopardi "sembra aver capito tutto" con
anticipi problematici e orientativi rispetto alla stessa
"scienza"33.
Sì, "sembra" proprio, anche a proposito di quello di cui
si parla qui. "Niun pensiero del bambino appena nato ha
relazione al futuro, se non considerando come futuro l'istante che
dee succedere al presente momento, perocché il presente non è in
verità che istantaneo, e fuori di un solo istante, il tempo è
sempre e tutto o passato o futuro. Ma considerando il presente e il
futuro non esattamente e matematicamente, ma in modo largo, secondo
che noi siamo soliti di concepirlo e chiamarlo, si dee dire che il
bambino non pensa che al presente. Poco più là mira il fanciullo;
ond'è che proporre al fanciullo (per esempio negli studi) uno scopo
lontano (come la gloria e i vantaggi ch'egli acquisterà nella
maturità della vita o nella vecchiezza, o anche pur nella
giovanezza), è assolutamente inutile (...).L'uomo maturo comincia
già a compiacersi supremamente e contentarsi della speranza, e
pascerne la sua vita. Della quale speranza si nutre parimente, e con
essa favella e delira anche il giovane, e il fanciullo altresì; ma
non in modo che d'essa si contentino; e che non cerchino di
prontamente effettuarla e recarla in opera; e venire al fatto. Il
che nasce dall'ardore di quell'età, dall'attività dell'animo unita
e cospirante con quella del corpo, dalla freschezza e forza del loro
amor proprio, e quindi dall’energia ed efficacia de' loro desideri
impazienti d'indugio, e però non sofferenti di proporsi un oggetto
ch'ei non possano o ch'ei credano di potere in poco spazio e dentro
picciolo termine conseguire"34.
E i tentativi adulti di incanalare in direzione della
"ragionevolezza" - al di là di ogni esito concreto
apparentemente accomodante - portano ad una accentuazione delle
distanze, ad una divaricazione, ad una ricezione del
"ragionevole" come insensato. Che senso ha, qualcosa che
magari ha qualche somiglianza con il desiderato, se non è il
desiderato stesso? Che senso ha fermarsi lì? Che senso ha
l'accontentarsi, il non andare oltre, il rinunciare all'assoluto -
magari risultati di benevole, diligenti, benintenzionate operazioni
- per chi, essendo proiettato in direzione dell'assoluto, non si può
accontentare dell'accontentarsi, essendo questo null'altro che
rinuncia, ripiegamento? E proprio il carattere di operazione degli
interventi adulti li rende tanto più incomprensibili e insensati. I
bambini sono lontani, ed è un po' come se dicessero: tu, adulto,
che hai il potere di fare quel che fai, proprio perché hai questo
potere hai il potere; perché usi il tuo potere soltanto per negare,
per ridimensionare, per cambiare sempre al ribasso, per non
contentare davvero, per accontentare e basta e non invece per
felicitare? A che serve, alla fine dei conti, il tuo potere? Che
potere è? E' un potere sterile, triste, privo di magia. In
un racconto di Joao Guimaraes Rosa che dà il titolo all'intera
raccolta in cui è contenuto35,
si narra di un bambino che arriva "nel luogo in cui si
costruiva la grande città"36.
E lì, vicino alla casa, alla foresta, "vedeva, intravedeva.
Respirava forte (…). Signore! Quando avvistò il tacchino, al
centro dello spiazzo, tra la casa e gli alberi della foresta. Il
tacchino, imperiale, gli dava le spalle, per ricevere la sua
ammirazione. Aveva esploso la coda, e si gonfiò, facendo la ruota:
il raspare delle ali per terra - brusco, rude,- si era proclamato.
Gloglottò, scuotendo il bargiglio denso di chicchi rossi, e la
testa aveva screziature d'un azzurro chiaro, raro, di cielo e sanhaços:
e lui, completo, tornito, rotondoso, tutto in sfere e piani, con
riflessi di verdi metalli in azzurro e nero - il tacchino per
sempre. Bello, bello! Aveva un che di calore, potere e fiore, un
traboccamento. La sua ispida grandezza tonitruante. La sua colorita
arroganza. Soddisfaceva gli occhi, era da suonare la tromba.
Collerico, tronfio, movendosi sgorgogliò altro gluglu. Il Bambino
rise, con tutto il cuore" 37.
E nell'ultimo racconto della raccolta, Le cime, quello stesso
bambino vede un tucano: "Su uno degli alberi si era posato un
tucano, in blando battito orizzontale. Così vicino! L'alto azzurro,
le fronde, il luminoso giallo attorno e i molti tenui rossi
dell'uccello - dopo il suo volo. Era da vedere: grande, agghindato,
il becco simile a un fiore parassita. Saltava di ramo in ramo,
mangiava dall'albero carico. Tutta la luce apparteneva a lui, che la
spruzzava dei suoi colori, lanciandosi ogni tanto nell'aria,
bizzarro-languido, splendentemente sospeso. Sulla vetta dell'albero,
sui piccoli frutti, tuc, tuc,... e poi si puliva il becco sul ramo.
E, a occhi spalancati, il Bambino, senza poter neppure trattenere
per sé il breve istante magico, appena nei silenzi di un-due-tre.
Nel tacete di tutti. Perfino lo Zio. Lo Zio, anche lui, se la stava
godendo: si puliva gli occhiali. Il tucano si arrestava, udendo
altri uccelli - chissà, i suoi piccoli - dalla parte della foresta.
Il grande becco in alto, lanciava a sua volta, a una o due riprese,
quel grido un po' rugginoso dei tucani: “Creee!”... Il Bambino
stava lì lì per piangere. Frattanto, cantavano i galli. Il Bambino
ricordava senza alcun ricordo. Si bagnò tutte le ciglia. E il
tucano, il volo, dritto, lento - come volò via, sciò, sciò! ...:
mirabile, colori librantisi, nella sfarzosità; si fece.sogno (...).
Tanto tempo, e il bambino non apriva bocca. Afferrava con lo sguardo
ogni sillaba dell'orizzonte"38. Ma
poi, del tacchino, il bambino ritrova "solo qualche penna, dei
resti, per terra – “Eh, lo abbiamo ammazzato. Domani non è il
compleanno del dottore?” " 39.
Benintenzionati, anche qui. Per festeggiare. Così come per
alleviare al bambino un'ansia, "per consolarlo, concertavamo il
modo di prendere il tucano: con lacci, sassata sul becco, colpo di
fucile nell'ala" 40. Soppressione e possesso,
sempre. Negazione, fine. Con buone intenzioni, a fin di bene, ma
negazione e fine, senza incantamento, senza alcuna magia. Alla
scoperta dell'uccisione del tacchino "tutto perdeva l'eternità
e la certezza; in un soffio, in un attimo, ti derubavano delle cose
più belle. Come potevano?" 41.
E di fronte alla prospettiva della cattura del tucano “No e no! -
si arrabbiò, afflitto. Ciò che immaginava, ciò che voleva, non
poteva essere quel tucano catturato. Ma la prima fine luce del
mattino, con dentro, il volo esatto" 42. La
determinazione dei bambini; l'ardore, l' “energia ed efficacia de'
loro desideri”; la loro forza; il loro puntare ad andare a segno
in modo radicale, pressoché assoluto, come le cose - "le cose
sono assolute e rigorose come i bambini e ciò che esse decidono è
definitivo e irreversibile"43
-; il loro “potere magico”; tutto questo, nei bambini, si
evidenzia in modo preciso. E, per non fare che un esempio, si può
pensare al gioco. L'altro
giorno un bambino, accucciato a terra, stava scavando un buco con
uno stecco. Una bambina gli si è avvicinata e, roteando in aria un
golf che impugnava tenendolo per gli sbocchi delle maniche, gli ha
detto: "Vuoi essere il mio cavallo?". Lui l'ha guardata un
momento, si è alzato, s'è pulito le mani sui calzoni, si è
voltato e ha mosso la testa per assecondare l'imbrigliatura. Ha
stretto il golf tra i denti, le maniche si sono tese e sono partiti
al galoppo.
Nel
romanzo di lan McEwan, Bambini nel tempo, si racconta di
quella volta che Stephen e Julie avevano portato la figlia Kate al
mare e si erano messi a costruire un castello di sabbia. "Il
trio lavorava in chiassosa armonia, dividendo l'uso di un secchiello
e due palette, scambiandosi ordini perentori, dichiarando il proprio
favore o la disapprovazione per l'altrui scelta delle conchiglie o
la forma delle finestre, e correndo - mai camminando - avanti e
indietro per la spiaggia in cerca di materiale nuovo. Quando tutto
fu a posto ed ebbero fatto svariati giri di ricognizione intorno al
capolavoro, si strinsero dentro le mura e sedettero in attesa della
marea. Kate era convinta che il loro castello fosse stato costruito
tanto bene da poter resistere al mare; Stephen e Julie
l'assecondarono, facendosi beffe dell'acqua quando prese a lambire
appena i contorni e scacciandola a fischi quando iniziò a
risucchiare i primi pezzi del muro. Mentre aspettavano la rovina
finale Kate, che si èra infilata tra loro due, li supplicò di
rimanere dentro al castello. Voleva che ne facessero la loro casa.
Basta con Londra, sarebbero rimasti per sempre a vivere sulla
spiaggia e a giocare questo gioco. Ed era stato più o meno a quel
punto che gli adulti avevano rotto l'incantesimo e si erano messi a
guardare l'orologio e a parlare di cena e di molti altri impegni.
Fecero notare a Kate che tutti e tre dovevano passare da casa a
prendere il pigiama e lo spazzolino da denti. Questa le parve
un'idea carina e sensata e si lasciò persuadere a riprendere il
sentiero e tornare all'automobile. Per giorni poi, finché la
faccenda non fu del tutto dimenticata, continuò a chiedere quando
sarebbero andati a vivere nel loro castello di sabbia. Lei aveva
detto sul serio. Stephen pensò che se fosse riuscito a far tutto
con l'intensità e l'abbandono con cui quella volta aveva aiutato
Kate a costruire il castello, sarebbe stato un uomo felice e
straordinariamente potente".44 Intensità
e abbandono, però - essendo caratteristiche del darsi piuttosto che
del ricevere, dello spendersi piuttosto che dell'incassare, del
gratuito piuttosto che del remunerativo, della dissipazione
piuttosto che dell'accumulare -, hanno ben poco a che fare con la
"ragionevolezza", e stridono forte con il calcolo
preordinato tipico di chi, in assenza di "potere magico",
punta a sopperire a questo vuoto volgendosi al potere tout court.
Quello quantificabile. Quello che non si cura del senso
dell'esistenza, bensì di null'altro oltre le cifre che la
circoscrivono. Quello, insomma, dei “grandi”; i quali,
come ribadisce insistentemente Saint Exupéry in Il piccolo
principe, "amano le cifre". Infatti, "quando voi
gli parlate di un nuovo amico mai si interessano alle cose
essenziali. Non si domandano mai: "Qual è il tono della sua
voce? Quali sono i suoi giochi preferiti? Fa collezione di
farfalle?". Ma vi domandano: "Che età ha? Quanti
fratelli? Quanto pesa? Quanto guadagna suo padre?". Allora
soltanto credono di conoscerlo. Se voi dite ai grandi: "Ho
visto una bella casa in mattoni rosa, con dei gerani alle finestre,
e dei colombi sul tetto", loro non arrivano a immaginarsela.
Bisogna dire: "Ho visto una casa di centomila lire", e
allora esclamano: "Com'è bella" Così se voi gli dite:
"La prova che il piccolo principe è esistito sta nel fatto che
era bellissimo, che rideva e che voleva una pecora. Quando uno vuole
una pecora è la prova che esiste". Be', loro alzeranno le
spalle e vi tratteranno come un bambino. Ma se voi invece gli dite:
"Il pianeta da dove veniva è l'asteroide B 612" allora ne
sono subito convinti e vi lasciano in pace con le domande. Sono
fatti così. non c'è da prendersela. I bambini devono essere
indulgenti con i grandi"45.
' Se
è vero che i grandi appagano le loro curiosità con una cifra - e
Saint-Exupéry ne fornisce una significativa e bellissima
esemplificazione con l'uomo d'affari che conta le stelle per
possederle ("E a
che ti serve possedere le stelle?". "Mi serve ad essere
ricco", "E a che ti serve essere ricco?" "A
comperare delle altre stelle"46)
- e così, appagati e tacitati, "vi lasciano in pace con le
domande", è altrettanto vero che i bambini invece, con le
domande, davvero non lasciano in pace nessuno. Domande di ogni tipo,
domande su domande, senza fine. E, spesso, forse più concentrati
sul fare domande che non sulle risposte. Scriveva Elias Canetti che
"dall'equilibrio fra sapere e ignoranza dipende quanto si è
saggi. L'ignoranza non deve impoverirsi con il sapere. Per ogni
risposta deve saltare fuori – lontano e apparentemente non in
rapporto con essa, una domanda che prima dormiva appiattata. Chi ha
molte risposte deve avere ancor più domande. Il saggio rimane
bambino per tutta la vita, le sole risposte inaridiscono il corpo e
il respiro"47.
E Peter Bichsel: "I bambini vivono in mezzo alle domande, gli
adulti in mezzo alle risposte. Accade che i bambini rinuncino alle
risposte, non vogliano risposte, ma solo domande, come se
esistessero un mondo delle domande e uno delle risposte, che si
incontrano solo del tutto casualmente - due antimondi"48. ' Il
maggior valore delle domande rispetto alle risposte è evidenziato
anche in un romanzo di David Grossman, dove si racconta che Kasik
"non la smetteva di far domande su domande, e perché e perché
e perché e come e cosa, domande facili e domande difficili, e poi
non aspettava mai una risposta" e sembrava che "il fatto
stesso di pronunciare le parole in tono di domanda" eccitasse
il bambino, "come se avesse dentro di sé una molla tesa e
dolorosa, fatta a forma di punto interrogativo, che gli scattasse
dentro a ogni momento procurandogli un momentaneo sollievo"49.
Ma c'è di più: c'è il fatto che quell'incessante porre domande,
quel "modo di pensare contorto", a un certo punto al
dottore sembra che si tratti di qualcosa come "i contorcimenti
di quegli esseri che durante i suoi studi
aveva osservato sotto le lenti del microscopio, quegli esseri
che completano in ognuno dei loro contorcimenti una fase della loro
vita e balzano alla fase successiva"; e comunque '”quelle
domande erano sempre interessanti e piene di fantasia e di speranza,
e molto più ricche delle risposte"50
che vi si sarebbe potuto fornire. Ma,
ancora, c'è ancora dell'altro: c'è il fatto che
“anche i grandi non sanno tutto". Ed è una scoperta
di immensa importanza, che nasce in ogni caso dall'inesausto
domandare di un bambino che guarda la vita, il mondo, il tutto, e
non si contenta, e domanda e domanda, camminando camminando.
Racconta Isaac B. Singer: “Quando ero ancora piccolo cominciai a
formulare ogni sorta di pensieri, come questi ad esempio: che cosa
accadrebbe se un uccello volasse per sempre in una stessa direzione?
Oppure: che cosa accadrebbe se si costruisse una scala che andasse
dalla terra al cielo? Oppure ancora: che cosa esisteva prima che
fosse creato il mando? Quando ebbe inizia il tempo? E il tempo, ha
forse avuto inizio? E come può il tempo avere inizio? E lo spazio
dove finisce? E come può uno spazio vuoto avere un termine, finire?
(...). Mi raccontavano che alcune stelle sono più grandi della
terra. E io mi domandavo: ma se è vero che sono così grandi, come
fanno a stare tutte dentro quella stretta striscia di cielo che
sovrasta i tetti della nostra strada? E rivolgevo ai miei genitori
domande di questo genere che li mettevano in difficoltà: non
sapevano rispondere”51 Le
reazioni degli adulti sono le più diverse: si va dal "non fare
domande così sceme" di una madre di cui parla Bichsel52
al vagamente minaccioso sentenziare del padre di Singer che
"diceva che non è bene indulgere a porsi questa tipo di
domande"53
al frustrante rinviare di sua madre che "se la cavava dicendo
che, quando fossi diventata grande, avrei trovato le risposte"54,
alla demonizzante invettiva della nonna di Asa Heshel: anche lui
faceva continuamente domande: “Quanto è alto il cielo? Quanto è
profonda la terra. Che cosa c’è dopo la fine del mondo? Chi ha
creato Dio? Sua nonna si tappava le orecchie."Mi fai
impazzire", si lamentava. "E' un dybbuk, non un
bambino!”55. Non
è certo soltanto la nonna di Asa Heshel ad avere dei dubbi sul
fatto di trovarsi di fronte un bambino, propendendo piuttosto a
credere che si tratti di un dybbuk, anima di un defunta che non
trovando pace si alloga dentro il corpo di qualcuno e non se ne va
più; ma qui, più che soffermarmi a scrutare "demoniache
presenze", più che farmi prendere nel "giro di vite"
di una affascinante rassegna di varia soprannaturalità, vaglio
invece fermarmi in una ruvida e risentita pagina di diario. E' del
18 febbraio 1890, e dovranno passare ancora quattro anni prima che
l'autore di quella pagina pubblichi un importante libro a torto
lungamente considerato un libro per bambini. A torto, sì, perché Pel
di Carota56
è invece un prezioso e doloroso libro sui bambini, sulle
infanzie meticolosamente vessate dalle innumerevoli signore Lepic
perfidamente determinate a impedire che gli esseri piccoli di loro
proprietà tirino fuori le unghie. In
quella pagina di diario Renard scriveva: "Il bambino, Victor
Hugo e molti altri, l'hanno considerato angelico. Bisogna vederlo
invece feroce e infernale. La letteratura sui bambini non può
essere rinnovata che da questo punto di vista. Occorre decidersi a
fare a pezzi il bambino di zucchero che finora si è dato da
succhiare al pubblico"57.
Parole sante, direi; e basterebbe forse pensare a tutti quei bambini
che beffeggiano gli "strani", i "diversi",
infierendo su quelle "stranezze", e forse ancor più su
quelle solitudini, in preda probabilmente a rigurgiti vendicativi e
investendosi di una "superiorità" che qualcuno e qualcosa
hanno inequivocabilmente annidato in certi loro anfratti. Sono molti
i bambini che agiscono così, e se ne vedono a tutte le latitudini:
"torme di bambini" che " facevano bersaglio di
nutrite sassaiole un folle di Dio"58;
"un gruppo di ragazzi (...) che ridevano e urlavano" al
seguito di "un povero scemo, senza parenti, (...) visto altre
volte e sempre schernito dai ragazzi", che cammina parlando da
solo e piangendo59; bambini che tallonano
insultandola "una contadina stracciona e sporca, gozzuta",
che "andava, girando, senza ricovero certo, (...) dormiva per i
campi, mangiava non si sa che"60;
"una banda di bambini di strada" che insegue "un uomo
vestito di stracci neri" che "chiocciava forte, ma in
preda a una paura disperata, e muoveva le braccia come un uccello
sbatte le ali"61;
bambini alle calcagna di Peruonto - "il più sciagurato
perdigiorno, il più grande scioccone, il più solenne zoticone che
la natura avesse prodotto" - "tutti a gridare e a dargli
la baia; che, se la mamma non era lesta a serrar la porta,
l'avrebbero certamente ammazzato a colpi di cedrangoli e di
torsoli"62;
"una masnada di strani ragazzini (...), schiamazzandogli
dietro, indicando la barba grigia", al seguito di Rip Van
Vinkle, che ritorna a casa dopo essere uscito da un sonno di
vent'anni da lui creduto di una sola notte.63 Probabilmente
però Renard non pensava a questo; la sua era una specie di
rivendicazione e di proposta programmatica, ed era anche qualcosa
che aveva semplicemente a che fare con la memoria, una memoria
inevitabilmente e giustamente risentita. E questa parola, memoria,
sempre incombente su chi, alla faccia di Monsignor Della Casa, abbia
il sordido vizio di voltarsi a guardare, mi porta subito immagini
del tempo e del luogo della mia infanzia. Però, essendo molto
d'accordo con Umberto Saba, il quale sosteneva che “compiacersi
della propria infanzia, dei ricordi della propria infanzia, non è
poi cosa tanto singolare; è cosa anzi della quale, per varie
ragioni (…) si è, negli ultimi anni e in Italia, abusato"64,
e non volendo in alcun modo incrementare l'abuso, farò come se non
di me si trattasse, e quindi senza svelare se, di queste
"eroiche gesta" che dirò, io fossi spettatore oppure
attore. Feroci
e infernali, si camminava a lungo per i campi, armati, di fionde e
di bastoni appuntiti, a caccia di talpe. Questa era la meta, la cui
quasi sacra presenza non impediva però di dedicarsi, nel corso
della spedizione, ad alcuni incontenibili amori: la chioma fronzuta
di un ciliegio selvatico da cui poi sputare noccioli cercando di
farli entrare in immancabili barattoli di latta preventivamente
lasciati ai piedi dell'albero; le più viscide pietre del torrente;
il volo pacato e sontuoso di. una poiana, la cui visione inchiodava
al terreno nell'attesa che si facesse fulmine a rapire un coniglio;
una lepre, una serpe o un topo; oppure il fare "dire Messa” a
qualche "prete". Erano, questi, piccole farfalle nere che,
per il loro volo lento e regolare, si potevano stordire facilmente
con un semplice colpo della mano: cadevano a terra e, con feroce
delicatezza, piccole abili mani infilzavano loro una pagliuzza
nell'ano. I "preti" a quel punto si riprendevano e
sbattevano le ali, celebrando così un rito che veniva solennizzato
con un partecipe anche se un po' scomposto Kyrie eleisòn. Ma
queste erano distrazioni provvisorie, essendo appunto le talpe il
vero obiettivo. Quando una veniva trovata, andava più o meno come a
Pel di Carota; il quale, un giorno, "trova per strada una
talpa, nera come uno spazzacamino. Quando ci si è ben divertito, si
decide ad ammazzarla. La getta in aria parecchie volte, abilmente,
in modo che caschi su una pietra. Dapprima tutto va bene, in fretta.
Già la talpa s'è spezzata le zampe, spaccata la testa, rotta la
schiena, si direbbe che non ne abbia più per un pezzo. Poi,
sorpreso, Pel di Carota s'avvede che la talpa ha smesso di morire.
Ha un bel buttarla alto come una casa, fino al cielo, non combina più
nulla. - Accipicchia! non è ancora morta -, dice. Difatti, sulla
pietra macchiata di sangue la talpa si contrae; il ventre pieno di
grasso trema come gelatina e quel tremolio dà l'illusione della
vita: - Accipicchia! - grida Pel di Carota accanendosi, - non è
ancora morta! -. La raccatta, l'insulta, cambia sistema. Rosso, con
le lacrime agli occhi, sputa sulla talpa e la scaglia con tutta la
forza, a bruciapelo, contro la pietra. Ma il ventre informe si muove
sempre. E più Pel di Carota s'accanisce a picchiare, meno la talpa
gli sembra morire"65. Anche
Felipe, " un ragazzo di campagna, piccolo, rozzo, ben fatto
(...), assai pronto e vivace"66, il cui intelletto "era
quello d'un bambino"67,
non si astiene dal praticare azioni analoghe; azioni di cui, a
differenza che con Renard, non conosciamo i particolari, ma che
confermano comunque quanto infondato sia considerare angelici i
bambini. Infatti Felipe "con la sua rapidità, o colla
destrezza (...) , prese uno scoiattolo in cima a un albero. In quel
momento era un po' avanti, ma lo vidi cadere a terra e accoccolarsi,
gridando forte dal piacere, come un bambino. Quel suono mi piacque,
tanto era fresco e innocente; ma, mentre affrettavo il passo per
avvicinarmi, il grido dello scoiattolo mi percosse il cuore"68.
E aggiunge, l'io narrante di Olalla, che, pur avendo già
avuto diverse esperienze di crudeltà dei ragazzi, "quello che
vidi… mi eccitò a una collera furiosa. Buttai da parte Felipe,
gli tolsi di mano la povera bestia, e con rapida misericordia
l'uccisi"69. Certo!
Probabilmente è anche la completa gratuità del gesto di Felipe a
suscitare quella collera - così come anche le eventuali inorridite
indignazioni a fronte della gratuità dei tormenti inflitti alle
talpe -; però, almeno qui, non è questo che conta. Quel che conta
davvero e che queste pratiche esistono, e hanno gli stessi esiti
anche qualora siano effettuate sulla base di una motivazione
esplicitata, per esempio di natura "scientifica", come nel
caso di Gonzalo Pirobutirro. Da bambino, "avendogli un dottore
ebreo, nel legger matematiche a Pastrufazio, e col sussidio del
calcolo, - dimostrato come pervenga il gatto (di qualunque doccia
cadendo) ad arrivar sanissimo al suolo in sulle quattro zampe, che
è una meravigliosa applicazione ginnica del teorema dell'impulso,
egli precipitò più volte un bel gatto dal secondo piano della
villa, fatto curioso di sperimentare il teorema. E la povera
bestiola, atterrando, gli diè difatti la desiderata conferma, ogni
volta, ogni volta! Come un pensiero che, traverso fortune, non
intermetta dall'essere eterno; ma, in quanto gatto, poco dopo morì,
con occhi velati d'una irrevocabile tristezza, immalinconito da
quell'oltraggio. Poiché ogni oltraggio è morte”70. E
ogni morte è oltraggio, anche se accompagnata dal Kyrie o, come nel
caso di Smerdiakov, da una meno improvvisata liturgia. Il servo di
Karamazov, infatti, "nell'infanzia provava un gran piacere a
impiccare i gatti e poi a sotterrarli in gran pompa. Per far ciò si
gettava addosso un lenzuolo, che faceva da pianeta, e cantava,
agitando sul gatto morto qualcosa a mo' di turibolo "71. Tutto
questo è nient'altro che vero, e potrebbero farsi altri esempi; ma
io voglio aggiungerne uno soltanto, e solo per il semplice fatto che
si trova nell'intrico stupendo di uno dei libri più belli e più
grandi d'ogni tempo e di ogni paese: Grande Sertao, di
Guimaraes Rosa. Racconta il jagunço Riobaldo: "Senta un
po' questa: c'è un tale Pietro Pindò, a poco più di sei leghe da
qui, uomo da bene in tutto e per tutto, lui e la moglie, sempre
stati buoni, come si deve. Hanno un figlio di un dieci anni,
chiamato Valter - nome moderno, è quel che piace adesso alla gente
di qui, come lei sa. Ebbene, questo cosetto, cosettino, fin da
quando baluginò in un qualche intendimento, mostrò in pieno quel
che è: arido maligno, inacidito distruttore, con il gusto della
cattiveria dentro, dal profondo delle specie della sua natura. Tanto
che tormenta, adagio adagio, ogni bestiola o creaturina su cui mette
le mani (...). Quel che lo fa sbavare di piacere, è vedere
dissanguare una gallina o accoltellare un maiale"72. Però
è anche vero il contrario, vero altrettanto. Per i bambini, spesso,
gli animali sono dei pari assoluti, esseri vivi per i quali provare
nient'altro che amicizia e amore. Forse perché di fatto
appartenenti alla stessa tribù, perché intuiti come possibili
alleati naturali in quanto sia gli uni sia gli altri di volta in
volta vezzeggiati o vessati, il più delle volte per oscure ragioni
e spesso persino senza alcuna ragione; sia gli uni sia gli altri
autonomi e in conoscibili ma anche forsennatamente dipendenti; in
balia di grinfie e carezze di padri e di padroni, dei loro mutevoli
imprevedibili umori. Ma al di là di questo, e comunque prima di
questo, c'è il fatto che gli animali sono vivi, e sono quindi entità
assunte semplicemente come compresenti a sé e al proprio essere nel
vasto mondo. E' un po', forse, come con chi parli una lingua
straniera sconosciuta: a differenza degli adulti, bambini di lingue
diverse riescono a giocare insieme, riescono fare insieme, e giocano
e fanno, e mentre giocano e fanno parlano anche - ognuno la propria
lingua -, capendosi. Un
animale può essere a volte il riempitivo di un vuoto, il sostituto
di qualcuno che manca; per i bambini è difficilmente così, è in
genere invece una presenza tra le tante, che può benissimo
coesistere con altre presenze, forti altrettanto. Useppe73
non è più legato a Bella - la cagna con cui ha trascorso quasi
tutto il suo tempo e che sarà uccisa perché impedisce a chiunque
di avvicinarsi a lui morto - di quanto sia legato alla madre o al
fratello Nino, lo è semplicemente altrettanto; ma è quasi
soprattutto con lei che parla e racconta, in uno scambio reciproco e
complice. E anche la madre di Useppe, pur non per scelta, ma per
necessità, affida in piena fiducia il proprio figlio ogni giorno
alle cure amorose e gioiose della cagna; e pur vivendo, in quanto
adulta, un rapporto ben più distaccato di quello che vive suo
figlio, nel momento annichilente dell’intuita fine della vita di
Useppe, le si rivolge come a una persona, chiedendole una solidarietà
sentita come possibile, utile e forse necessaria: "Ida provò
lo stimolo di urlare; ma ammutolì a un ragionamento immediato:
‘Se grido, mi sentiranno, e verranno a portarmelo via…’. Si
protese minacciosa verso la cagna:. ‘Sss’ le bisbigliò,
‘zitta, non facciamoci sentire da loro...’"74.
E nel momento “regressivo” infantile, della speranza disperata
che si tratti soltanto di un'altra "caduta" per
un'ulteriore aggressione del "Grande Male", sarà la cagna
a “dirle", a farle capire: "Solo in ritardo,
incontrandogli occhi di Bella, essa capì. La cagna difatti era lì
che stava, a guardarla con una malinconia luttuosa, piena di
compassione animalesca e anche di commiserazione sovrumana: la quale
diceva alla donna: "Ma che aspetti, disgraziata? Non te ne
accorgi che non abbiamo più niente, da aspettare?""75. Anche
Miguilim, che pure vive vicino, a moltissimi animali, domestici e
no, e ha avuto diversi cani, ha una predilezione specifica per una
cagna, la Pingo-de-Ouro. "Quando
lui si nascondeva in fondo all'orto, per giocare da solo, quella
appariva, senza intromettersi, senza abbaiare, restava lì accanto,
sembrava che capisse"76.
Ma un giorno il padre di Miguilim dà la cagna a dei mulattieri di
passaggio, allora “Miguilim pianse bocconi, ne fece un lutto,
singhiozzò molte volte" e poi "cominciò ad aspettare:
Pingo-de-Ouro sarebbe tornata. Aspettò, aspettò, giudiziosamente.
Perfino di notte, pensava che fosse lei, quando un cane si metteva
ad abbaiare "77.
E poi, dopo parecchio tempo, parlando con il fratello Dito che sta
male perché si è fatto una ferita che lo porterà alla morte,
“Miguilim raccontava, senza fare fatica, storie lunghe, che
nessuno aveva mai conosciuto, non cessava di raccontare, era tanto
allegro, eccitato, quella era per lui l'occupazione più importante.
Si ricordava del sor Aristeo. Inventare favole, tutte con un vivere
pulito, nuovo, da consolare (...). "Dito, un giorno voglio fare
la storia più bella, più mia di tutte: che è con la Cuca
Pingo-de-Ouro!...’ "78. Non
è solamente la Cuca Pingo-de-Ouro ad essere al centro dell'affetto
tenero e forte di Miguilim; lo sono anche il fratello Dito, la
madre, lo zio Terez, altri umani che vivono lì o che lì sono solo
di passaggio; ma lo sono anche altri animali; e non è un caso che
il padre, in uno dei ricorrenti accessi della furia crudele che lo
connota, non punisca il figlio picchiandolo bensì distruggendo quel
che ha di più caro: "Quel che fece fu uscire, prendere le
gabbiette, una per una, le apriva, lasciando liberi gli uccellini,
gli uccellini di Miguilim, poi calpestava le gabbie e le faceva a
pezzi. Tutti quanti stavano zitti. Miguilim non si mosse. Papà
aveva messo in libertà tutti gli uccellini, perfino la coppia di tico-tico-reis,
che Miguilim aveva preso da solo, per idea propria, con un setaccio,
sulla porta della cucina, una volta, Miguilim aspettò ancora per
vedere se papà gli veniva addosso, per ricominciare. Ma non venne.
Allora Miguilim si mosse. Andò in fondo all'orto, dove aveva un
giocattolo di girandola d'acqua - ci mise il piede sopra, lo sfasciò.
Andò alla pianta di acagiù, dove stavano appese le trappole per
prendere gli uccelli, e le ruppe tutte. Poi tornò, riunì tutti i
giocattoli che aveva, tutte le cose messe da parte (...) e buttò
tutto fuori, sull'aia"79. Un
sopruso così grande, una così calcolata determinazione a ferire -
e queste ferite per i bambini sono qualcosa di immane e definitivo,
anche se poi se ne consolano rivivificandosi in un appassionamento
rinnovato - non portano all'insorgere di una azione contrapposta che
contrasti direttamente con la sorgente del proprio dolore, bensì ad
una amplificazione dello squarcio, come a impedire che il proprio
dolore possa non essere davvero totale, immedicabile, senza rimedio.
"Essere piccoli, non si aveva forza per poter ordinare nessuna
cosa"80,
scopre Miguilim, e allora capisce che è su di sé che si deve
agire, che più che aspettarsi il convergere dei grandi verso il
proprio sentire ha senso il progettarsi differenti; e se i grandi
sono capaci di essere "così sorridenti (…), così animati,
allegri, nel momento di cacciare senza ragione, di ammazzare
l'armadillo e gli altri animaletti inermi" e addirittura.
"non volevano neppure che lui Miguilim sentisse pena
dell'armadillo", allora lui "inventava un'altra specie di
disgusto per le persone grandi. Crescesse pure quanto si voleva, mai
avrebbe potuto stimarle"81.
Ma soprattutto "Miguilim non aveva voglia di crescere, di
essere una persona grande, i discorsi delle persone grandi erano
sempre le stesse cose secche, con quella necessità di essere
violente, cose spaventate"82. Mi
sembra che qui ci sia una straordinaria denuncia, una consapevolezza
profonda e una radicale rivendicazione; cioè esattamente il
contrario di un sogno regressivo. Non la tentazione di una tana
dorata in cui rannicchiarsi in astensione, bensì un impulso di
rivolta contro quelle maschere di paura, quei mascheramenti della
paura, che sono le esibizioni di forza e di potere, l'aridità, l'asetticità
difensiva, lo spigoloso chiudere. E
contro la prevaricazione fisica, anche. "Piedipapera assestò
uno scapaccione al figlio della Locca, per insegnargli l'educazione.
- Bestia! quando parlano i più vecchi di te sta zitto",
racconta Verga83;
e Jules Vallès afferma subito, nelle primissime righe di Il
ragazzo, di non sapere se ad allattarlo sia stata la madre
oppure una contadina,"ma qualunque sia il seno che ho
addentato, non ricordo una carezza di quando ero piccolo. Non sono
stato vezzeggiato, carezzato, sbaciucchiato; sono stato invece molto
frustato. Mia madre dice che non bisogna viziare i bambini, e mi
frusta tutte le mattine; quando la mattina non ha tempo, è per
mezzogiorno, raramente oltre le quattro"84.
E sintetizza il proprio avvio dicendo: "Il mio primo ricordo è
dunque quello di una mano di sculaccioni. Il secondo ricordo è
pieno di stupore e di lacrime"85.
Allora, forse, a quella necessaria pagina del diario di Renard - e
con la certezza che lui stesso sarebbe ben d'accordo -, se ne deve
affiancare almeno un'altra di Ursula K. Le Guin, una pagina in cui
Owen Thomas Griffiths, il protagonista di Agata e pietra nera,
dice: "Con tutto il parlare che si fa sulla crudeltà dei
bambini, della crudeltà dei grandi non si è occupato nessuno. I
bambini sono solo degli sciocchi, tanto quelli intelligenti che
quelli tardi. Fanno un sacco di sciocchezze. Dicono quello che
pensano86.
Non hanno ancora imparato a dire quello che in realtà non pensano.
Ci arriveranno più tardi, quando cominciano a trasformarsi in gente
grande e scoprono di essere soli"87. In
realtà della crudeltà degli adulti qualcuno si è occupato.
Basterebbe pensare ai grandi, bellissimi romanzi di Dickens e di
Dostoevskij, dove innumerevoli sono le infanzie tormentate e
sfruttate, oltraggiate e umiliate. E Victor Hugo, nonostante quel
che giustamente affermava Renard, ha dato per esempio con Gavroche88
qualcosa di più e di diverso che una mera immagine
"angelica". Inoltre Hugo non ha risparmiato parole sui comprachicos,
che commerciavano in bambini, li compravano e li vendevano per fame
dei mostri da attrazione divertita: "E' un fatto che c'erano
bambini destinati a essere giocattoli per gli adulti. (Ci sono ancor
oggi.) Nelle epoche primitive e feroci ciò costituiva un'attività
particolare. Il secolo diciassettesimo, detto il grande secolo, fu
una di quelle epoche (...). Questo secolo sfruttò molto i
bambini". Ma "un bambino diritto non è molto divertente.
Un gobbo fa più allegria. Da qui tutta un'arte. C'erano degli
allevatori. Di un uomo facevano un aborto; prendevano un volto e lo
trasformavano in grugno. Comprimevano la crescita, modellavano la
fisionomia. La produzione artificiale di esemplari teratologici
comportava regole precise. Era una scienza in tutto e per tutto.
Basta immaginare una ortopedia al contrario"89. Certo,
forse in Victor Hugo c'erano intenzionalità dimostrative che, con
il voler troppo dire, lo trascinavano lungo le chine insidiose
dell'enfasi e della retorica. E probabilmente è invece proprio
l'impostazione contraria a dimostrarsi poi, nei fatti, più
efficace. In uno struggente, bellissimo e intollerabilmente doloroso
romanzo, Giacoma Limentani ha raccontato di una bambina ebrea
stuprata durante l'occupazione nazista. La narrazione, snodandosi
come a voler occultare i dati di realtà, forse proprio per questo
arriva ad imporre l'essenza incontrollabile dell'oltraggio e del
dolore, permeante di sé tutto quanto. E gli oggetti, il gatto, la
casa, le persone, le immagini, sono solo impregnati del segreto
dell'oltraggio, tacendolo lo svelano, continuando ad esistere lo
urlano in squarci. "La lama di pulviscolo tocca la sedia. Non
l'ha ancora. tagliata. Mia madre non è ancora arrivata. Le assi
trasversali che sorreggono il piano del tavolo formano una X. La X
somiglia all'alef. Il centro nel centro del centro. Chi ha l'alef
vede tutto. lo voglio entrare negli amici legni. Il legno non
sanguina (...). Attraverso la lama di pulviscolo. Apro la porta. Non
è vero che sia vivo chi sa, è vivo chi non sa, io sono morta. Il
dolore è vivo, che non si vede. I morti sono chiusi in una scatola
di pelle. Mia madre ha le braccia aperte su un pacco di gelati e di
biscotti. Entra. E' una regina. Profuma d’aria e di caldo. Si
dipinge la bocca a cuore. Non le lascio il tempo di darmi un bacio.
Mi chino per prenderle i pacchi, con la testa. voltata. Se sento il
suo profumo mi metto a piangere. Mi arrotolo su me stessa come il
nastro rosso che mi hanno messo dentro"90. A
violare la vita non sono però soltanto le percosse, le violenze
fisiche; i soprusi annichilenti. A violare la vita sono tutte le
forzature, anche quelle che si presentano come valorizzazioni, come
sottolineature di apprezzamento, come ammirata contemplazione del
prodigio". Bibi Saccellaphylaccas è un bambino che suona il
pianoforte, "dimostra nove anni, in verità ne ha solo otto, e
danno ad intendere che ne abbia sette"91.
Tutto vestito di bianco, con una giacchetta di seta bianca,
calzoncini di seta bianca, scarpe di seta bianca, nastro nei capelli
di seta bianca, si esibisce in concerto sotto gli occhi dell'alta
società che si spella le mani ad applaudire e a profondersi in
elogi tanto estasiati quanto vuoti e falsi. Già fatto esperto delle
incombenze di ruolo, Bibi asseconda e stuzzica la messa in scena,
concedendosi solo qualche attimo di isolamento: "allora i suoi
strani occhietti da topo dalle ombre opache si distolgono dal
pubblico e vagano oltre la parete dipinta al suo fianco per perdersi
in uno spazio avventuroso, popolato di vaghe vicende"92.
Solo per qualche istante, però, giacché subito si ricompone e
rientra appieno nella parte. E dopo, alla fine del concerto, avrà
un accesso di vero sentire, ma lo terrà per sé, dentro dentro. La
dama di corte (...) gli rassetta un po' la giacchetta di seta, e
gliela liscia per renderlo presentabile, lo prende per il braccio e
lo conduce davanti alla principessa e. con aria severa, lo invita a
baciare la mano a Sua Altezza Reale. ‘Come fai, bambino?’ chiede
la principessa, ‘ti viene in mente da sé, quando ti siedi?’.
‘Oui, Madame’, risponde Bibi. Ma fra sé pensa: ‘Ah, stupida,
vecchia principessa!...’"93. La
descrizione di Bibi è molto accurata, precisa, attenta, e mostra
riccamente i tratti e i gesti, colori e le posture, e le intenzioni
e il sentire; e mi pare contenga una sintesi implicita, una sintesi
che forse è anche un giudizio, o forse non lo è, ma è comunque
qualcosa di inevitabilmente malinconico, triste; e tanto più triste
se si pensa all'ostentata allegria che accompagna il
"prodigio". Una sintesi esplicitata altrove da Ana Maria
Matute. “Quel bambino era un bambino diverso. Non si calava nel
fiume fino alla vita, né cercava nidi, né rubava la frutta
dell'uomo ricco e brutto. Era un bambino che non amava i cani, né
li martirizzava, né li portava a caccia con un fucile di legno. Era
un bambino diverso, che non perdeva la cintura, né rompeva le
scarpe, né avèva cicatrici sulle ginocchia, né si macchiava le
dita coll'inchiostro viola. Era un altro bambino, senza sogni di
cavalli. senza paura della notte, senza curiosità, senza
domande"94. Ebbene
sì, senza curiosità, senza paura della notte, del buio,
difficilmente si è bambini. Il tempo dell'infanzia è un tempo di
forme e di colori; di oggetti che esistono in quanto si possono
toccare e vedere distinti; un tempo in cui anche il fantasticato
assume definitezza e consistenza, ed è ovviamente inevitabile, per
esempio, che un bambino, giocando da solo, parli ad alta voce a quel
qualcuno e quel qualcosa a cui ha dato vita. Ed è un tempo che non
prevede vuoti, non ne tollera, che non prevede assenze. Un tempo in
cui tutto è. E così l'indistinto della notte, l'indistinto del
buio, la non definitezza delle forme, costituiscono solo un
inspiegabile vuoto, un "niente" di cui si vede solo
l'essenza angosciosa del non poter vedere, un "niente"
che, ad osare toccarlo, non comunica nulla. A incutere paura,
infatti, ancor prima e ancor più di quello che nel buio può
nascondersi, è il buio stesso;
e comunque quel che in esso si potrebbe celare è addirittura
tutto, minaccia immane perché senza forma né confini, e tanto
incombente quanto inconoscibile. Ira Stigman "aveva paura del
buio, paura di scendere in cantina da solo; impaurito, anche quando
la sera doveva portare la spazzatura giù nei bidoni per le
immondizie davanti a casa - come si tirava indietro, quanta
resistenza faceva a compiere quell'incarico! La porta chiusa della
cantina in fondo alle scale debolmente illuminate, prima di voltare
per il vestibolo che dava sulla strada, lo riempiva di panico”95. Anche
David Schearl deve cimentarsi con il buio, con la notte, con la
terrificante minaccia della cantina: "Uscì fuori sul
pianerottolo. Dietro di lui, al delicato richiudersi della porta la
luce ammiccò e svanì, come al chiudersi di una palpebra. Saggiò
le scale, che scivolavano sotto di lui nell'oscurità, e afferrando
uno ad uno i sottili montanti della ringhiera, cominciò a scendere.
Tutte le volte che si trovava a essere solo per quelle scale, David
rimpiangeva che fossero coperte dalla guida. Come facevi a sentire
il rumore dei tuoi piedi, nel buio, se c'era una guida che soffocava
ogni passo che facevi? E se non potevi sentire il rumore stesso dei
tuoi piedi né vedere niente, come potevi essere sicuro che eri
veramente lì, e non stavi sognando? A qualche gradino dal
pianerottolo di fondo si fermò, e fissò irrigidendosi la porta
della cantina. Era gonfia di oscurità (...). Buio tutto intorno a
lui, ora, notte assoluta e insondabile. Non un raggio la penetrava,
non una scaglia di luce vi vagava. Dalle impenetrabili profondità
sottostanti, lo smorto fetore di palude di un segreto marcire si
dipanava contro le sue narici. Non v'era silenzio, qui, ma anzi, se
aveva il coraggio di ascoltare, udiva colpetti e scricchiolii,
picchiettii e bisbigli, tutti furtivi, tutti malevoli. Era orribile,
il buio. Là vivevano i topi, le orde dell'incubo, quei musi
distorti, quelle cose, striscianti e informi”96. Un
altro bambino, Itchele, quando aveva otto anni non è che potesse
andare chissà dove, la sera; e non solo a causa della sua età, ma
anche perché "il cortile di casa nostra era buio e la piccola
lampada a petrolio del corridoio emanava più fumo che luce"97. Per di più "le storie
di diavoli, demoni e lupi mi facevano temere di uscire"98.
L'unico luogo in cui potesse andare era la casa di Shosha, una
bambina di nove anni, bellina, con le trecce e gli occhi celesti.
Erano "attratti reciprocamente perché ci piaceva raccontarci
storie a vicenda: e ci piaceva anche giocare insieme"99,
però "per andarci dovevo attraversare un corridoio molto buio.
Ci voleva solo "Un minuto, ma era pur sempre un minuto pieno di
terrore"100.
'Nonostante questo, l'attrazione era più forte e, con l'aiuto della
ripetizione continua di “quelle parole che avrebbero dovuto
proteggermi contro le creature della notte"101,
Itchele correva a perdifiato dal suo amore. Amore, sì, anche se
allora, a otto anni, "non sapevo che la mia amicizia con Shosha,
la figlia della nostra vicina Bashele e di suo marito Zelig, aveva
qualcosa a che fare con l'amore"102. Consapevoli
o no di che cosa si tratti, i bambini si innamorano e si amano.
Quando questo accade, è un costante, emozionato, esclusivo cercarsi
e volersi vicini, giocare e giocare, parlarsi e mandarsi biglietti
di disegni e parole, e raccontarsi storie, sognarsi, sorridersi,
guardarsi, darsi baci, tenersi per mano - “Darsi la mano, l'amore
dei piccoli"103
-, e confidarsi segreti, sussurrarsi piccole parole stordenti,
pensarsi nel cammina cammina, E tutto questo ancora una volta in
"rapimento", come in una necessità: incontenibile, e in
compresenza di tenerissime furie e di furibonde tenerezze. Sono
amori il cui avere fine è tanto repentino e radicale quanto lo era
stato il loro prender vita; e la loro forza, la loro profondità,
non si manifesta tanto in durata quanto piuttosto in intensità.
"Un giorno, invitata a una festa di bambini della mia stessa età,
ne fui ricondotta a casa piangente, e così sconvolta da averne poi
la febbre. E ciò perché un minuscolo indiano, ch'io non conoscevo
affatto, ma che avevo subito preferito a tutte le altre maschere per
il suo splendido costume, s'era involato nella danza, quasi al mio
primo entrar nella sala, fra le braccia d'una spagnola104. A
volte poi qualcuno si innamora non di un coetaneo ma di un
"grande ", e poco importa che questo amore sia,
contraccambiato. O meglio, importa poco relativamente alla forza del
proprio sentire, comunque erompente; importa invece moltissimo per
l'intensità del dolore che il distacco della persona amata produce. Norina,
“che ha sei anni, al momento di andare a dormire dopo avere
partecipato alla festa, è inconsolabile" per via del signore,
di quello che ha ballato con lei, di quello con la giacchetta del
frac, del signor Hergesell"105.
Norina piange, "e intanto che dagli occhi prorompono le
lagrime, lascia sfuggire monotoni lamenti che non hanno nulla a che
fare col piagnucolio irritante e superfluo dei bambini male avvezzi,
ma sgorgano da una vera sofferenza del cuore (...). Essa bagna delle
sue lagrime la faccia del babbo. ‘Abele... Abele...’ balbetta
tra i singhiozzi. ‘Perché... Max... non è mio fratello?
Bisogna... che Max... sia mio fratello...’"106. E soltanto quando Max
Hergesell verrà chiamato e le parlerà augurandole la buonanotte,
Norina riuscirà ad acquietarsi e ad entrare appagata nel sonno. Toni
è un poco più grande di Norina, ha sette anni, e prova una
violenta gelosia per il fatto che ci sono ragazzi ronzanti attorno a
sua cugina Paola, che la chiamano a gran voce dalla strada e le
mandano baci. "Quella sera Toni non volle mangiare, stava con
la testa china sul piatto che si raffreddava e sembrava volesse
mettersi a piangere. Suo padre volle sentire se aveva la febbre e
gli parve un poco caldo. Quando fecero il letto per Paola quella
sera Toni non le diede la buona notte, né le augurò di fare sogni
d'oro. Sua madre gli disse di farlo, ma egli corse verso il suo
lettino - senza dire niente. Spenta la luce sentirono che si
rivoltava e non prendeva sonno. Più tardi sua madre intese che
piangeva, e ripeteva: ‘Maledetti, Paola è mia’"107. Questi
amori prescindono dalla scoperta del sesso, che è spesso qualcosa
di completamente subito, di avvertito soltanto in seguito ad azioni
e parole altrui, e prevalentemente misteriose, nascoste; una
scoperta che, attuandosi con questi aloni di mistero tenebroso, e da
nascondere, è perlopiù sentita come qualcosa da sfuggire, o da
elaborare come attrazione repulsiva. Tra
gli innumerevoli pregi di quel romanzo straordinario che è Chiamalo
sonno c'è anche quello di non avere trascurato la scoperta del
sesso come elemento di grande importanza nello snodarsi della vita
di un bambino. E non è senza significato che, alla fine del
romanzo, quando David fruga la rotaia con un ramaiolo nel tentativo
di provocare una grande scintilla, una grande luce che gli dia la
visione di Dio, lo faccia con una commistione di accoratezza mistica
e di evocazione sessuale: "Risfidato! Risfidato! Mi hai sfidato
e risfidato! Dove c'è la luce nel buco mi hai sfidato. Ora devo
(...). Ora! Ora devo. Nel buco, ricordati. Che nasca nel buco"108. Ma
le prime esperienze di David Schearl relative alla scoperta del
sesso sono soltanto angosciose e ansiogene. Una sera David è in
casa con sua madre perché il padre è andato a teatro, con un
biglietto premurosamente fornitogli dal suo amico Luter. E questi,
con un pretesto, arriva e si mette a parlare, seduto mentre lei sta
lavando le pentole." David, che si sporgeva da un lato della
sedia, poteva vedere allo stesso tempo sia Luter che sua madre.
Assorto a guardare sua madre, avrebbe fatto poca attenzione
all'altro se non lo avesse colpito un improvviso movimento obliquo
degli occhi di Luter verso di lui, che lo spinse a osservarli
attentamente. Luter, gli occhi ridotti a una fessura da uno
sbadiglio immobile, stava fissando sua madre, le anche di sua madre.
Per la prima volta, David si rese conto di come la sua carne,
racchiusa nella sottana "modellasse contro di essa forme
distinte. Si sentì improvvisamente confuso, in lotta con qualcosa.
nella sua mente che non riusciva a diventare un pensiero"109. Qualche
tempo dopo, in casa di Yussie e Annie, mentre il suo amico Yussie è
stato mandato a prendere qualcosa e le due madri conversano tra
loro, David rimane solo con Annie, bambina zoppa di poco più grande
di lui. Annie lo porta nella camera da letto e lì dentro l'armadio
a muro; dentro, nel buio più completo, lei si fa stringere e
baciare. Poi: "Sai giocate spinto?", domandò lei.
“Spinto? No, non so", disse lui con voce tremante: "Vuoi
che ti faccia vedere come faccio. io?”. Lui stava zitto,
terrorizzato. "Me lo devi chiedere tu ", disse lei.
"Forza, chiedimelo". "Che cosa?". "Devi
dire, vuoi giocare spinto? Dillo!”. Lui tremava. "Vuoi
giocare spinto? ". "Ecco, sei stato tu a dirlo",
bisbigliò lei. "Non dimenticarlo, sei stato tu a dirlo".
Dall'enfasi delle sue parole, David capì di avere oltrepassato una
qualche terribile soglia"110.
E poi Annie lo fa giurare che non racconterà mai a nessuno quel che
stanno facendo e gli chiede se sappia da dove vengono i bambini e
gli rivela che vengono dalla knish. David non capisce, e non
tanto perché non conosca l'yiddish, allora lei gli spiega. "In
mezzo alle gambe. Quello che ce lo mette dentro è il babbo. Il
babbo ha l'uccello. Tu sei il babbo". Ridacchiò furtiva e gli
prese la mano. Lui sentì che la guidava sotto il suo vestito, poi
attraverso un risvolto come una tasca. La pelle di lei sotto il suo
palmo. Rivoltato si tirò indietro. "Devi farlo!", insisté
lei, tirandogli la mano. "Sei stato tu a chiedermelo!".
"No", "Mettimi la mano nella knish", lo
blandì lei. "Una sola volta". "No!". "Ti
terrò l'uccello”. Allungò la mano. "No!". Gli si
accapponò la pelle. "Allora prendimi per la vita un'altra
volta”. "No! No! Fammi uscire!". La spinse via.
"Aspetta. Yussie crederà che ci stiamo nascondendo”.
"No! Non voglio!". Aveva alzato la voce fino a gridare.
"E allora vattene!". Gli dette una spinta rabbiosa. Ma
David aveva già aperto la porta e era fuori. Lei lo afferrò mentre
attraversava la camera da letto. "Se lo vai a dire!",
bisbigliò velenosa. "Dove stai andando?". "Vado
dalla mia mamma!". "Resta qui! Ti ammazzo, se vai di là!".
Gli dette uno strattone. Lui aveva voglia di piangere.'"111. Mi
sembra piuttosto improbabile che esperienze di questo genere
comunichino qualcosa riferibile alla gioia, alla tenerezza, alla
spontaneità, alla naturalità; e così, per tutti i David, arrivare
a pensare la sessualità come gioia, come espressione di sé gioiosa
e serena, come valore anziché come vergogna, come scelta felice
anziché come prevaricazione o sopruso, non potrà essere semplice.
D'altra parte è un po' inevitabile: una cultura non propone che sé
e il proprio riproporsi, e una cultura sessuofobica non sfugge a
questa banalissima regola nemmeno
quando, come la nostra, apparentemente si nega attraverso la
liberalizzazione dei costumi, ma in realtà si ribadisce,
accrescendo e affinando la mistificazione con la variante del
rimpolpamento consumistico. Eppure, anche a questo proposIto, si
potrebbe imparare qualcosa dai bambini, per esempio dalla bambina di
cui parla Giacomo Noventa. "In un giorno, o in un'ora, di
vacanza, dunque, la buona maestra incontrò una sua scolaretta. La
scolaretta accompagnava una mucca. Sembrava più piccola di quando
era chiamata alla lavagna o alla cattedra. La buona maestra
s’intenerì e le chiese: Dove vai bambina?". "Porto la
mucca al toro", rispose con grande semplicità la bambina.
" Oh! non potrebbe farlo tuo padre?" osservò
scandalizzata la maestra. "No, signora maestra - rispose ancora
la bambina - ci vuole proprio il toro" "112. Molto
opportunamente Noventa afferma che "questa storia può sembrare
molto buffa, ma non è una storia buffa. E' una storia molto
commovente, e quasi dolorosa, sebbene sia una storia di tutti i
giorni. Molti possono scrivere quel che ho scritto io stesso:
"Di fronte agli uomini ingenui e ai fanciulli abbi pudore anche
del tuo pudore ", ma quasi mai e quasi nessuno riesce a mettere
in pratica un consiglio simile, o principio che sia. Noi agiamo
quasi tutti come la buona maestra: rischiamo di ferire il pudore
degli ingenui e degli innocenti quanto più vogliamo proteggerlo.
Troppo fortunati, se la loro ingenuità e la loro innocenza sono così
grandi da soverchiare il nostro moralismo e da impedirgli di
nuocere"113. Difficile,
direi; molto difficile, molto, davvero. La
fortuna non so bene cosa sia, e soprattutto mi sembra che innocenza
e ingenuità, quando ci sono, per quanto grandi siano, non lo
possano essere mai abbastanza da riuscire a spuntarla nei confronti
del "nostro moralismo". E nemmeno nei confronti della
nostra perfidia; né della nostra ragionevolezza; del nostro
colonialismo; delle nostre buone intenzioni; delle nostre malvagità;
delle nostre freddezze; dei nostri conformismi; delle nostre
disillusioni; delle nostre rassegnazioni; delle nostre indulgenze;
dei nostri torpori; del nostro vivere morti; delle nostre ansie di
potere; del nostro potere.
. Soprattutto
del nostro potere, con il quale i bambini non possono avere, per
definizione, altro che vincoli puerili. E Mandel'štam - che in una
poesia del 1931 diceva: "Col mondo del potere non ho avuto che
vincoli puerili: / temevo le ostriche, e alle guardie lanciavo
occhiate di sottecchi; / nemmeno di una briciola d'anima gli sono
debitore"114
-, proprio per il carattere dei suoi vincoli con il potere, è morto
in un lager staliniano, forse nel 1939, forse di consunzione, giacché
pare che a un certo punto, puerilmente, non mangiasse più nulla,
per il terrore puerile - cioè assoluto, infinito - di essere
avvelenato. A
intrattenere con il potere vincoli puerili, dunque, si muore.
Allora, forse, Savinio aveva davvero ragione a sostenere che per
l'infanzia - "onda continua di rivoluzione, e sistematicamente
stroncata dai ‘grandi’", questi reazionari "115
- non si potesse parlare né di Commedia né di Dramma, bensì di
"Tragedia, ossia sacrificio e annientamento"116;
allora, forse, Savinio aveva davvero ragione a chiudere il suo libro
con la frase asciutta e lacerante, dolorosamente verticale: "La
parte del toro è fatta dai bambini"117. E
sarà anche un caso, ma non è senza significato che Saleem Sinai,
nella ricerca, di "un terzo principio (...); la forza che si
spinge tra i corni del dilemma; perché solo essendo altro, solo
essendo nuovi, potremo mantenere la promessa della nostra
nascita"118, arrivi ad affermare che
"se esiste un terzo principio, si chiama infanzia. Ma muore; o
meglio, viene assassinato"119. E
questo nonostante, nel caso di Saleem, si trattasse di bambini
magici - ma forse il loro vero scopo altro non poteva essere che
"l'annientamento; (e) non avremmo acquisito un significato se
non quando ci avessero distrutti"120. La
parte del toro, dunque, sì. Anche
due libri della mia. bibbia lo dicono: "Gioventù. Ma la
gioventù è faccenda da smentire, più tardi"121;
e "Tutte le città della terra sono un'unica, maledetta
congrega / contro i ragazzetti celesti"122;
e "le fanciullezze sulla terra / sono un passaggio di barbari
divini / col marchio carcerario della fine già segnata"123 E
poi si muore anche, da bambini, vittime del potere fanatico della
fragilità biologica. Si
muore in una "sfolgorante giornata d'estate a Misiones, con
tutto il sole, il caldo e la calma che la stagione può
offrire"124.
Un uomo aspetta il figlio che ritarda, ed è stupito perché
"sarebbe già dovuto essere di ritorno. Per la fiducia che
nutrono l'uno nei confronti dell'altro - il padre con i capelli
brizzolati e il figlio di tredici anni - non si ingannano mai.
Quando suo figlio risponde: "Sì, papà", farà ciò che
promette. Ha detto che sarebbe tornato prima di mezzogiorno, e il
padre gli ha fatto un sorriso nel vederlo partire. E non è
tornato”125.
Mezzogiorno è passato da un pezzo, allora l'uomo va, cammina nella
radura, nella selva, esplora la palude, e inesorabilmente si afferma
in lui la certezza che i suoi passi potranno portarlo soltanto al
cadavere del figlio. L'angoscia disperata cresce, ed è come se
l’uomo, in quel breve tempo, fosse invecchiato di dieci anni. Ma
“le forze che impediscono a un povero padre allucinato di
arrendersi al più atroce degli incubi hanno anche un limite. E il
nostro povero uomo sente che le sue se ne vanno, quando
all'improvviso vede sbucare il figlio da un sentiero laterale (…)
"Bambino mio..." mormora l'uomo. Ed esausto si lascia
cadere sulla sabbia ardente e cinge con le braccia le gambe del
figlio"126.
Questi racconta di avere fatto tardi perché ha seguito gli aironi,
e “l'uomo torna a casa con suo figlio, e gli appoggia felice il
braccio sulle spalle, ormai quasi alte come le sue. Ritorna in un
bagno di sudore, e, pur abbattuto nel corpo e nell'anima, sorride
dalla felicità. Sorride di una felicità allucinata… Perché quel
padre se ne va solo. Non ha trovato nessuno, e il suo braccio poggia
sul vuoto. Poiché dietro di lui, ai piedi di un palo e con le gambe
in aria, strette da un filo spinato, il suo adorato figlio giace
sotto il sole, dalle dieci della mattina, morto"127. Anche
molto più a nord, in un altro stupendo racconto, di Stig Dagerman,
“è una bella giornata, e il sole che spunta brilla sulla pianura.
Presto cominceranno a suonare le campane della chiesa, perché è
domenica (…). Davanti agli specchi, posti sui tavoli di cucina,
gli uomini si stanno radendo, le donne affettano, canticchiando, il
pane per la colazione e i bambini seduti in terra si abbottonano le
camicie. E il mattino felice di un giorno di sciagura, perché in
questo giorno un bimbo sarà ucciso da un uomo felice"128. Un
bambino è con i genitori, stanno per fare colazione e parlano di
una gita che faranno quel giorno in barca sul fiume. Nello stesso
momento "l'uomo felice" è due paesi più in là, insieme
a una ragazza, e fanno rifornimento di benzina perché stanno
andando al mare. Ma la madre del bambino si accorge che manca lo
zucchero e manda il figlio a prenderne in prestito un po' dai
vicini. "Mentre attraversa correndo il giardino, il bimbo pensa
al fiume e ai pesci che abboccano, e nessuno gli sussurra
all'orecchio che gli restano solo otto minuti di vita e che il
barchino resterà lì dov'è tutto quel giorno e molti altri
ancora"129.
Intanto l’uomo e la ragazza corrono veloci verso il mare,
"l'uomo si sente felice e forte, mentre col gomito sfiora il
corpo della donna. Non è un uomo cattivo. Ha fretta di arrivare al
mare. Non sarebbe capace d! far male a una mosca, eppure fra poco
ucciderà un bambino (…). Un attimo prima che un uomo felice
uccida un bambino è ancora felice; e un attimo prima che una donna
urli di terrore, chiude gli occhi e sogna il mare; e durante
l'ultimo minuto di vita di un bimbo, i "suoi genitori stanno
seduti in cucina ad aspettare lo zucchero e a parlare dei denti
bianchi del loro piccolo e d'una gita in barca; e quel bimbo può
chiudere un cancello e traversar la via con nella mano destra
qualche zolletta di zucchero avvolta in un po' di carta bianca; e in
quest'ultimo minuto non vede altro che un lungo fiume scintillante e
grossi pesci e un ampio barchino dai remi silenziosi. Dopo, tutto è
troppo tardi. Dopo, un'auto azzurra sta ferma, di traverso, sulla
via, e una donna che urla si stacca la mano sanguinante dalla bocca.
Dopo, un uomo apre lo sportello dell'auto e stenta a reggersi in
piedi, perché sente dentro di sé una caverna d'orrore. Dopo, poche
zollette di zucchero sono sparse sulla via tra il sangue e la
ghiaia, e un bimbo giace riverso, immobile, con la faccia
schiacciata contro la terra"130. Si
muore, dunque, anche da bambini, per la ferocia cieca d'un evento
qualunque, che nasce magari come quieto frammento del consueto
procedere dei giorni, ma ad un tratto impazzisce, prende
accanimento, e infierisce con furia strappando via dal mondo. Dito,
un fratello minore di Miguilim, un giorno va a spiare la civetta
nella sua tana, là dove non c'è altro che "l'ombra di un
albero grande, e sotto erba di campo", e si fa un taglio in un
piede con un coccio di vaso. "Dito non poteva camminare, poteva
soltanto andare saltando su un piede solo, ma gli faceva male, perché
il taglio s'era infettato molto, e faceva materia. (...) sentiva
dolore nelle spalle e dolore alla testa tanto forte, diceva che gli
stavano infilando un ferro nella testina. (...) aveva la febbre
molto calda, vomitava tutto, non s'accorgeva neppure che vomitava.
(...) dormiva senza addormentarsi, restava dormendo anche quando
gemeva. (...) Dito a volte teneva un occhio chiuso, risentito
strillava per il dolore di
testa, sempre spiegavano che la febbre era più alta, poi lui diceva
cose senza nesso, vomitava, non poteva sopportare la luce, e si
abbandonava a un sonno profondo, ma in pieno sonno dava un grido
ripetuto, brutto, senza svegliarsi"131.
Così
Dito muore. E poco prima di morire "non riusciva più a parlare
bene, i denti volevano restare chiusi, la bocca si apriva appena, ma
pur così lui fece uno sforzo e disse tutto: "Miguilim,
Miguilim, ti voglio insegnare quel che ora so, tanto: è che uno può
restare sempre allegro, allegro, anche con tutte le cose brutte che
succede che capitano. Uno deve allora poter diventare più allegro,
più allegro, per dentro""132.
. Si
potrebbe forse allora anche dire che Dito - dei quale la Rosa una
volta disse che (...) parlava con ogni persona come se "fosse
una, differente; ma che gli piacevano tutte, come se tutte fossero
uguali"133
- si potrebbe anche dire che Dito sia uno dei "Felici Pochi"
di cui ha parlato EIsa Morante. I
quali Felici Pochi "diventano sempre più pochi / e sempre più
infelici. / E si capisce: / gli Infelici Molti sono troppo
affaccendati / a fabbricare trafficare istituire organizzare
classificare propagandare / la loro enorme indispensabile felicità
/ per darsi pena dell'infelicità superflua / minoritaria / dei
Felici Pochi. / Però si può sempre notare / il solito inquietante
fenomeno plurisecolare: / in realtà, chissà perché, / l'infelicità
dei Felici Pochi è/ più felice assai che non la felicità / degli
Infelici Molti! / La felicità degli Infelici Molti / non è
allegra! non è mai allegra!. / (…) e l'infelicità dei Felici
Pochi / invece è allegra! ALLEGRA! / (…) / Nei ghetti / negli
harlem / in Siberia / nel Texas / a Buchenwald / in galera / sulla
forca sulla sedia elettrica / nel suicidio. / Assolutamente
irrimediabilmente / definitivamente / ALLEGRA!”134. Allegra,
sì, perché inafferrabile, non imbrigliabile, anarchica. E, in
quanto tale, libera, viva e salvifica. "Il mondo salvato dai
ragazzini ", diceva EIsa Morante; ed è solo possibile
crederlo, direi, se si pensa ai Felici Pochi, a Dito, a Miguilim, al
Pazzariello - "ragazzino" emblematico -, a Rufo e la sua
amica135. E
però, oggi, a distanza di più di vent'anni, è ancora più vero il
"sempre più pochi e sempre più infelici". Per i
conformismi oceanici e magmatici; per le rassegnazioni inebetite;
per le grettezze inebriate; per la disintegrazione; per le
sudditanze; per il cinismo; per i silenzi ammirati che accompagnano
le innumerevoli sfilate in cui mille e un imperatore esibiscono i
loro vestiti nuovi; per il prevalere e il prevalere delle risposte
accomodanti sulle domande, e per il preporre accorato quelle a
queste. Ed
è ben significativo che EIsa Morante, dopo Il mondo salvato dai
ragazzini, abbia scritto La Storia, dove già non c'è
salvezza per nessuno - e questo anche in modo non direttamente
dipendente dalla guerra, oltre gli orrori e gli oltraggi che
comunque la guerra produce -; ma poi, soprattutto, che abbia scritto
un capolavoro splendido di disperazione infinita come Aracoeli.
Eppure - e mi rendo ben conto che, probabilmente per paura, mi sto
arrampicando sui vetri - mi viene da sottolineare che dentro alla
disperazione totale di Aracoeli c'è però pur sempre anche un
"personaggio positivo", l'unico di tutto il romanzo, ed è
un bambino - un "ragazzino"? -. E' il ragazzino Pennati136, di cui non sappiamo
neppure il nome, ma che, nel pur brevissimo tempo del suo apparire,
si configura chiaramente per il suo essere ribelle e appassionato,
tenero e tenace, fornito di acuminata sensibilità. E' vero, si
tratta di una apparizione fugace dentro un mondo che non ha più
alcuna possibilità di essere salvato, ma sta a dimostrare - almeno
così mi piace pensare, o, forse, mi consola pensare - che forse,
comunque, c'è un tempo, oltre il tempo, nel quale è possibile
l'esistenza di chi "faceva romanzi sulla vita / degli immensi
deserti dove splende, rapita, / la Libertà: foreste, soli, rive,
savane / (...) cieli pesanti d'ocra, foreste immerse, fiori / di
carne che nei boschi astrali si dischiudono, / scoscendimenti,
rotte, vertigine e pietà! / Mentre
giù si animavano i rumori del giorno, / solo e steso supino sopra
pezzi di tela / grezza, egli presentiva violentemente il mare!”137;
che l’utopia può affacciarsi, ed emettere fiati di esistenza
anche quando e anche là dove il drago notturno dell’irrealtà, la
coscienza disintegrata, abbia prevalso138. Basta,
mi fermo qui. Interrompo qui questo camminare arbitrario, lacunoso,
partigiano; questo semplificare esemplificando, questo prendere alla
lettera, questo decontestualizzare e ricontestualizzare, questo
giocare, questo bieco ridurre a pezza giustificativa le vaste
caleidoscopiche complessità dei luoghi e dei linguaggi, dei bambini
incontrati. Mi fermo qui, anche sollecitato da un verso di Celan:
"Non leggere più - guarda!"139. Sì,
basta, esco, faccio in giro in campagna. E
subito m'accorgo, nell'andare, che invece di guardare io vado
ruminando qualche cosa. La prima è una sorta di rammarico, una
malinconia, che nasce dal non avere incluso qui i molto amati
bambini di Tolstoj. di Cechov, i tanti altri di EIsa Morante, il Jim
di Stevenson e quello di James BaIlard, e i bambini di Kipling e
Calvino, di Bruno Schulz, della Mansfieid, di Dylan Thomas, Salinger,
della Ramondino, e quelli di Bilenchi; di Fazil' Iskander, di
Platonov, di Grahame... L'altra
cosa è un ronzare, il ronzare del dubbio, se da qui si ricavi un
qualche succo forte, una qualche seppure provvisoria parziale
"verità". In,
un paese mi sono fermato, sedendomi su una panchina. Sono
passate, in bicicletta, due bambine. Una, infuriata e sporgendosi
molto verso l'altra, sbandando ripetutamente, diceva sibilante:
"Se chiami la Marta non gioco più con te, non sei più mia
amica, non ti parlo più". L'altra non rispondeva, sembrava che
seguisse un suo pensiero, sembrava che ascoltasse un suo sentire. E
s'è fermata, qualche casa più avanti. S'è fermata e, mentre
l'inviperita le continuava a dire qualcosa che io non ho sentito, ha
squillato una voce senza fremiti: "Marta!". E
Marta, è uscita subito, correndo, con una bambola in mano, e quando
le ha viste ha sorriso "come sanno sorridere però solo le
bimbe sulle aie di campagna: cioè con tutta se stessa, se mi
spiego, e non cogli occhi o magari la fronte solamente"140. Proprio
come l'amica di Rufo, che ha i riccetti neri a forma di stella e
"quando ride, lei / mica ride solo con la faccia, ma pure con
le manucce, col corpo, coi piedi! / non come l'altra gente
solita"141. Marta
e la bambina che l'aveva chiamata si sono accucciate e hanno
cominciato subito a parlare pastrugnando terra sassi stracci bambole
acqua. L'altra, sulla bici, se ne è rimasta lì; le guardava, un
po' torva, giocare. Sì,
forse c'è, qui, anche qui, una verità. Potrebbe essere questa,
'che "il mondo era grande. Ma tutto era ancora più grande
quando si ascoltava una cosa raccontata"142. Note
1
Giovanni Della Casa, Galateo [1558], a c. di R. Romano,
Einaudi 1975, pp. 74-75. 2
Protagonista del racconto incompiuto di Silvio D'Arzo, L'uomo
che camminava per le strade. Il testo, dei primi anni '40, è
stato pubblicato in " Contributi" (periodico della
Biblioteca. Municipale "A. Panizzi". di Reggio Emilia),
anno V, n.9, gennaio-giugno 1981, a cura di A.L. Lenzi. 3
S. D'Arzo, op. cit., p; 97. 4
James M. Barrie, Peter Pan [1911], tr. di M. Dandolo,
Bompiani 1971, p. 125. 5
D'Arzo, op. cit., p. 97. 6
Lloyd de Mause (a cura di), Storia dell'infanzia, [1974],
Emme 1983, p. 12. 7
Wystan H. Auden, Saggi, tr. di G. Fiori Andreini, Garzanti
1968, p. 25. 8
Satura, [1971], in Eugenio Montale, Tutte le poesie,
Mondadori 1977, pp. 409-410. 9
Luigi Meneghello, Pomo pero, Rizzoli 1974, p. 203. 10
Herman MelVille, L'uomo di fiducia. Una mascherata [1857],
a c. di S. Perosa, Feltrinelli 1984, p. 120. 11
Ivi, p. 122. 12
Ivi, pp. 124-125. 13
Ivi; p.129. 14
Herman Melville, Israel Potter, [1855], tr. di G. Antonelli,
Fe1trinelli 1980, p.26. 15
Herman Melville, Benito Cerezo, [1855], tr. di C. Pavese,
Mondadori 1970, pp. 156-157. 16
William Faulkner, Santuario, (1931), tr. di P. Ometti,
Mondatori 1950, p.195. 17
Nathaniel Hawthorne, Racconti narrati due volte (1837), tr.
di A. Monti, De Agostani 1983. 18
Ivi, pag. 195. 19
Ivi, pag.199. 20
Ivi, pp. 200-201. 21
Ivi, p.202. 22
Ivi, p.203. 23
Ivi, p.204. 24
Ivi, pp. 204-205. 25
ivi, p. 205. 26
Nathaniel Hawthorne, La lettera scarlatta, [1850], tr. di
F. Valari, Garzanti 1985, p. 101. 27
Nathaniel Hawthorne, Racconti, tr. di F. Valari e M. Papi,
Garzanti 1982. 28
Goffredo Fofi, Introduzione a Hawtharne, Racconti, cit. p. XXIV. 29
N. Hawthorne, Racconti, cit., p.63. 30
Ivi, pp. 64-65. 31
Ivi, p. 65. 32
Luigi Meneghello, Libera nos a malo, Feltrinelli 1963, pp.
43-44. 33
Walter Binni, La protesta di Leopardi, [1973], Sansoni
1977, p. 1O, n. 1. 34
Zibaldone, pp. 3265-3267, [1823], in Giacomo. Leopardi, Tutte
le opere, a c. di W. Binni e E. Ghidetti, Sansoni 1976, vaI.
II, pp. 816-817. 35
Joao Guimaraes Rosa, Le sponde dell'allegria, [1962], tr.
di G. Lanciani, SEI 1988. 36
36 Ivi, p. 13. 37
Ivi, p. 15. 38
Ivi,pp. 200-201. 39
Ivi, pp. 16-17. 40
Ivi, p. 204. 41
Ivi, p. 17. 42
ivi, p. 204. 43
Pier Paola Pasolini, Il caos, [1968-1970], a c. di G.C.
Ferretti, Editori Riuniti 1979, p. 153. 44
Ian McEwan, Bambini nel tempo, [1987], tr. di S. Bassa,
Einaudi 1988, p. 102. 45
Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe [1943], tr.
di N. Bregali, Bampiani 1978, pp. 22-24. 46
lvi, p. 63. 47
Elias Canetti, La provincia dell'uomo, tr. di F. Jesi,
Adelphi 1978, 'pp. 16-17; il brano. citata è del 1942. 48
Peter Bichsel, Al mondo ci sono più zie che lettori
[1975], tr. di C. Allegra, Marcos y Marcos 1989, pp. 33-34. 49
David Grassman, Vedi alla voce amore [1986], tr. di G.
Scilani; Mondadori 1988, p. 443. 50
lvi, p. 444. 51
Isaac B. Singer, Un giorno di felicità [1963], tr. di F.
Boesch, Bompiani 1971, pp. 5-6. 52
P. Bichsel, op. cit., p.33. 53
Isaac B. Singer, Un giorno di felicità, cit., p. 6. 54
Ibid. 55
I. B.. Singer, La famiglia Moskat [1950], tr. di B. Fonzi,
Longanesi 1978, p. 38. 56
JuIes Renard, Pel di Carota [1894], tr. di P. Bianconi,
Rizzoli 1951. 57
Jules Renard, Per non scrivere un romanzo. Diario 1887-1910,
tr. di O.Vergani, Serra e Riva 1980, p. 66. 58
Farid ad-din ‘Attar, Il verbo degli uccelli [tra 1100 e
1200], a.c. di C. Saccone, SE 1986, p. 136. 59
Pomeriggio [1958], in Romano. Bilenchi, La siccità e
altri racconti, Mondadori 1977, p. 198. 60
Lelio e Lina, in Joao Guimaraes Rosa, Corpo di ballo
[1956], tr. di E. Bizzarri, Feltrinelli 1965, p. 230. 61
Elias Canetti, La lingua salvata [1977], tr. di. A.
Pandolci e R. Colorni, Adelphi, 1991, pp. 19-20. 62
Giambattista Basile, Il pentamerone [1634], tr. di B.
Croce, Laterza 1974, vol 1°, pp. 41 e 43. 63
Rip VanVinkle
[1819], in Washington Irving, Racconti per una sera d'inverno,
a c. di A. Brilli, Serra e Riva 1982, p. 111. 64
Storia e preistoria del Canzoniere [1948], in Umberto Saba,
Prose scelte, Mondadori 1976, p. 209. 65
Jule Renard, Pel di Carota, cit., p. 33. 66
Olalla [1887], in Robert L. Stevenson, Racconti e tavole,
a c. di A. Camerino, Einaudi 1960, p. 110. 67
Ibid. 68
Ivi, p. 112. 69
Ivi, p. 119. 70
Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore [1938 - 1941];
Einaudi 1970, p. 39. 71
Fedor Dostoevskij, I fratelli Karamazov [1880], tr. di A.
Polledro, Corticelli 1950, p. 139. 72
Joao Guimaraes Rosa, Grande Sertao [1956], tr. di E.
Bizzarri, Feltrinelli 1985, p. 14. 73
EIsa Morante, La Storia, Einaudi 1974. 74
Ivi, p. 646. 75
Ibid. 76
Joao Guimaraes Rosa, Miguilim, [1956], tr. di E. Bizzarri,
Feltrinelli 1984, p. 21. Miguilim è la prima delle sette storie
che formano il “ciclo romanzesco" Corpo di ballo;
del ciclo fa parte anche Una storia d’amore, citata più
avanti. 77
Ivi, p.24 78
Ivi, p. 97. 79
Ivi,
p. 120. 80
Ivi,
p. 46. 81
Ivi, p. 57. 82
Ivi, p.38. 83
Giovanni Verga, I Malavoglia [1881], Mondatori 1957, p. 32. 84
Jules Vallès, Il ragazzo [1879], tr. di L. Basso,
Feltrinelli 1973, p. 35. 85
Ibid. 86
Ma questa - del pensare, ancor prima che del dire il pensato - non
è certo un’acquisizione pacifica, e per sottolinearlo voglio
ricordare soltanto l'illuminante dialogo tra Alice e la Duchessa:
"Ti sei rimessa a pensare?" chiese la Duchessa. [...]
"Ho il diritto di pensare” disse Alice secca, perché
cominciava a preoccuparsi un po'. "Tanto quanto" disse
la Duchessa, “ne hanno i maiali di volare"". Cfr.
Lewis Carroll, Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie
[1865], tr. di M. d'Amico" Mondadori 1978, p. 89. 87
Ursula K. Le Guin, Agata e pietra nera, tr. di M. Giardina
Zannini, Salani 1991, p. 7. 88
Victor Hugo, I miserabili [1862]" a c. di M. Picchi,
Einaudi 1983. 89
Victor Hugo, L'uomo che ride [1869], tr. di B.Nacci,
Garzanti 1988, p. 28. 90
Giacoma Limentani In contumacia, Adelphi 1967, pp. 21-22. 91
Il bambino prodigio [1903], in Thomas Mann, Padrone e
cane e altri racconti, tr. di I.von Anrep, FeltrinelIi 1982,
p. 189. 92
Ivi p.93 93
Ivi p.195 94
L'altro bambino, in Ana Maria Matute, I bambini tonti
[1961], tr. di. R. del Balzo, Lerici 1964, p. 57. 95
Henry Roth, Alla mercé di una
brutale corrente, tr. di M. Materassi, Garzanti 1990,
p. 90. 96
Henry Roth, Chiamalo sonno [1934], tr. di M. Materassi,
Garzanti 1986; pp. 24 e 103.
. 97
lsaac B. Singer, Un giorno di felicità, cit., p. 141. 98
Ibid. 99
Ivi, pp. 141-142. 100
Ivi, p.141. 101
Ivi, p.143. 102
Isaac B. Singer, Shosha [1978]; tr. di M. Biondi, Mondadori
1982, p. 27. 103
Camillo Sbarbarò, "Truciol
dispersi.' Scheiwiller 1986, p.62. Il “truciolo”
citato è del 1965. 104
Elsa Morante, Menzogna e sortilegio [1948], Einaudi 1975, p. 19. 105
Disordine e dolore precoce [1925], in Thomas Mann, Cane
e padrone. Disordine e dolore precoce. Mario e il mago,
tr. di L. Mazzucchetti e G. Zampa, Mondadori, Milano 1986, p. 176. 106
Ivi, p. 178. 107
Il piccolo Toni, in Giovanni Comisso, Il grande ozio,
Longanesi 1964, p. 192. 108
Henry Roth, Chiamalo sonno, cit., pp. 475-476. 109
Ivi p.46. 110
Ivi p.60-61 111
Ivi p.61. 112
La vacca [1947], in Giacomo Noventa, Il grande amore e
altri scritti. 1939-1948, Marsilio 1988, pp. 424-425. 113
Ibid. 114
Osip Mandel'štam, Poesie,
a c. di S. Vitale, Garzanti 1972, p. 87. 115
Alberto Savinio, Tragedia dell'infanzia [1945], Einaudi
1978, p. 99. 116
Ivi, p. 103. 117
Ibid. 118
Salman Rushdie, I figli della mezzanotte [1980], tr. di E.
Capriolo, Garzanti 1984, p. 284. 119
Ivi, p. 285. 120
Ivi, p. 255. 121
Joao Guimaraes Rosa, Grande Sertao, cit., p. 23. 122
EIsa Morante, Il mondo salvato dai ragazzini [1968],
Einaudi 1975, p. 14. 123
Ivi, p. 16. 124
Il figlio [1928], in Horacio Quiroga, Il deserto e altri
racconti, tr. di C. Rojas Miguel e M. L. Ferrario, Mondadori
1990, p. 193. 125
Ivi p.195 126
Ivi,p. 197. 127
Ivi, p. 198. 128
Stig Dagerman, Uccidere un bambino [1948], tr. di M.
Gabrieli, in "Linea d'ombra", anno VII, n. 39, '
giugno 1989, p. 45. Ora in S. Dagerman, Il viaggiatore, tr.
di G. Tozzetti, Iperborea 1991. 129
S. Dagerman, op. cit., p. 46. 130
Ibid. 131
Joao Guimaraes Rosa, Miguilim, cit., pp. 94-100. 132
Ivi, p. 101. 133
Ivi, p, 105. 134
EIsa Morante, Il mondo salvato dai ragazzini, cit., pp.
127-128. 135
Ivi, passim. 136
EIsa Morante, Aracoeli, Einaudi 1982, pp. 87-94. 137
I poeti di sette anni [1871], in Arthur Rimbaud, Opere,
a c. di L. Margoni, Feltrinelli 1971, pp. 93-95. 138
Elsa Morante, Pro o contro la bomba atomica e altri scritti,
Adelphi 1987. 139
Paul Celan, Poesie, tr. di M. Kahn e M. Bagnasco, Mondadori
1976, p. 101. 140
L'osteria [primi anni '40], in Silvio D'Arzo, Nostro
lunedì, Vallecchi 1960, p. 174. 141
Elsa Morante, Il mondo salvato dai ragazzini, cit., p.213. 142 Joao Guimaraes Rosa, [1956], Una storia d'amore, tr. di E. Bizzarri, Feltrinelli 1989, p. 26. |