Da Elogio delle azioni spregevoli ed. l'ancora del mediterraneo 2004 |
Il
mondo era grande. Ma
tutto era ancora più grande quando
si ascoltava una cosa raccontata. Joao
Guimaraes Rosa confessione,
come una premessa Arrivato
a questo punto, non avendo più niente da perdere, potrei anche
confessare di averlo fatto in tutte le posizioni, in ogni luogo, a
qualunque ora del giorno e della notte. «Solo o con altri?», mi
chiedevano sempre. Con altri, reverendo, con altri, sempre e solo
con altri, dico con sicurezza. Sì, sempre con altri, ripeto
convinto. Anche quando qualche osservatore superficiale avrebbe
potuto credere che fossi solo, lo facevo e lo faccio con altri.
Con donne, con ragazze, con bambine, con vecchie. Con uomini, e
ragazzi, e bambini, e vecchi. Con morti. Con animali. Con
fantasmi. Con vittime. Con carnefici. Con uno, con due, con sette,
con sedici, con duecentotrenta, con mille e una, con sei milioni.
Con partner di una vita, quintessenza d'amore; con lampi di
passaggio, con ombre di passaggio, trastulli d'un istante. Con
ogni tipo di lingua. A prescindere dalle dimensioni. Persino con i
luoghi, l'ho fatto. E soprattutto, forse, con i suoni. E l'ho
fatto e lo faccio solo perché mi piace, perché mi piace tanto. Certo,
il piacere è diverso ogni volta, ma l'ho sempre chiamato e sempre
lo chiamo piacere. Che si rida o si pianga, ci si rilassi oppure
ci si tenda, si scenda negli abissi o si voli e trasvoli per elisi
ed empirei: perché aziona sempre un forte sentire. Non
voglio andare oltre, per pudore. Inoltre non pretendo certo di
essere esemplare, ben sapendo quanto vizioso sia e, se non altro a
causa della cronologia, passando io per colto o acculturato. Però
vedo mio figlio, vedo i miei alunni, puri e cronologicamente ai
primordi, e vedo che anche loro lo fanno così. Con un forte
sentire. Lo diceva anche Kafka: Non si farà mai capire - per esempio - ad un ragazzo il quale alla sera è immerso nella lettura di una bella storia avvincente, non si riuscirà mai a fargli capire con una dimostrazione che si riferisca a lui solo che deve interrompere la lettura e andare a letto. E
non solo. Lasciando appunto perdere me, se guardo i puri e
primordiali vedo che quelle immersioni sono totali, senza confini
tra il cosiddetto corpo e la cosiddetta mente. Lo fanno coricati,
seduti, in piedi, stravaccati, tenendosi per mano, ridendo forte,
serissimi, compunti, sereni, trasognati, deglutendo, tirando su
con il naso; e quando racconto o leggo per loro si aggrappano alla
voce e narrano del loro cammina cammina con i bagliori degli
occhi, il pallore, il trasalire, il trattenere il respiro, i
sospiri. Loro, i puri e primordiali, fanno questo; diversi adulti
che mi ascoltano in scuole o biblioteche mi chiedono invece dove
ho studiato recitazione. Quel che penso non importa; quel che
rispondo loro sono parole di Martin Buber, da l racconti dei
Chassidim: A un rabbi, il cui nonno era stato discepolo del Baal-shem, fu chiesto di raccontare una storia. «Una storia», disse egli, «va raccontata in modo che sia essa stessa un aiuto». E raccontò: «Mio nonno era storpio. Una volta gli chiesero di raccontare una storia del suo maestro. Allora raccontò come il santo Baal-shem solesse saltellare e danzare mentre pregava. Mio nonno si alzò e raccontò, e il racconto lo trasportò tanto che ebbe bisogno di mostrare saltellando e danzando come facesse il maestro. Da quel momento guarì. Così vanno raccontate le storie». Il
fatto è che sì, una storia va eseguita, avendo o no la partitura
in mano. Però non c'è bisogno di avere una voce affascinante
come quella di Stevenson o di Dylan Thomas, né di essere
Elisabeth Schwarzkopf o Dietrich Fischer-Dieskau (o Carmelo Bene);
c'è bisogno soltanto di sapere che compenetrarsi dà più forza e
più vita, più piacere. Il quale diverrebbe un ronzio soporifero
qualora non coesistessero carezze lievi e carezze vigorose, il
donare e il ricevere, lo sfiorare e il premere, l'aprirsi e
l'aprire, il sussurro e il canto. E
poi, come ci sono cattedrali che cantano da sole e colmerebbero di
un'eco armoniosa anche la più orrenda bestemmia, così ci sono
storie che cantano da sole, voci stagliate vive per la voce. Prova
ad abbracciare le storie di Giambattista Basile, quelle di
Vittorio Imbriani, Pinocchio, quelle di Rudyard Kipling, di
Isaac Bashevis Singer... C'è
altro, ancora. Altro che può vedere chiunque, nei puri e
primordiali, nel loro divenire. Prima di pervenire alla capacità
di avere in moto apparentemente solo gli occhi, devono pronunciare
ad alta voce le parole conquistate; a mezza voce, poi, e anche
soltanto sul filo ondeggiante delle labbra. È lo stesso percorso
raccontato in un libro molto bello di Ivan Illich, Nella vigna
del testo: dalla lettura ad alta voce dei Greci alla ruminatio
monastica alla moderna lettura silenziosa. I monaci
"mangiavano" il testo, per fare assimilare al proprio
corpo il corpo della scrittura. E, come racconta Alberto Manguel, nella società ebraica medievale, per esempio, l'apprendimento della lettura era oggetto di un rituale esplicitamente celebrato. Nella festa del Shavu6t, il giorno in cui Mosè ricevette la Torah dalle mani di Dio, il bambino che doveva essere iniziato veniva avvolto in uno scialle da preghiera e condotto al maestro dal padre. Il maestro faceva sedere il bambino sulle sue ginocchia e gli mostrava una lavagna su cui erano scritti l'alfabeto ebraico, un brano delle Scritture e la frase «Possa la Torah essere la tua occupazione». Il maestro leggeva ad alta voce ogni parola e il bambino la ripeteva. Poi la lavagna veniva spalmata di miele e il bambino lo leccava, affinché il suo corpo assimilasse le parole sacre. Si usava anche scrivere versetti della Bibbia su uova sode e su dolci al miele, che il bambino poteva mangiare dopo aver letto quelle frasi al maestro. Qualcosa
di più, dunque, di quel che diceva Italo Calvino
nell'introduzione all'edizione del 1964 de Il sentiero dei nidi
di ragno a proposito del fatto che «in gioventù ogni libro
nuovo che si legge è come un nuovo occhio che si apre e modifica
la vista degli altri occhi o libri-occhi che si avevano prima».
È vero, non solo occhio però, direi, come attestano i puri e
primordiali, per i quali è tutto il cosiddetto corpo a essere
coinvolto. Uno
dei miei più autentici maestri è un individuo il cui nome non
posso fare perché l'ho serenamente dimenticato e i cui connotati
non voglio riferire perché sono già anche troppo astiosamente
vivi nella mia memoria. Dirò soltanto che da lui ho appreso
un'importante verità e quindi nutro nei suoi confronti una
riconoscenza devotamente rancorosa. Qualche
anno fa, in un insopportabilmente afoso giorno di giugno milanese,
l'Esimio inchiodò per un intero pomeriggio sulle inenarrabili
panche di legno di un'aula di scuola - obbligatoriamente, affinché
s'aggiornassero - una cinquantina di meschini. C'ero anch'io.
Ovviamente egli non era responsabile né del giugno né delle
panche né delle zanzare; però, nonostante sia forse poco
pertinente il parlare di responsabilità a proposito di un
individuo totalmente privo di senno, mi sento di ritenerlo
responsabile di quel che fece: parlò per ore, aggiornandoci a
vapore - fuoco lento e sale pochissimo - sull'educazione motoria,
sulla sua incomparabile bellezza, sul corpo, sul bisogno di moto,
sull'assurdità di trascurare la corporeità e le sue
imprescindibili istanze. I
corpi stremati dei meschini, pur essendo nel frattempo riusciti ad
abbattere un numero enorme di unità dell'aviazione zanzarica,
nulla poterono contro l'incontenibile Esimio. Dico questo per
senso civico, perché è importante sapere che è molto probabile
che egli ancora oggi si aggiri e volteggi in quei tregendeschi
gironi da cui si dipartono gli aggiornatori. La
ragione per cui ho voluto qui rendergli omaggio è che m'ha
insegnato questa importante verità: non si fa così.
E allora qui, sulla base di questo grande insegnamento e
volendo io diffondermi su come e quanto e perché imprescindibili
siano il raccontare, e il leggere, e le storie, non posso fare
altro che raccontare una storia. Questa nasce in un libro molto
bello del narratore basco Bernardo Atxaga, Obabakoak, in
cui si racconta, tra mille e una storia, di quella volta in cui mi
recai a Obaba, a casa di un premurosamente affettuoso zio. E lì
passavo ore e ore a leggere. «Perché
leggi tanti libri per bambini?», mi chiese una volta mio zio. «Pensi
di scrivere un saggio sulla letteratura infantile?». «No, non è
per questo», gli risposi, «li leggo perché mi piacciono. Sul
serio, zio, i libri per bambini sono fantastici». «Davvero?» si
meravigliò lui. «Per esempio, questo che sto leggendo ora», e
cominciai a raccontargli la storia, divertito, ridendo
apertamente. Ma mi interruppi di colpo. E questo perché vedevo
lacrime negli occhi di mio zio. Lo
zio era molto preoccupato vedendo questo nipote, ben adulto, che
continuava a leggere libri per bambini e si divertiva e rideva. Ma, nipote, lascia ora quel libro e leggi gli articoli del giornale, mi pregava lui. E dato che voglio molto bene allo zio, mi sforzavo di assecondarlo. Ma invano. Mi costava troppo capire quello che diceva il giornale, soprattutto le pagine dello sport, quelle erano le più difficili, nessun confronto con le pagine della politica. Lo
zio, naturalmente, non si diede per vinto, e provò e riprovò,
finché una volta si arrabbiò, e chiamò il mio amico, voglio
dire il medico, e tutti e due, dopo avermi afferrato, mi misero in
un'auto. E cammina cammina, alla fine arrivammo a una grande casa,
e lì c'era solo gente vestita di bianco. Tutto lì era bianco, da
far persino paura. E allora mi portarono in una stanza tutta
tappezzata di sughero e mio zio mi disse: Perdonami, nipote, ma è
per il tuo bene. Da
qui in avanti Atxaga è innocente, ma il fatto è che lo zio viene
a trovarmi tutti i giorni, e continua a insistere. Ormai però
riesco soltanto a dirgli quella frase: «Sul serio, zio, i libri
per bambini sono fantastici». Gli dico solamente questa frase
perché gli voglio bene, e quindi posso dirgli solo la più solare
verità; ma un po' lo faccio anche perché non voglio infierire,
non lo voglio umiliare schiacciandolo con prove e testimonianze. Mi
rimane soltanto uno scrupolo a proposito del "per
bambini", e domani lo chiarirò. Infatti non vorrei che lui
credesse che ritengo "fantastici" quei libri che a Peter
Bichsel regalavano le sue zie:
. Tutto un brulichio di topolini e orsetti, di scimmiette e pesciolini, e gli orsetti dormono obbedienti nei loro lettini e hanno delle bellissime animucce e fanno alle loro mammine degli scherzettini e poi tornano ancora tanto obbedienti. No,
a essere fantastici sono quei libri che sono "per
bambini" perché sono così belli che possono piacere a
tutti, adulti e bambini; quei libri che hanno un forte spessore
simbolico e parlano delle realtà interiori. E se allo zio,
sentendosi dire così, verranno in mente le fiabe e i racconti
mitologici, L'isola del tesoro e Pinocchio, Don
Chisciotte e Moby Dick, l'Odissea e i racconti di
Singer, Il giardino segreto, Huckleberry Finn, Il diavolo nella
bottiglia, Penny Wirton e sua madre, Lo cunto de li cunti, Harun e
il Mar delle Storie, Ci sono bambini a zig zag, L'ombra,
Il prigioniero nel Caucaso, David Copperfìeld, tanto meglio;
altrimenti gli fornirò l'elenco - il mio, beninteso - nonché il
suggerimento di costruirsene uno proprio. Ecco,
questo sì, voglio dirlo allo zio, ché smetta di pensare che
quelli che io leggo siano "libri per bambini": sono storie,
sono belle storie, e le leggo perché sono fantastiche,
sul serio. Il
resto continuo a pensarlo, affidandolo alle pareti di sughero. Sono
molto affezionato allo zio, e la preoccupazione maggiore è che
finisca prima o poi per parlarmi con la voce sottile e
piagnucolosa del signor Sengupta: Cosa
sono quelle storie? La vita non è un libro di favole e neanche
un negozio di scherzi. Tutta questa allegria non porta a niente di
buono. A cosa servono le storie che non sono neanche vere? Però
domani, quando lo zio ritornerà a trovarmi, avrò in mano un
libro di storie e gli dirò subito, ancora una volta, che sì, sul
serio, le storie per bambini sono fantastiche, e il leggerle e il
raccontarle sono la terra e il cielo delle attività più sensate
che si possano praticare nel tentativo di dare un senso al proprio
stare tra i flutti e gli anfratti e i fiati di questo nostro
grande sertao. E aggiungerò magari una postilla, a
proposito di quel "per bambini". La aggiungerò con
serenità, giacché lo zio non potrà certo pensare, trattandosi
di parole non mie, che io sotto sotto voglia scrivere un saggio
sulla cosiddetta letteratura infantile. Sono parole di Antonella
Anedda, prese da un suo articolo bellissimo, in cui parlava delle
storie di Giacoma Limentani e delle Storie per bambini di
Singer: Un testo di meravigliosa intelligenza e purezza che sembra fatto di nulla, come quei giocattoli di carta che volano al primo soffio, e invece racchiude pietre di grande sapienza. [...] Per bambini nel senso di "degno della loro intelligenza" è quello spazio della mente e della scrittura in cui riescono a incontrarsi difesa e libertà, custodia del passato e desiderio di trasformazione. Poi
canterò - allo zio o alle pareti di sughero, poco importa - con
l'adorato Guimaraes Rosa: «Il mondo era grande. Ma tutto era
ancora più grande quando si ascoltava una cosa raccontata». ennesimo
feticcio Ormai
è chiuso, il secolo. E ne ha visti cadere, di miti e di mode, di
fasti e di gesti, di ruoli e di voci, che magari a loro tempo
sembravano eterni. Eppure qualche cosa, e non delle migliori,
sembra piuttosto intenzionata a sopravvivergli. Più d'una, ma qui
voglio dirne una sola. Proprio
nel 1900, quando il secolo nasceva, Rainer Maria Rilke scriveva le
Storie del buon Dio, e in una aveva messo un maestro che diceva, aggiustandosi di continuo gli occhiali sul naso: «lo non so chi abbia raccontato questa storia ai bambini. Ma ha fatto, comunque, malissimo a sovraccaricare e a tendere la loro fantasia con simili mirabolanti invenzioni. Si tratta d'una specie di fiaba». Questo
nel 1900. Oggi, quando un secolo si chiude e uno nuovo si apre, è
ancora così. Largamente così. Certo, con vari distinguo e varie
eccezioni, però largamente così. Tra i tanti di oggi che sono
così, alcuni lo sono per perfidia e paura; altri invece lo sono
con un bell'animo lieto tutto impregnato dell'ultimo culto - ch'è
un modo, comunque, di avere paura. Da riviste, convegni, università,
case editrici, sedi di partito, sindacati, associazioni di
categoria, si strilla con concitazione: «Basta con l'educazione!
Primato dell'istruzione! Viva il bambino cognitivo!». Qualcuno è
in buona fede, giusto perché s'è accorto che i vecchi programmi
della scuola elementare parlavano di qualcosa che proprio non
esiste: il bambino tutto intuizione, fantasia, sentimento. Altri
in fede non altrettanto buona. A mancare è invece chi abbia il
coraggio di accorgersi e dire che si tratta di un altro prodotto
del fertile ventre dell'impero; eppure non sono pochi coloro che
dovrebbero sapere - ma forse aveva davvero ragione Pier Paolo
Pasolini nel suo Gennariello quando parlava della «invincibile
ansia di conformismo». Il
segno è lo stesso che caratterizzava l'idea del bambino tutto
intuizione fantasia sentimento: schematizzazione riduttiva, nel
migliore dei casi; ideologia, falsa coscienza, comunque. Ma i
bambini, per loro fortuna - e per quella di tutti - sono un po' più
variegati, e dentro questi schemi non ci stanno. Forse ci sta il
Bambino, ma i bambini veri no, perché essi sono fatti anche di
fantasia, ragione, riflessione, sentimento, corpo, passioni. E
tutti in misura diversa, perché intervengono in loro - così è
per tutti - mille cose. E ci sono quindi bambini ricchi e bambini
poveri; bambini assediati e bambini abbandonati; quelli che hanno
la colf e quelli che hanno l'assistente sociale; alcuni hanno dei
fratelli, altri dei televisori, altri fame, altri la puzza sotto
il naso. E così ci sono bambini tristi, allegri, noiosi,
antipatici, saggi, saccenti, arguti, crudeli, teneri, costruiti,
affettuosi, spontanei, ricci, estroversi, fantasiosi... - ognuno
può proseguire, basta guardarsi intorno. La
rivendicazione "tecnicistica" a me pare una spia
significativa di una crisi e di un vuoto; ma la necessità di fare
fronte a un vuoto non dovrebbe portare semplicemente a cercare di
coprire il buco, quanto piuttosto a cercare di trovare un rimedio
vero, di riempire il vuoto con il quanto di meglio - il meglio di
sé, della propria storia. E quindi innanzitutto con e proprie
passioni e le proprie storie. Succede invece che, in assenza di un
progetto sociale ed esistenziale, si mettano pezze, e magari anche
di raffinata eleganza, di suggestiva forbitezza, scientificamente
(?) fondate. Allettanti, quindi, ma pezze, nient'altro che pezze;
che puzzano, quindi, in ogni caso, d'ansia di conformismo, d'ansia
di potere e consenso. Nelle
Storie del buon Dio la "dimensione pedagogica" è
insistita: Rilke le dedicò alla pedagogista Ellen Key; contengono
diversi bambini; riferiscono a più riprese che i bambini quelle
stesse storie le hanno risapute, trasmesse, capite, apprezzate,
cambiate, amate, vissute; avevano come sottotitolo «Ai grandi
perché le raccontino ai bambini». Fabrizia Ramondino,
nell'introduzione all'edizione Tea del 1989, interrogandosi sul
senso di quel sottotitolo scriveva: Alla
luce anche delle numerose critiche di Rilke alla scuola e alla
pedagogia del suo tempo (e, a mio avviso, del nostro), io lo
intendo così: solo i grandi che hanno mantenuto viva in sé la
rivelazione di Dio, che come tutti i bambini hanno ricevuto
nell'infanzia, anche se non sapevano che era lui, saranno in grado
di raccontare storie ai bambini, cioè di aiutarli a crescere; e
mantenere viva in sé questa rivelazione altro non significa che
disseppellire il bambino che è in loro. Raccontare
storie ai bambini, cioè aiutarli a crescere, aiutarli a
imparare a vivere. chiamare
amore, dolore, Dio - ognuno ha la propria storia -: non è il nome
che conta, quel che è essenziale è che la rivelazione ci sia e
sia mantenuta viva e alimentata: con passione, con disponibilità
a stupirsi e a rinnovare lo stupore. Si
oscilla spesso - maestri, genitori - tra due modi di porsi in
rapporto ai bambini. Da una parte sta la schiera dei burrosi
che, in un'orgia di diminutivi e leziosaggini, bamboleggiano
tristemente e ridicolmente e comprimono i bambini in un preteso
"mondo dell'infanzia" intollerabilmente falso;
dall'altra sta l'armata dei seriosi pontefici, torrenziali e cupi
elargitori di sentenze che non sanno vedere altro che sé - un sé
imperiale, invasore, cui l'altro deve solo assoggettarsi. Eppure
l'infanzia è un tempo non eludibile della vita di ogni uomo e
come tale dovrebbe essere considerata. E si dovrebbe assumere come
un'affermazione ben provvista di senso quella che solo
apparentemente è una sciocca tautologia: i bambini sono bambini. Questo,
però, avviene raramente: tra i due blocchi valoriali e
comportamentali costituiti da pigrizia-cinismo-razzismo, da una
parte, e conoscenza-solidarietà-apertura dall'altra, è oggi
sempre il primo a prevalere. Eppure, davvero, i bambini sono
bambini e nient'altro. Non sono adulti; non sono piccoli adulti;
sono solo (solo?) esseri umani che percorrono un tempo specifico
del loro essere, camminando camminando, esseri umani. E questo
loro tempo specifico è un tempo in cui i confini tra quel che si
vuole e quel che si respinge sono davvero netti; e maggiori che in
ogni altro tempo sono la permeabilità e la disponibilità, grandi
almeno quanto grande è la severità nel giudicare. Chi fosse
disposto ad accantonare pregiudizi, cecità e intenti
colonialistici vedrebbe che i bambini sono tutt'altro che
impermeabili e impenetrabili; si potrebbe anzi dire che siano in
generale piuttosto spalancati e spugnosi, pronti a lasciarsi
riempire e impregnare - con ingordigia, anche, avidi di tutto. Per
le "rivelazioni" è un tempo in cui la luna è nella
fase giusta. È dopo, dopo aver avuto che rigettano, che
espellono il superfluo e il flaccido, l'informe; è dopo che
lasciano cadere le aperture, che la spugna rinsecchisce e s'aggrinza. «Vivere
è una faccenda molto pericolosa», dice ripetutamente il jagunço
Riobaldo di Grande Sertiio di Joao Guimaraes Rosa; e lo
si scopre tutti, e non solo per gli inevitabili inciampi nelle
insidie, nei trappoloni biologici e storici, più e più volte.
Anche i bambini. Malattie, sbucciature, ferite, schiaffi,
sgridate, maniglie irraggiungibili, silenzi; e poi il buio, la
pioggia, l'arrivo di un fratello che si ruba la mamma; e la biglia
caduta nella grata, l'amico che non viene, le figurine perse, la
paura, le strade impraticabili, minacce di vicini, amici che ti
"staccano la pace", parole inascoltate, solitudini,
complicità negate. La congiura di natura e cultura comincia molto
presto e non si ferma più. E non c'è solo questo. Anche il
"bene", il gioioso del vivere, il "pieno" del
sentire e del godere contiene i suoi bei rischi, le sue insidie:
l'immane difficoltà di capire e sapere come vivere. Dal
ripetuto, insistito richiamo all'imparare a vivere, non è
difficile essere storditi e sentirsi spossati; si cerca allora
un'ombra, ci si mette a sedere, e si sente più nulla. Spesso,
quando un bambino piccolo cade, succede che da terra guardi verso
la madre restando un po' come in sospensione, quasi a cercare in
lei qualche indizio - di serenità o di ansia - sul quale modulare
il proprio andare oltre oppure soffermarsi, la ripresa o lo sfogo,
qualche spia che indichi se è il caso di chiedere attenzione e
conforto. È dopo questa esplorazione che decide di rialzarsi e
riprendere il gioco, la corsa, oppure di piangere per chiedere così
alla madre di andare ad aiutarlo. Molte volte, per fargli
riprendere forza e fiducia, è sufficiente uno sguardo, qualche
parola quieta, un fiato di rassicurazione; per avere efficacia,
però, sguardo parola e fiato devono essere mossi, non dati una
volta per sempre e ripetuti in un manifestarsi tanto prevedibile
quanto lontano. Soprattutto devono essere come modellati sulla
situazione non sulla condizione generalissima e quindi astratta
di "bambino caduto", bensì su quella lì, di quel
momento - e in questo modellarsi sulla situazione di un bambino
specifico è necessario che si metta nel conto anche l'eventuale
inespresso, desiderio o paura che sia. Insomma, quel che conta è
che sguardo parola e fiato siano dentro la vicenda, appartenenti
davvero al rapporto - di quel momento - tra il bambino e la madre,
tra bisogno e risposta al bisogno, tra disponibilità e
indisponibilità, tra sfida e abbandono. I
bambini non hanno solo orecchie o solo occhi; hanno anche antenne
(e possono anche esser prodigiose) che usano per captare e
filtrare, fagocitare o respingere quel che gli ronza intorno. E
se il bambino piccolo caduto osserva e spesso agisce proprio in
conseguenza di quello che ha potuto captare con gli occhi e con
le antenne, il bambino più grande non è da meno - le antenne si
perdono più tardi, quando ci si comincia a ritenere
"grandi". È in tutto il tempo dell'infanzia che le
antenne funzionano, e questa è una delle peculiarità; una tra le
preziose, perché consente di fare un pieno ben denso di
memoria, premunirsi di bagliori negli occhi, dotarsi di uno
scrigno cui attingere poi anche in futuro. Dice Yair W., in Che
tu sia per me il coltello: Almeno
una volta al giorno qualcuno solleva la testa dalla pila dei
libri e mi si avvicina. Dovresti vedere il suo sorriso mentre mi
mostra quello che aveva cercato per anni! Quasi sempre si tratta
di un libro che aveva letto durante l'infanzia, probabilmente
questa è la sola cosa in grado di accendere una scintilla negli
occhi della gente. E
Aljosa Karamazov nel Discorso presso la pietra che chiude
il romanzo di Dostoevskij: Sappiate
dunque che non c'è nulla di più alto, e forte, e sano, e utile
per la vostra vita avvenire, di qualche buon ricordo, specialmente
se recato con voi fin dai primi anni, dalla casa dei genitori.
Molto vi si parla della vostra educazione, ma uno di questi buoni
e santi ricordi, custodito sin dall'infanzia, è forse la migliore
delle educazioni. Se l'uomo può raccogliere molti di tali ricordi
e portarli con sé nella vita, egli è salvo per sempre. E
quand'anche un solo buon ricordo rimanesse con noi, nel nostro
cuore, anche quello potrebbe un giorno servire alla nostra
salvezza. Ma
qualora il captabile altro non sia che il calcolo meschino,
!'indifferenza cieca e preventiva, il trascinarsi snervato tra
malumori muti e strilli isterici, l'attingere allo scrigno sarà
poi solo una pena rinnovata, e sarà ingurgitata magari
contrabbandandosela come beatitudine. Dice un bambino di una delle
Storie del buon Dio di Rilke: E i nostri genitori come si comportano invece? Guardateli! Vanno intorno con i visi arcigni e imbronciati. Nulla va loro bene. Urlano. Strapazzano. E, nonostante ciò, eccoli lì, indifferenti a tutto. Indifferenti
a tutto, privi di passioni profonde, non sono soltanto molti
genitori. Per esempio, nelle scuole d'ogni ordine e grado
insegnanti così ce ne sono a legioni. E questo è un dato
piuttosto disperante, perché quello dell'insegnante è un
mestiere che offre molti spazi per le "rivelazioni" - e
questo non ha nulla a che fare con la "missione", ma
molto con il fatto che sono in ballo persone, persone vive, che
hanno voglia di esistere davvero e lo dicono forte tutti i giorni.
A questo riguardo c'è invece molta reticenza. Ragioni e
responsabilità ce ne sono diverse: dello Stato, del sindacato,
dell'istituzione, della categoria, delle persone; tagli economici,
formazione inesistente, stipendi sconfortanti, boicottaggi
morali e professionali, parole vuote, dolori privati, burocrazia
mortale, ingerenze concordatarie, mentalità meschine, frustrazioni
sistematiche, opportunismi, campagne elettorali, falsi nemici,
bambini di plastica, misconoscimenti, latitanza dell'inventiva,
"sociale" asociale, assenza di progetti, genitori
miasmatici, pavidità di generi svariati... Già questo non è
poco, e non è tutto. E certo, pur non essendo tutto, è più che
sufficiente a scoraggiare; ma siamo qui, e questo essere qui dovrà
pur darsi un senso, sennò sarà insensato anche il fatto di
esserci. E allora direi che qualcosa si potrebbe cercare di farla
fin da subito: oltre che tenere il fiato sul collo di qualunque
ministro, e magari piantarci anche i denti, darsi una piattaforma
- nel senso sindacale e nel senso di spazio da cui spiccare il
volo. Una piattaforma donchisciottesca, da perseguire e praticare
donchisciottescamente, che si ricava dal Gennanello di
Pasolini: negli insegnamenti che ti impartirò, non c'è il minimo dubbio, io ti sospingerò a tutte le sconsacrazioni possibili, alla mancanza di ogni rispetto per ogni sentimento istituito. Tuttavia il fondo del mio insegnamento consisterà nel convincerti a non temere la sacralità e i sentimenti, di cui il laicismo consumistico ha privato gli uomini trasformandoli in brutti e stupidi automi adoratori di feticci. Non
sono qui a strillare reattivamente, o missionariamente, "per
l'educazione, contro l'istruzione"; voglio solo dire che il
"bambino cognitivo" rischia di non essere altro che un
nuovo feticcio. Adorarlo? No, grazie, non è il caso. Istruzione
ce ne vuole tanta, ai bambini è giusto fare apprendere molto, e
facendolo si risponde positivamente a un loro bisogno, a una loro
richiesta; ma è necessario assumerli interi, perché possano
cominciare a essere sapienti e non saccenti, perché possano
cominciare a essere artefici appassionati del loro stare nel vasto
mondo e non artifici appassiti ancor prima di fiorire, perché
possano capire e sentire il proprio sentire e il proprio capire,
perché possano cominciare a capire e sentire che il proprio
sapere può portare non soltanto a consentire ma anche a
divergere; perché possano cominciare a capire che il sapere non
è qualcosa di cui rendere conto a qualcuno, bensì qualcosa di
essenziale per vivere meglio. Come
il bambino piccolo caduto, i bambini si guardano attorno. Si
guardano attorno e imparano, dai loro modelli. E possono imparare
che si può ascoltare; che si può parlare; che si può leggere;
che si può scrivere; che si possono avere e comunicare
sensazioni convincimenti e dubbi; che si può spaccare in quattro
un capello ma si può anche - ed è più divertente - essere
almeno in due o, meglio ancora, in quattro, ognuno con almeno
quattro diversi capelli da spaccare - in quattro, e poi in
quattro, e poi in quattro - e poi da intrecciare insieme; che un
punto di vista non è mai un punto ma almeno una montagna; che
si può capitare a Lilliput ma anche a Brobdingnag; che il vasto
mondo è grande, ma tutto è ancora più grande ad ascoltare una
cosa raccontata; che immaginare e cambiare appartengono alle
possibilità umane e sono cose magiche proprio perché possono
avvenire davvero; che... mille e un'altra cosa. L'essenziale è
che possano vedere qualcuno che ascolta, parla, legge, scrive,
dubita, riflette, si emoziona, scava e non si accontenta e non si
basta, e scruta e scruta, e racconta e racconta, e cammina e
cammina. E tutto dentro la situazione, quella lì, con tenerezza e
furia, con passione. Bisogna
fare qualcosa, contro il maestro di cui parlava Rilke, contro le
sue tante reincarnazioni dei nostri tempi perfide o spaventate
che siano. Bisogna contrastare, contrapporre. E si può
contrapporgli, per esempio, una donna; una donna della già
ricordata Storia d'amore di Guimaraes Rosa: Gianna
Xaviel si entusiasmava tutta. Una capacità, che nessuno regolava,
s'impadroniva di lei, in certi momenti. Il re, il vecchio re, si
teneva la barba, le mani piene di brillanti di oro di anelli; il
principe amava la fanciulla, recitava affettuosità, esclamava e
sospirava; la regina filava alla rocca e diceva il rosario; il taf-e-zaf
delle spade dei guerrieri indiavolava nell'aria lì davanti:
la gente vedeva il brandire delle spade, che tinnivano,
sfavillavano; sentiva tutti cantare le loro battute, il suono
della voce dell'uno e dell’altro. Gianna Xaviel diventava
un'altra. AI chiarore della lanterna, c'erano momenti in cui lei
era vestita con abiti sontuosi, il volto mutava, ingentiliva i
lineamenti, anticipava le bellezze, diventava sembiante. Uno si
distraeva, aereo dal contenibile della figura di lei, di quella -
che era una bifolca di riva di fiume, grossa, scura, con una
salienza di gozzo nel collo, donna piazzata nei suoi quarant'anni,
nessuno di meno, senza educazione. Ma che ardeva ardore, si
trasformava. Gli occhi prendevano di più, emettevano lucori cupi,
aggredivano. [...] Gianna Xaviel dimostrava una forza per dentro,
un'inclinazione selvaggia. Quando lei cominciava a raccontare le
storie, al chiarore della lucerna, la gente riceveva un
imbalordimento di illusione, quella ringiovanendosi in bellezza,
di colpo, una diavoleria di bellezza. [...] Cominciava a
raccontare storie - produceva uno strano incanto. Uno arrivava ad
eccitarsi, a sentir calore di andare con lei, di abbracciarla. A
fronte di questo appassionarsi, forse, si può trarre energia per
un nuovo entusiasmo, un nuovo appassionarsi, per dare vita e
nutrimento adeguato alle urgenze interiori. Diceva
qualcuno che la forza di un uomo (e di una società) consiste
tanto nella capacità di inventare e progettare quanto in quella
di coltivarsi la memoria: e le storie altro non sono che un
crogiuolo di questa forza, perché in esse il prefigurato e il
sedimentato si saldano e si fondono, lasciando spazi ampi tanto ai
bisogni quanto ai desideri, e operando fra questi e quelli
commistioni e scambi ben più che significativi. E sono così, a
un tempo, il percorso e la meta, utili per attraversare tutto e
arrivare dovunque. “Anche questa è una storia?”, chiede a un
certo punto un personaggio di Rilke. “No” risposi. “È un
sentimento". “E si potrebbe comunicarlo, in qualche modo,
ai bambini?”. Riflettei. “Forse...”. “Ma come?”. “Per
mezzo di un'altra storia”». Quale
storia? E quali storie, in generale, per i bambini nostri? C'è
molto da dire in merito ma - come direbbe il Kipling «senza
trombe» delle Storie proprio così e di Puck delle
colline, e questo è già un riferimento, seppur parziale e
tendenzioso appunto, questa è un'altra storia. Note
ai due primi capitoli confessione,
come una premessa La
citazione di Franz Kafka si trova in Confessioni e immagini, trad.
it.
di Italo Alighiero Chiusano, Milano, Mondadori, 1960. Il
racconto di Martin Buber è contenuto in I racconti dei
Chassidim, trad. it. di Gabriella Bemporad, Milano,
Garzanti, 1979, pp. 3-4. Il
libro di Ivan Illich è Nella vigna del testo. Per una etologia
della lettura, trad. it. di Alessandro Serra e Donato
Barbone, Milano, Cortina, 1994. Si veda almeno anche Guglielmo
Cavallo e Roger Chartier (a cura di), Storia della lettura nel
mondo occidentale, Roma Bari, Laterza, 1995. Del
rituale relativo all'apprendimento della scrittura nella società
ebraica medievale parla Alberto Manguel in Una storia della
lettura, trad. it. di Gianni Guadalupi, Milano, Mondadori,
1997, p. 81. Il
romanzo di Italo Calvino si trova negli Oscar Mondadori ed è
contenuto nel primo volume dei Romanzi e racconti, a cura
di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Milano, Mondadori, 1991.
Il
racconto di Bernardo Atxaga è in Obabakoak. Storie, trad.
it. di Sonia Piloto di Castri, Torino, Einaudi, 1991, pp. 348-349. Dei
libri che gli regalavano le sue zie, Peter Bichsel parla nei saggi
raccolti in Al mondo ci sono più zie che lettori, trad.
it. di Chiara Allegra, Milano, Marcos y Marcos, 1989, p. 63. Il
torbido signor Sengupta si incontra in Salman Rushdie, Harun e
il mar delle storie, trad. it. di Ettore Capriolo, Milano,
Mondadori, 1991. Nel 2003 è uscita una nuova edizione del libro
negli Oscar Mondadori.
L'articolo di Antonella Anedda, uscito su «il manifesto»
del 14 dicembre 1995 con il titolo Le mille luci di Hanukkah.
Racconti, fìabe e leggende ebraiche, parla dei libri di
Giacoma Limentani, Gli uomini del Libro. Leggende ebraiche, Milano,
Adelphi, 1975; Milano, Feltrinelli, 1995, di Isaac Bashevis
Singer, Storie per bambini, 2 volumi, trad. it. di Riccardo
Duranti, Milano, Mondadori, 1995e 1996 e di Louis Ginzberg, Le
leggende degli ebrei. 1. Dalla creazione al diluvio, a
cura di Elena Loewenthal, Milano, Adelphi, 1995 (nel 1997 è
uscito il secondo volume: Da Abramo a Giacobbe; nel 1999 il
terzo: Giuseppe, i figli di Giacobbe, Giobbe; nel
2003 il quarto: Mosè in Egitto. Mosè
nel deserto). Le
parole di Joao Guimaraes Rosa si trovano in Una storia d'amore,
trad. it. di Edoardo Bizzarri, Milano, Feltrinelli, 1989, p.
26; questa storia appartiene al ciclo di sette romanzi usciti
precedentemente in
un unico volume, Corpo
di ballo, trad.
it. di Edoardo Bizzarri, Milano, Feltrinelli, 1964. L'edizione
originale di Corpo
de baile è
del 1956. ennesimo
feticcio Delle
Storie del
buon Dio di Rainer
Maria Rilke ho utilizzato l'edizione
Tea del 1989, nella traduzione di Vincenzo Errante, con una
prefazione di Fabrizia Ramondino. Il
"trattatello pedagogico" Gennariello
si trova
in Pier Paolo Pasolini,
Lettere luterane, Torino, Einaudi, 1976. Originariamente
uscì a puntate sul settimanale «Il Mondo» tra marzo e giugno
del 1975. Grande
Sertéìo, di
Joao Guimaraes Rosa, secondo libro della mia Bibbia
personale, è del 1963. Nella traduzione di Edoardo Bizzarri è
uscito nel 1970 presso Feltrinelli, che nel 1985 ne ha pubblicato
una seconda edizione e successivamente lo ha edito nella collana
economica Universale Feltrinelli. Yair
W. è il protagonista del romanzo di David Grossman, Che tu sia
per me il coltello, trad. it. di Alessandra Shomroni, Milano,
Mondadori, 1999. La
citazione dal discorso di Aljosa è presa da Fedor Dostoevskij, I
fratelli Karamazov, trad.
it. di Alfredo Polledro, Milano, Corticelli,
1950, p. 825; del romanzo di Dostoevskij esistono però ottime
edizioni recenti, anche economiche. Lilliput
e Brobdingnag sono le terre dei primi due viaggi di Gulliver: a
Lilliput è gigantesco tra abitanti piccolissimi, a Brobdingnag
è minuscolo tra giganti. Vedi Jonathan Swift, I
viaggi di Gulliver, a
cura di Masolino
D'Amico, Milano, Mondadori, 1982,
nonché
la traduzione di Gianni Celati per Feltrinelli del 1997. Per
Una storia d'amore, di Guimaraes Rosa, vedi le note al
capitolo «Confessione, come una premessa». Le
Storie proprio così, di Rudyard Kipling, si trovano in I
libri della giungla e altri racconti di animali, trad. it.
di Ottavio Fatica, Torino, Einaudi, 1998; Puck delle colline, nella
traduzione di Umberto Pittola, in I libri della
giungla. Storie per
tutti, Milano,
Mursia, 1965; nel 2003, con il titolo Puck il folletto, ne
è stata pubblicata una nuova traduzione di Ottavio Fatica presso
Adelphi. |