I bambini del maestro Acheng In Cina il maestro è "il re dei bambini". Nella levità del romanzo, la serietà della "missione" che è poi semplicemente assunzione di responsabilità su Rosso Scuola marzo 1991 |
“I
pedagoghi e i
maestri di scuola, queste macchine nere e
malinconiche che rattristano l’orizzonte sereno della
prima fanciullezza...". Qualcosa da obiettare ci sarebbe, sull'effettiva serenità di questo tempo del vivere, ma qui, su
questo, ed almeno per ora, non mi soffermerò.
Mi limiterò soltanto ad accennarlo, accennando anche al fatto che
sarebbe perlomeno opportuno fare qualcosa perché quella serenità
non sia più solamente pretesa.
Molto meno, ma proprio molto molto, è invece possibile
obiettare circa "i pedagoghi e i maestri di scuola",
troppo spesso -
purtroppo -
macchie per
davvero, malinconiche e
nere. E per di più
con una aggravante: quelle parole Carlo
Lorenzini le mise dentro al suo primo libro firmate con lo
pseudonimo Collodi -
cioè dentro a Macchiette,
che usci nel 1879 -
ma vanno ancora
bene, ancora oggi. Qualche
tempo fa - non molto, e in ogni caso a ben più di
cento anni di distanza dalle parole di Collodi -
m'è capitato
di conoscere una bambina, figlia di conoscenti di Portoferraio, e
la bambina, alla mia evidentemente incauta affermazione circa il
mio mestiere di maestro, ha detto subito queste parole: "Ecco,
rovinata la serata". Memoria d'una macchia,
indubbiamente, e sconforto per un seppur limitato futuro
inevitabilmente riconoscibile come malinconico e nero. Certo,
ci sono differenze consistenti tra quel che poteva vedere Collodi
e ciò che balenò quella sera agli occhi della bambina elbana, ma
quello che alla fine è decisivo è che in ogni caso si trattava
di macchie.
Probabilmente c'è anche da mettere in conto, e non
secondariamente, una parte importante di atteggiamento necessariamente
oppositivo da parte dei bambini; oltre a questo però non si
può dimenticare come per i bambini l'insegnante sia un polo molto
forte di riferimento e di legame affettivo: comunque egli sia.
Si potrebbe allora forse dire che per i bambini l'insegnante -
nonostante il suo essere a seconda dei casi orco orroroso o fata
innamorante, strega spregevole o incantevole maga
- sia
in ogni caso davvero, cosi come viene definito in
Cina, il "re dei bambini". Non so quale sia la storia di
questa definizione cinese, ma mi sembra che possa comunque essere
assunta come buona, e buona in sé, perché l'ambito in cui si
colloca la connota sia come espressione evocativa di fiabesco sia
come definizione antonomastica di una condizione di potere.
L'insegnante con il potere
Questo può piacere oppure no, ma non c'è autocritica di ruolo
che tenga: da una parte i bambini recepiscono l'insegnante - nel
bene nel male - come una figura di potere pressoché assoluto,
dall'altra, al di là del recepito soggettivamente, nei loro
confronti altro non si fa che esercitarne, di potere. E non
necessariamente perché malintenzionati, ma per il semplice fatto
di esistere. Certo, anche tra gli insegnanti ci sono i
malintenzionati, questo è fuori di dubbio, ma il gioco di costoro
è fin troppo evidente, e per niente giocoso: ancora esistono,
infatti, anche qui tra noi, numerosi "maestri dello Yorkshire",
quelli di cui parlava Dickens nella prefazione del 1852 a Nicolas
Nickleby. "] maestri sono una classe di ignoranti e
truffatori, e quelli dello Yorkshire sono i peggiori e
stanno nel più basso scalino della graduatoria. Sono avidi e
indifferenti, e approfittano dell'idiozia dei genitori
oltre che dell'impotenza dei bambini. Sono esseri sordidi e brutali,
ai quali nessuno affiderebbe il proprio cavallo e il
proprio cane, eppure essi sono le pietre miliari di un
ordinamento, minato da una inconcepibile negligenza e da
un’ancor più deprecabile indifferenza".
.
Sì, "maestri dello Yorkshire" ne esistono ancora,
purtroppo, ma non è questo sicuramente il problema maggiore del
nostro universo pedagogico, se non per altro perché se ne è
ridotto il numero. Il problema vero sono gli altri; sono (siamo) i
"non-malintenzionati". Questo
prima di tutto perché non è sufficiente non avere cattive
intenzioni - non lo è mai, ma ancor meno lo è quando si pratica
una attività in cui si ha a che fare con persone, e meno ancora
lo è avendo a che fare con persone che vanno formandosi, con
autentica voglia di esserci e fare, di dire e sentire, di capire e
sapere, disponibili davvero all'incantamento e allo stupore.
Ma poi c'è un altro problema, più sottile e più grande, ed è
che Dickens evidenziava due nodi evidentemente sovratemporali,
riguardanti non solo i "maestri dello Yorkshire" ma
tutti noi, e forse soprattutto proprio i "non
malintenzionati": l'impotenza dei bambini e l'indifferenza.
Che non è solo degli insegnanti, ma tra i quali è talmente
diffusa da fare sospettare che sia quasi una voce del mansionario,
quasi una entità da elevare a valore, divenuta per molti una
bandiera, di volta in volta impudicamente esibita oppure malamente
camuffata sotto la sbrindellata tuta mimetica della
"professionalità".
Ansia
di conformismo
L'indifferenza
'però, come si può ben vedere guardando appena intorno, non è
peculiare degli insegnanti, bensì di tutti i cinici, di tutti gli
acquiescenti, di tutti i pervasi da quella che Pasolini chiamava
nelle Lettere luterane l' ''invincibile ansia di
conformismo". Qualcosa quindi caratteristica di bottegai e
taxisti, giornalisti e vigili, liberi professionisti
e servi loro; e quindi anche di madri e di padri -
dice un bambino
nelle Storie del buon Dio di Rilke: "E i nostri
genitori, come si comportano invece? Guardateli! Vanno intorno coi
visi arcigni e imbronciati. Nulla va loro bene. Urlano.
Strapazzano. E, nonostante ciò, eccoli lì, indifferenti a
tutto". E però, se l'indifferenza del lattaio al mondo e
alle sue sorti - e alle sorti di quei tanti mondi che sono
ognuno dei suoi disgraziati clienti -
può essere definita
come fastidiosamente sgradevole, quella di genitori e insegnanti
- di
coloro cioè che naturalmente e storicamente
dovrebbero esser li a contribuire, prima di tutto, a formare e
informare -è invece nient'altro che repulsivamente intollerabile.
Non voglio dire
che non ci siano ragioni che spieghino questo atteggiamento, né
che non ci siano situazioni o eventi che spingano forte ad
assumerlo: ce ne sono sicuramente di più delle pur molte che
ognuno che qui legga ben conosce; eppure, a mio parere, non ce n'è
una sola che giustifichi. Perché se, in questo strano lavoro che
è insegnare-educare-trasmettere cultura, un qualche senso esiste,
anche uno solo, è forse proprio quello di darsi in apertura, di
darsi denudandosi, di darsi incentivando desideri e stupori,
"donchisciotteschi e duri" (Pasolini), senza
rassegnazione. Se cosi fosse, e credo che lo sia, si tratterebbe
allora di prenderle in mano le ragioni che spingono ad
indifferenza e sconforto; prenderle in mano e pastrugnarle a
lungo, e guardare ben fissi dentro il fondo degli occhi tutti i
tanti orchi convenuti a formarle: delusioni storiche, dolori
personali, frustrazioni, misconoscimenti, burocrazia, economia,
ideologia (cioè falsa coscienza), e la stanchezza, e Cronos, e
quant'altro. No, non voglio negarle, quelle ragioni; e però il
non negarle mi sembra che sia solo un pozzo, necessario si ma non
più che un frammento. E allora a questo frammento mi sembra
sensato e necessario giustapporre qualcosa
- per
arrivare poi a contrapporla -
che talloni e
tormenti quelle indubitabili e infauste ragioni: un rivoltoso
rivendicare e buon senso e letizia, libertà e verità, gratuito
darsi e dirsi, e appassionato splendersi, giocarsi.
Senz'altro qualcuno penserà che sto riproponendo la
"missione"; chi voglia faccia pure, non m'arriva
l'accusa, soltanto
m'intristisce - nel
caso - la
poca fantasia. Perché
non di "missione" si tratta; si tratta piuttosto
semplicemente di assunzione di responsabilità - culturale e politica
-: perché siamo comunque coinvolti; e perché raccontare serve a
salvarsi la vita; e perché le parole sono pane e bevanda, e
giaciglio, e strumento di difesa; e perché, laddove inventiva e
memoria siano il sale ed il pepe dell'esistere, crescere e
cambiare è davvero possibile; e poi perché probabilmente il
mondo sarà solo perduto ma i "ragazzini" avrebbero
potuto - potrebbero? potranno? salvarlo.
E poi c'è un'altra cosa: c'è il fatto che diverse esperienze
nate e vissute all'ombra di qualcosa che non saprei bene che sia
ma che sicuramente possono definirsi di "nonindifferenza",
esistono e dimostrano solo che si può: penso a don Milani e la
scuola di Barbiana; penso a diverse esperienze liberatorie; penso
a maestre e maestn di scarso spettacolo e di acuminata onestà
che, fuori dai miti e dalle mode e dalle mistiche e dalle
infatuazioni e dalle etichette e dagli alibi fragili, camminano
camminano: e la strada percorsa non si chiama con nomi roboanti,
ma si chiama rispetto per l'infanzia, si chiama ascolto, si chiama
rifiuto di separare mezzi e fini, si chiama ricerca di fili di
senso. Ritrovare
il coraggio
Il bellissimo racconto di Acheng di cui in queste pagine si
pubblica un capitolo (Il re dei bambini, a cura di M.R.
Masci, Theoria, 1991), percorre questa strada, e leggerle a me
sembra che possa servire anche a ritrovare coraggio, a ripensare
che la dignità possa essere elemento portante di una pratica e
non già l'evanescente ombra di un malinconico sogno. Negli anni
della Rivoluzione Culturale il protagonista, un "giovane
istruito", viene mandato a lavorare in campagna. Quando gli
viene detto che l'indomani dovrà cominciare a insegnare nella
scuola di un villaggio, è ben preoccupato, non avendo alcuna
esperienza del genere e non riuscendo nemmeno ad immaginare da
dove si possa cominciare. E l'ansia non diminuisce di certo quando
si trova di fronte gli allievi: alcuni sono proprio piccoli, ad
altri comincia già a spuntare la barba; inoltre non hanno nemmeno
il previsto libro di testo, e l'insegnante stesso ne ha avuta una
copia consunta e sbrindellata, che comunque scopre ben presto
essere completamente inutile perché pieno soltanto di esortazioni
e raccontini a tesi, e quindi decide di non servirsene proprio.
Inizia così il tentativo di insegnare davvero a leggere e a
scrivere, a capire davvero, a darsi da fare a esprimersi, a
raccontare la propria vita. E questo tentativo, oltre a incontrare
la diffidenza della burocrazia che implacabile arriverà a
rimuovere l'insegnante dal suo incarico, incontra la difficoltà
dei ragazzi a credere che della propria vita si possa parlare
davvero, e che la scrittura possa essere uno strumento autentico e
vivo dell'esistere.
Il racconto di Acheng - di cui Theoria ha in precedenza pubblicato
altri due splendidi racconti, Il re degli scacchi e Il
re degli alberi - è importantissimo anche per l'insistita
sottolineatura del processo di acquisizione della scrittura: il
farsi non già di un orpello, bensì di una articolazione di sé
che si configura come qualcosa di essenziale, come una variante
ulteriore del proprio respiro. (E bisognerà poi rileggere Il
re dei bambini rileggendo le Cronache scolastiche di
Sciascia in Le parrocchie di Regalpetra, rileggendo Don
Milani, e rileggendo Tolstoj che si chiedeva se "i ragazzi di
campagna devono imparare da noi a scrivere o noi da loro" -
come lo straordinario racconto di Tolstoj, Tre morti, andrà
letto insieme a Il re degli alberi). Uno
degli scolari, Wang Fu, figlio di un uomo muto dalla forza
prodigiosa spesso deriso e beffeggiato, arriverà a
scrivere:-"Mio padre non può parlare, ma io capisco quello
che vuole dire. Nella brigata c'è gente che lo maltratta, io me
ne rendo conto. Per questo voglio studiare, per poter parlare per
lui". E Wang Fu si metterà anche a ricopiare il dizionario,
questo per lui mitico catalogo del mondo, per trovare e darsi una
voce e per fornirne una anche a chi ne sia stato privato da
qualunque moloch, biologico o storico. E
qui, credo, il nodo vero: nel cercare la voce. Ricominciando
sempre, senza rassegnazione; ricominciando sempre, rimettendosi in
gioco, senza arrivare mai, senza sedersi in pacificanti quanto
fasulli conseguimenti. Il
"re dei bambini" - che, dopo due ore di lezione, si
sente "come dopo una giornata passata a rivoltare con la
zappa un terreno montagnoso" - si cimenta a sua volta con la
scrittura. Scrive una canzone, e tutti ne sono molto contenti, ma
le parole non sono un granché, e allora sospira e dice che
"scrivere il testo di una canzone non era poi una cosa tanto
facile e che essere riuscito a scrivere cose chiare era già un
buon risultato". Cercarsi una voce, mettersi in gioco,
camminare camminare: "Ora che era toccato a me, provavo
simpatia per gli alunni e gradualmente mi convinsi che bisognava
insegnare anche con una certa allegria e vivacità". Ebbene
si, perché "ridere fa bene" -
risponde il
"re dei bambini" all'insegnante della classe accanto che
gli chiede cosa mai avessero da ridere tanto durante la lezione -
"ridere fa bene, li aiuterà ad affrontare le avversità
della vita", Perché queste esistono, nessuno può dubitarne,
ed esistono anche nella "prima fanciullezza" e ne
rattristano l'''orizzonte sereno". In una poesia Stephen
Spender parlava di bambini e diceva che "il tempo e lo spazio
per loro sono nebbiosi tuguri. / Cosi macchiano le carte con
tuguri grandi come il destino. / A meno che, direttore, maestro,
ispettore, visitatore, / questa carta non diventi la loro finestra
e queste finestre / che si richiudono sulla loro vita come
catacombe, / non si aprano Oh non si aprano finché non aprano la
città / e non guidino i bambini ai prati verdi e non facciano
correre il mondo / azzurro su sabbie d'oro, e non facciano correre
nude / le loro lingue sui libri, le foglie e i fogli bianchi e
verdi non aprano / la storia che è di loro il cui linguaggio è
il sole". Forse, ancora una volta - tra il nero di una macchia ed il bianco di un foglio che diventa finestra -, ancora una volta, l'alternativa non è soltanto di natura estetica. |