L'uomo che disegnava la cicogna Alberto Melis su La vita scolastica luglio 2005 |
C’era un racconto che Giuseppe Pontremoli, Giuseppe il contastorie, Giuseppe il maestro di scuola, amava citare spesso. Un racconto tratto da un romanzo di Karen Blixen, che narra di un uomo che viveva in una casa nei pressi di uno stagno. Una notte l’uomo venne risvegliato da un orribile rumore. E precipitatosi fuori prese a correre nel buio, inciampò mille volte e mille volte si risollevò sino a quando non capì che la causa del rumore era la rottura dell’argine dello stagno e che dalla falla acqua e pesci stavano smarrendosi nel terreno circostante. Riparata la falla l’uomo tornò a dormire. Ma quando l’indomani mattina si svegliò e si affacciò alla finestra – il racconto termina con questa rivelazione – cosa vide? Vide una cicogna. O per meglio dire la bellissima immagine di una cicogna tracciata sul terreno dal suo arrancare affannato e scomposto nel buio. “Questo buco dove mi muovo appena, questa fossa buia in cui giaccio, è forse il tallone di un uccello?”, si domandava Giuseppe insieme a Karen Blixen. “Quando il disegno della mia vita sarà completo, mio figlio vedrà una cicogna? Vedranno una cicogna i miei alunni? Una cicogna o quant’altro ovviamente, giacché quei contorni non sono necessariamente il solo tracciato possibile solcato dall’arrancare di ogni giorno, dal cercare di tamponare falle, dal cercare di scoprire da dove provengano le insidie che costellano il cammina cammina. Vedrà una cicogna mio figlio? Mi sembra che quel che potrebbe dare un senso alla mia vita sia proprio il fatto che egli possa vedere che io nel mio arrancare ho tracciato una cicogna”.1 Forse Giuseppe Pontremoli è andato via troppo prematuramente per poter scorgere il disegno che pure ha tracciato. E forse è ancora troppo presto anche per chi è rimasto riuscire a cogliere la complessità di questo disegno, rifuggendo nel contempo dalle tentazioni dell’agiografia o dall’iscrizione del suo pensiero in categorie date. Per la cronaca, ma anche per stabilire le esatte misure di questo pensiero, si potrebbe dire che il suo ultimo libro-testamento, l’Elogio delle azioni spregevoli, ha raccolto in un recente convegno svoltosi a Bologna gli esatti riconoscimenti che merita. Un Manifesto sulla lettura e sulla lettura nell’infanzia “che va ben oltre un qualsiasi Pennac” e che segna un profonda frattura con il passato. Eppure niente di quanto è il contenuto pulsante dell’Elogio, e di tutti gli altri suoi scritti, riuscirebbe a restituire il senso profondo del suo messaggio, se separato da tutto ciò che Giuseppe viveva non come obbligo ma come scelta. Giuseppe era un maestro di scuola. Ogni mattina, da tanti anni, entrava in un’aula dell’istituto Duca degli Abruzzi in via Cesari a Milano, e lì affrontava quella che considerava una straordinaria avventura. Un’avventura le cui linee tracciate a disegnare la sua personale cicogna, erano però anche linee di demarcazione, di scelta di campo. Giuseppe Pontremoli è stato un ostinato e finissimo costruttore di un’antipedagogia della libertà e della responsabilità. Un maestro che avvertiva nelle rivendicazioni tecnicistiche degli ultimi due decenni, nella divaricazione sottesa ma sempre più accentuata della dicotomia tra istruzione ed educazione, la spia significativa di una crisi e di un vuoto. E che alla triste spocchia di una “Principessa Pedagogia” incapace di “ridiscutere le immagini generiche e di comodo dell’infanzia”, spesso figlie uniche del “fertile ventre dell’Impero”, opponeva con forza “una piattaforma donchisciottesca, da perseguire e praticare donchiosciottescamente”: anche spaziando, da contastorie quale era, nei cieli dell’immaginazione e dell’utopia. Stare sempre e comunque dalla parte dei bambini, rispettare la loro sete di libertà, non “istruirli” ma accompagnarli per aiutarli a vivere e a crescere – “Crescere. Non: sopravvivere; non: trascinarsi; non: adeguarsi all’esserci consentendo comunque” -, implicava per Giuseppe il rigetto di ogni indifferenza, di ogni malinconica relativizzazione del ruolo dell’insegnante e l’assunzione intera di una responsabilità. Perché fare scuola, come scriveva Peter Bichsel, non può che essere “un compito globale”. E perché “agire la propria parte” – e qui Giuseppe riandava spesso all’esperienza di don Milani e del Pasolini di Versuta e delle Lettere Luterane -, significa prima di tutto respingere quella “invincibile ansia di conformismo” che pesa minacciosa sui percorsi esistenziali degli insegnanti, e ritrovare il coraggio di ricostituirsi quali compagni di strada e Maestri dei bambini. Il fatto poi che nel suo farsi compagno di strada e Maestro Giuseppe Pontremoli abbia anche tracciato un inedito approccio al sapere, basato essenzialmente sulla lettura di testi poetici e narrativi – poiché le storie “sono ciò che ci costituisce, quanto noi siamo venuti essendo sino al momento in cui ci troviamo a poter dire di essere” –, non è un dato né secondario né disgiunto dal suo pensiero educativo. Nel porre all’indice la frammentazione del sapere, le ansie classificatorie e il mito-feticcio della verificabilità oggettiva di ogni apprendimento, Giuseppe nutriva la stessa convinzione di Hannah Arendt e avvertiva che nella ricerca di conoscenza e di senso la ricchezza della “narrazione”, al contrario di ciò che avviene nei processi meramente informativi, sta nel fatto che essa “rivela il significato senza commettere l’errore di definirlo”. Ma anche in questo caso, avvertiva l’uomo che disegnava cicogne, “è necessario che dietro il raccontare, prima del raccontare, ci sia qualcosa di enorme, come il senso stesso della propria esistenza. Una passione vera, almeno, che muova e accompagni – che perseguiti, forse; che non lasci respiro al respiro affannoso, all’arrancare, e che aliti invece il proprio respiro ampio. Si può chiamare amore, dolore, Dio – ognuno ha la propria storia – non è il nome che conta, quel che è essenziale è che la rivelazione ci sia e sia mantenuta viva e alimentata: con passione, con disponibilità a stupirsi e a rinnovare lo stupore”. Alberto
Melis 1
Giuseppe Pontremoli, La vista della cicogna, in
“Primapersona” n.9, Archivio diaristico nazionale,
Provincia di Arezzo, dicembre 2002, p.52. |