I Maestri della lettura

Omaggio a Giuseppe Pontremoli

Alberto Melis su ècole giugno 2005

                                                                                                           

  

   Il passo di un libro, una figura retorica, una citazione dotta. Chiunque si cimenti a scrivere la cronaca di un convegno svoltosi nel corso di una fiera del libro, sa quali artifici del mestiere utilizzare perché l’incipit apra la strada al correre leggero delle parole sulla carta. Perché da subito, definito l’argomento e suggerito anche lo stile, si fondi o si rifondi il patto tra chi scrive e chi legge.

   Ebbene, questo articolo, che è la cronaca dell’incontro “I maestri della lettura. Omaggio a Giuseppe Pontremoli” svoltosi il 16 aprile scorso alla Fiera internazionale del libro per ragazzi di Bologna, non si aprirà con alcun artificio del mestiere. E probabilmente peccherà, se non di scarsa oggettività, dell’opportuno distacco. Perché il Giuseppe Pontremoli che è stato ricordato a Bologna era nostro amico. Era un maestro. Era uno di noi. E in virtù del sentimento che a lui ci legava, ci sia permesso allora scriverne con la fraternité che di noi e di lui ha fatto prima di tutto dei compagni di strada.

   Alla cronaca di questo incontro occorre ancora una premessa. Giuseppe, scomparso l’11 aprile dello scorso anno, aveva scritto un libro intitolato Elogio delle azioni spregevoli. Un saggio di grandissimo spessore sulla lettura, sull’arte e la passione di far scuola e sull’infanzia, che è andato però incontro a un parto tanto contrastato quanto estenuante. Perché come spesso capita a chi è incapace di mercanteggiare le proprie opere e il proprio pensiero – e Giuseppe ben lo sapeva avendo scritto spesso del catalogo delle difficoltà e del dolore in cui sono iscritte le vicende di tanti grandi scrittori -, il suo libro restò arenato a lungo nei pantani di un’editoria distratta e miope. Impantanato e rifiutato sino a pochi mesi prima della sua scomparsa, quando finalmente venne pubblicato dalle edizioni l’Ancora del Mediterraneo.

   Ecco allora che se una sensazione comune, o meglio un timore, ha attraversato il cuore e la mente degli amici presenti a Bologna insieme alla sua compagna Lia e a suo figlio Giacomo - gli amici che conoscevano la sua vitalità e la sua ironia ma anche le vicissitudini che hanno accompagnato la nascita dell’Elogio - questo timore era che di Giuseppe, del Giuseppe vero, si potesse cantare anche involontariamente niente più che un’agiografia.

   Un po’anche perché dal momento della sua scomparsa l’Elogio delle azioni spregevoli – insieme a un delizioso volume di poesie uscito postumo, La ballata per tutto l’anno e altri canti edito dalle Nuove edizioni romane –, ha raccolto a piene mani una vasta messe di riconoscimenti. E un po’perché ogni celebrazione porta con sé il rischio e il sapore acre dell’autoreferenziale riparazione dei torti.

   Così, per fortuna, non è stato.

   Promosso dal centro di Documentazione Biblioteche per Ragazzi della regione Sardegna, l’incontro coordinato da Teresa Porcella (docente di letteratura per l’infanzia all’università di Cagliari ma soprattutto innamorata cultrice dell’Elogio), si è mosso in una sala affollatissima sulle diverse tonalità di un ricordo cantato a più voci.

   Non tanto e non solo per il consistente numero dei relatori presenti (ai cui interventi si sono aggiunti i messaggi inviati da Pino Boero e da Matteo Faglia e le letture di brani dell’Elogio e della Ballata fatte da Beniamino Sidoti e Riccardo Diana), quanto perché la complessità del pensiero e dell’opera di Giuseppe, il suo spaziare tra letterature e visioni illuminate dell’infanzia, tra culture dell’educazione e teorie di trasmissione del sapere, non poteva non sollecitare una riflessione a enne dimensioni.

   A partire da quella offerta da Roberto Denti, scrittore, libraio e uno dei grandi padri della letteratura per ragazzi in Italia, che di Giuseppe ha cercato di restituire prima di tutto la dimensione di uomo libero, la cui essenziale laicità affondava però le radici in una appartenenza prima smarrita negli inciampi della storia e poi ritrovata, ovvero nella sua lontana discendenza ebraica, “in quella profonda cultura atavica della libertà di Mosè”.

   Se ancora di libertà, di poesia della libertà e insieme del senso di un’amicizia sedimentatasi sul comune amore per i libri hanno parlato i relatori intervenuti per presentare La ballata (il critico letterario Walter Fochesato, l’editrice Gabriella Armando, il grafico Claudio Saba e l’illustratrice Octavia Monaco), i due interventi che forse più degli altri hanno offerto un approccio organico alla complessità del pensiero e dell’opera di Giuseppe sono stati quelli di Fulvio Panzeri e di Celeste Grossi.

    E se il primo, critico letterario ma anche insegnante, ha motivato e sottolineato insieme a Teresa Porcella il valore e l’importanza dell’Elogio (un libro “atteso da anni”, della stessa valenza di “un testo fondamentale come Il lettore, il narrare”, le lezioni su lettura e letteratura tenute nel 1982 all’università di Francoforte da Peter Bichsel), a Celeste Grossi, direttrice di école, è spettato il compito di raccontare il compagno di strada, il maestro di scuola, il redattore della rubrica Leggere negli anni verdi.

   Giuseppe tra i fondatori della rivista. Giuseppe che creava percorsi narrativi nei boschi incantati delle storie. Giuseppe che oltre ad essere un grande saggista, un tenerissimo poeta e un grande narratore, è stato anche il finissimo costruttore di un’antipedagogia della libertà e della responsabilità.

   Fare una scelta di campo dalla parte dei bambini, rispettare la loro sete di libertà, non “istruirli” ma accompagnarli per aiutarli a crescere – “Crescere. Non: sopravvivere; non: trascinarsi; non: adeguarsi all’esserci consentendo comunque” -, richiedeva per lui il rigetto di ogni indifferenza, di ogni svuotamento meccanicistico del ruolo dell’insegnante e l’assunzione intera di una responsabilità. Perché era convinto che fare scuola, il riferimento è ancora a Peter Bichsel, non possa che essere “un compito globale”. E perché “agire la propria parte” – e qui Giuseppe richiamava spesso a sé l’esperienza di don Milani -, implica il rigetto di quella “invincibile ansia di conformismo” bollata con il marchio dell’infamia dal Pasolini delle Lettere Luterane, e insieme la volontà e il coraggio di ricostituirsi quali autentici Maestri dei bambini.

   Il fatto poi che nel suo farsi Maestro Giuseppe Pontremoli abbia anche tracciato un inedito approccio al sapere, basato essenzialmente sulla lettura di testi poetici e narrativi – poiché le storie “sono ciò che ci costituisce, quanto noi siamo venuti essendo sino al momento in cui ci troviamo a poter dire di essere”, come dichiarò nella sua ultima intervista concessa a Marino Sinibaldi per  Radio3 Fahrenheit –, non è un dato né secondario né disgiunto dal suo pensiero educativo.

   Nel porre all’indice la triste spocchia di una “Principessa Pedagogia” incapace di “ridiscutere le immagini generiche e di comodo dell’infanzia”, la sottesa ma sempre più invasiva dicotomia da istruzione ed educazione, la frammentazione del sapere, le ansie classificatorie e il mito-feticcio della verificabilità oggettiva di ogni apprendimento, Giuseppe nutriva la stessa convinzione di Hannah Arendt ed era convinto che nella ricerca di conoscenza e di senso la ricchezza della trasmissione di tipo “narrativo”, al contrario di ciò che avviene nei processi meramente informativi, sta nel fatto che essa “rivela il significato senza commettere l’errore di definirlo”.

   Certo, questo pensiero ricordato sul filo dell’emozione da Celeste Grossi, e con identica emozione accolto da chi l’ascoltava, ha in sé qualcosa del canto intrinsecamente anarchico del contastorie, qualcosa di volutamente e sapientemente donchisciottesco. Lo stesso Giuseppe ne dava d’altronde questa definizione: “una piattaforma donchisciottesca, da perseguire e praticare donchiosciottescamente”.

   Ma è anche di questo, di questa sua capacità di fare da apripista e da contastorie, di spaziare nei vasti cieli dell’immaginazione e dell’utopia, che tutti noi ancora oggi lo ringraziamo.

 

Shalom, Giuseppe, shalom alejchem.

 

Alberto Melis