Il gioco più bello del mondo Nascondino.
Collodi, Rabelais e Basile se ne sono dimenticati. Ma ci si può
consolare leggendone la descrizione di Bontempelli e di De Luca école |
Che
il Paese dei balocchi insidiosamente celasse un trappolone,
Pinocchio lo sospettava. Eppure avrebbe potuto addirittura
saperlo. E questo, se non già la sera, prima di partire, di
fronte alle fattezze e alle movenze dell'untuosamente ripugnante
Omino di Burro, almeno alla mattina, sul far dell'alba, quando,
felicemente arrivati, si poté finalmente vedere quel che c'era ma
soprattutto quello che non c'era. "Nelle strade, un'allegria,
un chiasso, uno strillio da levar di cervello! Branchi di monelli
da per tutto: chi giocava alle noci, chi alle piastrelle, chi alla
palla, chi andava in velocipede, chi sopra un cavallino di legno:
questi facevano a moscacieca, quegli altri si rincorrevano: altri,
vestiti da pagliacci, mangiavano la stoppa accesa: chi recitava,
chi cantava, chi faceva i salti mortali, chi si divertiva a
camminare colle mani in terra e colle gambe in aria: chi mandava
il cerchio, chi passeggiava vestito da generale coll'elmo di
foglio e lo squadrone di cartapesta: chi rideva, chi urlava, chi
chiamava, chi batteva le mani, chi fischiava, chi faceva il verso
alla gallina quando ha fatto l'ovo: insomma un tal pandemonio, un
tal passeraio, un tal baccano indiavolato, da doversi mettere il
cotone negli orecchi per non rimanere assorditi". Ma come?
Che posto è mai questo, se in tutto questo bendidio non c'è il
minimo spazio per quello che anche Massimo Bontempelli definirà
poi il gioco più bello del mondo? Povero
Pinocchio. Voglio pensare che sia rimasto frastornato. Oppure avrà
pen Ha
dell'incredibile che Collodi, Rabelais e Basile se ne siano
dimenticati, e allora bisognerà consolarsi con Bontempelli, che,
in Vita di Adria e i suoi figli, lo descrive così: "È
il più bel gioco del mondo. Non basta fare a nascondersi, non
basta fare a rincorrersi. È un gioco complicato e disteso come
una rete. Ecco: c'è un centro, punto di partenza, e si chiama
"la tana". Tirato a sorte il cacciatore, costui si mette
con la faccia bendata contro la tana, che sarà un albero, un
angolo di siepe, uno spigolo di muro; gli altri in punta di piedi
vanno a nascondersi, chi qua chi là, mentre colui conta, forte e
con un ritmo lento che è ben fissato dalla tradizione, fino a
trentuno. Alberi, siepi, prati, muri, aiuole; e non un vivente:
lui può credersi rimasto solo nel mondo. Guarda lo spazio come fa
l'avvoltoio, fiuta come un leopardo, Si
tratta di nascondino, ovviamente, e mi piace ronzarvi attorno
anche perché mi offre la possibilità di ricordare quel che ne
aveva scritto la scorsa estate su l'Unità, in una serie di
articoli sui giochi, Carmine De Luca, un amico prezioso che lo
scorso dicembre è rimasto incantato e ci ha lasciati soli. De
Luca scriveva che il gioco del nascondino probabilmente mima le
azioni della caccia dei primi uomini e deriva per graduale
"caduta" dal mondo adulto alla dimensione infantile. Nascondersi,
apparire e sparire, esserci e non esserci, guardare senza essere
veduti danno vita a un'ebbrezza che prelude a una corsa forsennata
dove l'anima prende corpo e il corpo si anima come per il cimento
definitivo, Cacciati
o cacciatori che si sia, si potrà anche sperare nel vento e che
sia saldo il terreno, ma è solo su se stessi che si potrà
contare. Per Achab non ci sarà un'altra volta. .
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