Il gioco più bello del mondo

Nascondino. Collodi, Rabelais e Basile se ne sono dimenticati. Ma ci si può consolare leggendone la descrizione di Bontempelli e di De Luca

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Che il Paese dei balocchi insidiosamente celasse un trappolone, Pinocchio lo sospettava. Eppure avrebbe potuto addirittura saperlo. E questo, se non già la sera, prima di partire, di fronte alle fattezze e alle movenze dell'untuosamente ripugnante Omino di Burro, almeno alla mattina, sul far dell'alba, quando, felicemente arrivati, si poté finalmente vedere quel che c'era ma soprattutto quello che non c'era. "Nelle strade, un'allegria, un chiasso, uno strillio da levar di cervello! Branchi di monelli da per tutto: chi giocava alle noci, chi alle piastrelle, chi alla palla, chi andava in velocipede, chi sopra un cavallino di legno: questi facevano a moscacieca, quegli altri si rincorrevano: altri, vestiti da pagliacci, mangiavano la stoppa accesa: chi recitava, chi cantava, chi faceva i salti mortali, chi si divertiva a camminare colle mani in terra e colle gambe in aria: chi mandava il cerchio, chi passeggiava vestito da generale coll'elmo di foglio e lo squadrone di cartapesta: chi rideva, chi urlava, chi chiamava, chi batteva le mani, chi fischiava, chi faceva il verso alla gallina quando ha fatto l'ovo: insomma un tal pandemonio, un tal passeraio, un tal baccano indiavolato, da doversi mettere il cotone negli orecchi per non rimanere assorditi". Ma come? Che posto è mai questo, se in tutto questo bendidio non c'è il minimo spazio per quello che anche Massimo Bontempelli definirà poi il gioco più bello del mondo?

Povero Pinocchio. Voglio pensare che sia rimasto frastornato. Oppure avrà pen sato che quell'assenza fosse tollerabile perché il più bello del mondo non compariva nemmeno tra i duecentodiciotto giochi di Gargantua che François Rabelais aveva puntigliosamente elencato nel ventiduesimo capitolo del Libro Primo di Gargantua e Pantagruele. O avrà pensato al Pentamerone di Giambattista Basile, là dove, in apertura della Giornata quarta, "fatto disegno di passare in qualche modo il tempo fino all'ora di menar le ganasce (...) cominciarono a discutere se dovessero giocare a segamattone, a capo o croce, a cucco e vento, a mazza e piuzo, alla marra, a pari e dispari, alla campana, alle norchie, ai castellucci, ad accostapalla, a coppia e solo, al tocco, alla palla o ai birilli".

Ha dell'incredibile che Collodi, Rabelais e Basile se ne siano dimenticati, e allora bisognerà consolarsi con Bontempelli, che, in Vita di Adria e i suoi figli, lo descrive così: "È il più bel gioco del mondo. Non basta fare a nascondersi, non basta fare a rincorrersi. È un gioco complicato e disteso come una rete. Ecco: c'è un centro, punto di partenza, e si chiama "la tana". Tirato a sorte il cacciatore, costui si mette con la faccia bendata contro la tana, che sarà un albero, un angolo di siepe, uno spigolo di muro; gli altri in punta di piedi vanno a nascondersi, chi qua chi là, mentre colui conta, forte e con un ritmo lento che è ben fissato dalla tradizione, fino a trentuno. Alberi, siepi, prati, muri, aiuole; e non un vivente: lui può credersi rimasto solo nel mondo. Guarda lo spazio come fa l'avvoltoio, fiuta come un leopardo, ondula come un serpente, poi si slancia. Di qualcuno dei suoi lepri sa già ove s'è appiattato: è straordinaria l'intuizione che i ragazzi hanno di questo. Ma non basta andare a scoprire il lepre nel nascondiglio. Qui il gioco si complica. Il cacciatore nella sua ricerca ha dovuto allontanarsi, ha fatto qualche svolta, non ha più la via e forse neppure la visuale diretta verso la tana. Ora il lepre scoperto balza e fugge, e se riesce a raggiungere lui la tana, il cacciatore è perduto, l'altro trionfa e può di là proclamar libero chi vuole, anche tutti: "Liberi tutti!" ".

Si tratta di nascondino, ovviamente, e mi piace ronzarvi attorno anche perché mi offre la possibilità di ricordare quel che ne aveva scritto la scorsa estate su l'Unità, in una serie di articoli sui giochi, Carmine De Luca, un amico prezioso che lo scorso dicembre è rimasto incantato e ci ha lasciati soli. De Luca scriveva che il gioco del nascondino probabilmente mima le azioni della caccia dei primi uomini e deriva per graduale "caduta" dal mondo adulto alla dimensione infantile.

Nascondersi, apparire e sparire, esserci e non esserci, guardare senza essere veduti danno vita a un'ebbrezza che prelude a una corsa forsennata dove l'anima prende corpo e il corpo si anima come per il cimento definitivo,

Cacciati o cacciatori che si sia, si potrà anche sperare nel vento e che sia saldo il terreno, ma è solo su se stessi che si potrà contare. Per Achab non ci sarà un'altra volta. .