Tasselli nel mosaico delle utopie concrete

Un importante libro da discutere, un libro che, senza sminuire Prometeo, non ignora le ragioni e la memoria di suo fratello Epimeteo

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Volevo scriverlo dieci anni fa, questo pezzo. Naturalmente, sarebbe stato diverso, molto diverso, perché allora avrei parlato di Manicomio primavera (Giunti 1989), un grande libro (da accostare all'altrettanto grande Fratelli, di Carmelo Samonà, edito da Einaudi nel 1978 e ora ripubblicato da Garzanti) in cui erano contenuti racconti di dolore e tenerezza struggentemente insostenibili e di non rassegnato dire dell'amore e della memoria e della bellezza e degli insidiosamente multiformi versanti del vivere. Un dire che a me piace collocare e cullare tra le diversissime lingue di due grandi amori: Joào Guimaràes Rosa, là dove dice che "il mondo era grande. Ma tutto era ancora più grande quando si ascoltava una cosa raccontata" e Vivian Lamarque, "una donna forte sì / ma con anche continue tentazioni di non esserlo".

Oggi non di racconti si tratta, bensì di pagine di diario, annotazioni, spunti di riflessione, articoli di giornale dettati da un evento un caso una legge un orrore una speranza. Pagine di taccuino, raccolte per percorsi e ritorni dentro un camminare camminare che di fiabesco parrebbe avere soltanto la minacciosa cupezza del bosco circostante. Eppure il fatto che questo Taccuino non sia, che so?, di un Testimone o di un Saggio o di un Veggente bensì di un'ultimista (e l'apostrofo è indispensabile e anzi doveroso, nonché ammonitorio) ne estende le connotazioni fiabesche, e ci suggerisce che là dove non si abbia paura di mettersi davvero in gioco e di fare egualmente i conti con le divinità dell'istinto e della ragione, della passione e della riflessione, la ricerca di un senso al proprio andare non può che fare perlomeno intravedere il proprio farsi. Perché anche nel più fitto dei boschi, anche nel punto più profondo della notte, anche nelle nebbie melmose dell'indifferenza e delle congiure congiunte di biologia e storia, ci possono essere, ci sono le pietre di Pollicino, e l'astuzia e la forza di Hansel e di Gretel, e la voce squillante di un bambino che non riesce a non denunciare e irridere la nudità dell'imperatore.

Sì, ci sono, e sono gesti semplici, parole anche brevi, parole come Shalom, Shalom acshav, pace subito, I care, mi riguarda. Parole come il pacato ma indefettibile Preferirei di no dello scrivano Bartleby. .

La forza non viene dalla ridondanza, e la forza del libro di Clara Sereni consiste proprio nella sua apparenza dimessa, nella sua apparente minorità, nella sua disorganicità, nel suo non atteggiarsi ad altro che tassello nel mosaico delle utopie concrete. Non che non interessi l'Utopia, ma "il cammino è incerto, bussole consolidate per orientarsi non ce ne sono; indistinguibili le classi, invisibili i poteri, unico dato certo è che gli "ultimi" restano fuori dalla Storia più che mai, benché probabilmente - più che mai numerosi. Il prezzo più alto lo pagano loro, e in cambio di niente".

La scelta di Clara Sereni non è certo una scelta di minoranza (e mi viene da pensare a un bellissimo libro di Hans Mayer edito da Garzanti, I diversi, i quali sono gli ebrei, gli omosessuali e le donne); infatti "essere ultimisti significa stare dalla parte degli ultimi, di quelli che non hanno diritti né garanzie", e questi sono appunto in numero crescente. Tra essi "i bambini rappresentano ormai, in ogni latitudine, il Sud di ciascuna società: la sua parte più impoverita, sfruttata, schiacciata (...) poveri di ascolto e di attenzione". È vero che di fronte alle grandi tragedie, alle violenze indicibili, l'indignazione è unanime e non certo taciuta, però è altrettanto vero che queste sono le sole occasioni in cui si parla dei bambini. L'unica altra attenzione è quella del mercato, priva di parole e di senso e carica solo di lucori e di euforie stordenti. Dice Clara Sereni: "Di fronte a storie atroci come quella di un corpo bambino cancellato dal mondo, le reazioni non possono che essere comuni a tutti (...) Eppure forse qualcosa non va in questo forsennato indagare gli aspetti più sconvolgenti di troppe vicende, e soprattutto qualcosa non va nei rimedi che ci si trova a pretendere, per lo più improntati alla maggiore tutela dei minori e a un inasprimento delle pene per chi di loro abusa". E aggiunge che è necessario "riflettere sul perché alla reazione emotiva forte che sempre si scatena in queste occasioni non corrisponda poi quel mutamento di qualità della vita dei bambini che tutti dichiariamo necessario. (...) Non subisce sostanziali trasformazioni il comportamento individuale e collettivo nei confronti di bambini o adolescenti, cui quasi mai viene riconosciuto il diritto a essere ascoltati: come persone, non soltanto come minori. Anzi, la condizione di minorità viene costantemente ribadita con il chiedere a gran voce alle "Autorità" più forze dell'ordine, più censura, più occhiuti controlli. Meno forte, molto meno forte e ascoltata, è invece la voce di chi prova a dire che la protezione serve entro certi limiti, varcati i quali al bambino viene in realtà impedito di crescere, di percorrere una sua strada di autonomia, di affrontare rischi e problemi costruendosi via via gli anticorpi per superarli. Ma educare all'autonomia vuol dire accompagnare le capacità critiche del bambino e affinarle, vuol dire ascoltare i suoi bisogni e le sue proposte, vuol dire accettare che quegli elementi disordinati ma rivoluzionari che ogni crescita contiene scompaginino la nostra vita di adulti, presumibilmente e presuntuosamente ordinata. È una scelta faticosa: perché è meno ansiogeno chiedere controlli e sanzioni che condividere con i più giovani un rapporto fatto di affetto e fiducia ma anche di pazienza, conflittualità, impotenza. (...) C'è bisogno che ci assumiamo fino in fondo la sfida della complessità: perché infanzia significhi davvero le radici di un futuro condiviso, e non soltanto un peso individuale da alleviare con qualche assegno famigliare in più".

Non è certo tutto qui il libro di Clara Sereni, che anzi si sofferma ripetutamente sugli handicappati, la città, l'ebraismo, il tempo, le madri handicappate, l'antipsichiatria, le istituzioni, la scrittura, la politica, le donne, i manicomi, e le leggi e i progetti e i valori e quant'altro. Di due silenzi (o meglio: un silenzio e un quasi-silenzio) vor rei chiedere le ragioni - nonché auspicarne il superamento in un auspicabile ulteriore Taccuino-: gli zingari e la scuola, alla quale viene dedicato un giustissimo ma un po' troppo sbrigativo accenno come regno dell'approssimazione (e qualco sa, ma non molto di più, ne dice in un altro bel libro appena usato: Da un grigio all'altro, Di Renzo Editore, Roma 1998, pp. 70, L. 16.000 - bel libro che tra i tanti meriti include un omaggio esplicito a Giacoma Limentani e alle sue lezioni di midrash).