Storie raccontare, leggere, ascoltare école maggio 1997 |
Uno
dei miei più autentici maestri è un individuo il cui nome non posso
fare perché l'ho serenamente dimenticato e i cui connotati non voglio
riferire perché sono astiosamente vivi nella mia memoria. Dirò
soltanto che da lui ho appreso un'importante verità e quindi nutro
nei suoi confronti una riconoscenza devotamente rancorosa.
Qualche anno fa, in un insopportabilmente afoso giorno di giugno
milanese, l'Esimio inchiodò per un intero pomeriggio sulle
inenarrabili panche di legno di un' aula di scuola - obbligatoriamente,
affinché s'aggiornassero - una cinquantina di meschini. C'ero
anch'io. Ovviamente Egli non era responsabile né del
giugno né delle panche né delle zanzare; però, nonostante sia forse
poco pertinente il parlare di responsabilità a proposito di un
individuo totalmente privo di
senno, mi sento di
ritenerlo responsabile di
quel che fece: parlò per ore, aggiornandoci
a vapore - fuoco lento e
La ragione per cui ho voluto qui rendergli omaggio è che m'ha
insegnato questa importante verità: non si fa così. E allora qui,
sulla base di questo grande insegnamento e volendo io diffondermi su
come e quanto e perché impenscindibile siano il raccontare, e il
leggere, e le storie, non posso fare altro che raccontare
una storia. Questa nasce in un libro molto bello del narratore basco
Bernardo Atxaga (Obabakoak, Einaudi), in cui si racconta, tra
mille e una storia, di quella volta in cui mi recai a Obaba, a casa di
un premurosamente affettuoso zio. E lì passavo ore e ore a leggere.
«Perché leggi tanti libri per bambini? Mi chiese una volta mio zio.
Pensi di scrivere un saggio sulla letteratura infantile? No, non
è per questo, gli risposi, li leggo perché mi piacciono. Sul serio,
zio, i libri per bambini sono fantastici. Davvero? si meravigliò lui.
Per esempio, questo che sto leggendo ora», e cominciai a raccontargli
la storia, divertito, ridendo
apertamente. «Ma mi interruppi. di colpo. E questo perché vedevo
lacrime negli occhi di mio zio».
Lo zio, naturalmente, non si diede per vinto, e provò e riprovò,
finché una volta «si arrabbiò, e chiamò il mio amico, voglio dire
il medico, e tutti e due, dopo avermi afferrato, mi misero in un'auto.
E cammina cammina, alla fine arrivammo a una grande casa, e lì c'era
solo gente vestita di bianco. Tutto lì era bianco, da far persino
paura. E allora mi portarono in una stanza tutta tappezzata di sughero
e mio zio mi disse: perdonami, nipote, ma è per il tuo bene».
Da qui in avanti Atxaga è innocente, ma il fatto è che lo zio viene
a trovarmi tutti i giorni, e continua ad insistere. Ormai però
riesco soltanto a dirgli quella frase: «sul serio, zio, i libri
per bambini sono fantastici». Gli dico solamente questa frase perché
gli voglio bene, e quindi posso dirgli solo la più solare verità; me
un po' lo faccio anche perché non voglio infierire, non lo voglio
umiliare schiacciandolo con prove e testimonianze. Mi rimane soltanto
uno scrupolo, a proposito del "per bambini", e domani lo
chiarirò. Infatti non vorrei che lui credesse che ritengo
"fantastici" quei libri che a Peter Bichsel regalavano le
sue zie: «tutto un brulichio di topolini e orsetti, di scimmiette e
pesciolini, e gli orsetti dormono obbedienti nei loro lettini e hanno
delle bellissime animucce e fanno alle loro mammine degli scherzettini
e poi tornano ancora tanto obbedienti» (Al mondo ci sono più
zie che lettori, Marcos y Marcos). No, a essere fantastici sono
quei libri che sono "per bambini" perché sono così belli
che possono piacere a tutti, adulti e bambini; quei libri che hanno un
forte spessore simbolico e parlano delle realtà interiori. E se allo
zio, sentendosi dire così, verranno in mente le fiabe e i racconti
mitologici, L'isola del tesoro e Pinocchio, Don Chisciotte e
Moby Dick, i racconti di Singer, Il giardino segreto,
Huckleberry Finn, Il diavolo nella bottiglia, Penny Wirton e sua
madre, Lo cunto de li cunti, Odissea, Harull e il Mar delle Storie, Ci
sono bambini a zig zag di David Grossman, L'ombra di
Andersen, tanto meglio;
altrimenti gli fornirò l'elenco - il mio, beninteso; nonché il
suggerimento di costruirsene uno proprio. Ecco,
questo sì, voglio dirlo all0 zio, ché smetta di pensare che quelli
che io leggo siano "libri per bambini": sono storie, e
le leggo perché sono fantastiche, sul serio.
Il resto continuo a pensarlo, affidandolo alle pareti di sughero.
D'altra parte, cosa possa essere il "resto" non è difficile
capirlo. Basterebbe riflettere un po'. Oppure leggere i racconti di
Isaac B.Singer: basterebbe leggerli in sé, qualunque di essi, ma ci
si imbatterebbe anche in affermazioni estremamente chiare proprio a
questo proposito. Per esempio in Naftali il narratore
e il suo cavallo Sus: «Quando
un giorno è passato non c'è più. Che cosa ne rimane? Nient'altro
che una storia». Cosa, questa, sulla quale tutti possono convenire,
solo che attribuiscano ai propri giorni maggiore dignità di quanto
solitamente avvenga. E cosa, questa, che tutti hanno sperimentato
quando sia venuta a mancare una persona cara: si rimane soli, e subito
si prende a raccontare, a qualcuno o a se stessi, poco importa, quel
che chi è mancato faceva, quel che donava senso alla sua vita, quella
volta e quell'altra e l'altra ancora, e si coniuga tutto
all'imperfetto, e la mancanza muta, trascolora, e in qualche modo
ci si riaccompagna.
Ma Singer, se possibile, è stato ancora più chiaro. Ha scritto
infatti in Ricerca e perdizione (Longanesi): «Ero rimasto
deluso dalla filosofia, credevo a mala pena alla psicologia e niente
affatto alla sociologia, ma ero giunto alla conclusione che molte
verità o frammenti di verità erano sepolti nel folklore, nei sogni,
nelle fantasie. Là dove il pensiero non è legato a nessuna
disciplina, è in grado di gettare lo sguardo oltre la cortina del fenomeno».
Non c'è nessuna spocchia, nessun misticismo, nessun irrazionalismo in
questo, bensì la lucida consapevolezza che ben più che variegati
sono i versanti del vivere
e che i tentativi classificatorii altro non sono che una ricerca di
certezze e di controllo che si dovrebbe avere il coraggio di
riconoscere per inadeguati e depistanti. La stessa consapevolezza
espressa da Hannah Arendt quando scriveva che la narrazione «rivela
il significato senza commettere l'errore di definirlo» (cfr.
"aut aut", 1990)
Non di qualche tipo di fuga, quindi, si tratta. Al contrario, a me
sembra che tra un modello di sapere centrato sull'informazione e la
spiegazione e uno centrato sul racconto sia proprio quest'ultimo il più
impegnativo, complesso, difficile. Certo, anche il più divertente, ma
questo non è un difetto. Già Leopardi sosteneva essere «il
dilettevole più utile che l'utile», ma mi piace fare l'esempio di un
romanzo del prodigioso Faulkner, Mentre morivo. Se ci si
basasse sull'informazione si potrebbe anche dire così: una donna è
morta, il marito e i cinque figli ne trasportano il cadavere dalla
loro casa alla città in un viaggio di sei giorni durante il quale
devono affrontare anche un'inondazione e un incendio. Passeremmo
subito oltre, e non certo per insensibilità. Faulkner invece ci
incanta e trascina in cinquantanove monologhi in cui oltre alle
vicende si percorrono gli anfratti degli individui, del loro sentire,
del loro cimentarsi con la congiura congiunta di biologia e storia.
Non che se ne esca confortati, ma sicuramente più consapevoli e vivi.
E che dire del primo libro della mia bibbia?, cioè Moby Dick. L'informazione
parlerebbe di un gruppo di marinai a caccia di una balena alla quale
soccombono tutti. E invece... Inoltre: soccombono tutti, sì, ma non
Ismaele, e forse proprio per la ragione suggerita dall' epigrafe,
tratta dal Libro di Giobbe, che apre l'Epilogo: «E io solo mi
sono salvato, per poterlo raccontare». Certo, si tratta di Melville,
e quindi gli abissi si moltiplicano a causa degli incantamenti
derivanti dall'esistenza degli universi della lingua, e mio zio da
questo orecchio è sordo davvero; ma se volessi giocarmi lo zio in
modo inequivocabilmente definitivo potrei mostrargli un cartello
vergato con quel che scriveva Anna Maria Ortese ne Il cardillo
addolorato: «A bella posta abbiamo usato queste espressioni
retoriche; senza la retorica, nulla di serio e di vero può essere
detto, mancando di quel falso ch'è misura o supporto del vero».
Però non mostrerò questo cartello allo zio; non vorrei, infatti,
scoprire che nel fondo profondo lui sia un Khattam-Shud.) «"A
cosa servono le storie, che non sono neanche vere?". (...)
"Ma per quale ragione odia tanto le storie?" sbottò Harun,
assolutamente sbalordito. "Sono divertenti le storie...".
"Il mondo, però, non è fatto per il Divertimento" replicò
Khattam-Shud. "È fatto per il Controllo". "Quale
mondo?" si costrinse a domandare Harun. "Il tuo mondo, il
mio mondo, tutti i mondi" fu la risposta. 'Tutti esistono per
essere Dominati".» (Rushdie, Harun e il Mar delle Storie, Mondadori).
Anzi, domani, quando lo zio ritornerà a trovarmi, avrò in mano un
libro di storie e gli dirò subito che sì, sul serio, le storie per
bambini sono fantastiche, e il leggerle e il raccontarle sono la terra
e il cielo delle attività più sensate che si possano praticare nel
tentativo di dare un senso al proprio stare tra i flutti di questo
nostro grande sertao. E aggiungerò magari una postilla, a proposito
di quel "per bambini". La aggiungerò con serenità, giacché
lo zio non potrà certo pensare, trattandosi di parole non mie, che
io sotto sotto voglia scrivere un saggio sulla cosiddetta letteratura
infantile. Sono parole di Antonella Anedda, prese da un suo articolo
bellissimo ("il manifesto", 1995) in cui parlava anche delle
Storie per bambini (Mondadori) di Singer: «un testo di
meravigliosa intelligenza e purezza che sembra fatto di nulla e invece
racchiude pietre di grande sapienza. (...) Per bambini nel senso di
"degno della loro intelligenza" è quello spazio della mente
e della scrittura in cui riescono a incontrarsi difesa e libertà,
custodia del passato e desiderio di trasformazione». Poi canterò - allo zio o alle pareti di sughero, poco importa - con l'adorato Guimaraes Rosa: «il mondo era grande. Ma tutto era ancora più grande quando si ascoltava una cosa raccontata». |