Devo
parlare di un amico.
Vorrei
scrivere d'altro, leggere altro, fare altro, ma devo parlare di un
amico.
Vorrei
raccontare degli incantamenti che si trovano in La torta del
diavolo di Carmen Martin Gaite, appena uscito nella sempre più
bella collana "Contemporanea" di Mondadori (dove già
era uscito l'ottimo Cappuccetto Rosso a Manhattan). Vorrei
scrivere della attesa davvero gioiosa di Un bambino e il suo
papà di David Grossman; dello squisito L'albero di qui
(stessa collana Mondadori, come anche Grossman) di Chaim Potock, e
ancor di più dei suoi mirabili racconti di Zebra
(Garzanti). Vorrei raccontare le mille suggestioni scaturite dal
denso importantissimo libro curato da Franco Cambi per le Edizioni
ETS di Pisa, Itinerari nella fiaba. Autori, testi, figure.
Vorrei festeggiare i settant'anni di Hans Magnus Enzensberger, e
non certo soltanto per Il mago dei numeri e Ma dove sono
finito? (entrambi Einaudi, che ne ha pubblicato anche i saggi
di Zig zag, che istituzionalmente qui non
mi
competono, ma anche i rubrichisti hanno una vita privata, vivaddio).
Vorrei non essere costretto a interrompere la lettura delle Lettere
di compleanno di Ted Hughes (Mondadori), La signora dei
porci di Laura Pariani (Rizzoli), Il mio secolo di
Gunter Grass, Giudizi di valore di Pier Vincenzo Mengaldo (Einaudi)
- che meraviglia di vita privata! Vorrei leggere La grande
settimana (Salani) di Mario Spagnol e Paolo Bertolani,
attratto soprattutto dal fatto che lo ha scritto Bertolani, grande
poeta (Incertezza dei bersagli, Guanda 1976, Seinà,
Einaudi 1985, E gòse, l'aia, Guanda 1988, Avéi,
Garzanti 1994, Die, Diabasis 1999) ma anche eccellente
narratore di un libro incredibilmente mai riproposto dopo la
pubblicazione nel 1979 nelle Edizioni il Formichiere, Racconto
della contea di Levante. Vorrei dire dell'uscita di un altro
squisito librino di Tomi Unge
rer,
Cridor (Mondadori). Vorrei dire di tre bellissimi
"Classici del Battello a Vapore" della Piemme: Canto
di Natale di Dickens, Lo strano
caso
del dottor Jekyll e di Mister Hyde di Stevenson, e L'Antico
Testamento.
E
invece niente di tutto questo, perché devo parlare di un amico.
Perché voglio parlare di un amico. Si chiama Alberto Melis, e lo
conosco solo da qualche anno, anche se mi sembra di conoscerlo da
sempre.
Tempo
fa, all'epoca gloriosa della gloriosa "Linea d'ombra"
gloriosamente diretta da Goffredo Fofi, scrissi un pezzo sulle
fiabe degli zingari. La gloriosa redazione di "Linea
d'ombra" corredò l'articolo di una splendida foto di
bambina, una foto entrata anni prima nell'archivio redazionale e
pubblicata senza troppo preoccuparsi di informarne l'autore. Il
quale però non solo esisteva, e si chiamava Alberto Melis, ma
scrisse anche una lettera che Goffredo mi fece leggere. Conteneva
imbarazzanti elogi a quel mio pezzo e al mio
lavoro
nel complesso, e raccontava la storia di quella bambina. Una
storia dolorosa, finita sotto le ruote di un furgone a un incrocio
cagliaritano; una storia che aveva portato l'autore di quella foto
alla decisione di ritirare tutte le fotografie che aveva
consegnato all"'Unione Sarda" (quotidiano cui
ancora collabora) e di non farle mai più pubblicare se non in
contesti che ne fossero degni. Scrissi a mia volta a Melis, e
scoprii che aveva solo un paio d'anni meno di me, che faceva il
maestro elementare, che leggeva all'incirca i miei stessi libri,
coltivava diverse delle mie stesse passioni (gli zingari,
l'ebraismo, Israele, gli scrittori israeliani, la cosiddetta
letteratura per l'infanzia), aveva un passato di militanza
politica libertaria. Sentii verso di lui una forte stima e
soprattutto una profonda
fraternité.
Sentimenti ricambiati, evidentemente, se Melis decise di farmi
leggere certe cose che andava
scrivendo: in quel periodo un libro sugli zingari in Sardegna,
intitolato La terza metà del cielo, pubblicato dalle
Edizioni Gia di Cagliari con la prefazione di Giulio Angioni;
successivamente i dattiloscritti di alcuni romanzi. Il primo aveva
un titolo bellissimo, Bianca e la Porta nel Fumo del Fuoco
sotto il Cielo di Stelle al Mattino; bellissimo, ma forse
editorialmente problematico, e infatti quando le edizioni
Condaghes lo pubblicarono ebbe il titolo Gli occhi del
barbagianni. In seguito, oltre a una raccolta di Fiabe
sarde pubblicate qualche mese fa da Giunti, Melis ha scritto
altri due romanzi molto belli: Non dire di me che ho fuggito il
mare e Il mio strano amico Yehoshu'a. Il primo, il cui
titolo deriva da un verso di Stevenson, è ancora inedito e nel
1998 si è classificato secondo al Premio "Il Battello a
Vapore-Città di Verbania"; Il mio strano amico Yehoshu'a,
invece, quello stesso premio lo ha vinto nell'edizione di
quest'anno e il libro sarà quindi pubblicato presto dalla Piemme.
Di questi due libri non voglio però dire nulla, preferisco
crogiolarmi nella felicità per la loro esistenza. E lascio allo
stesso Alberto Melis il compito di dirne qualcosa riportando qui
le Avvertenze che chiudono i due libri. Non dire di me che
ho fuggito il mare: "Tempi, luoghi e personaggi di questa
storia appartengono tutti al regno della fantasia. Non così è
invece per quanto riguarda la Grande Isle sull'Oceano Atlantico,
che veramente venne distrutta da un violento ciclone il 10 agosto
1856 (unica superstite una mucca), e per quanto riguarda il numero
tatuato sul braccio del vecchio Isacco. L'uomo che portò
realmente sul braccio quel numero fu fatto prigioniero dalle
milizie fasciste, insieme a sua moglie Anna Disegni, figlia del
rabbino capo di Torino, e alla loro figlia di otto anni Sissel
(che in yiddish significa dolce), durante un disperato tentativo
di attraversare la frontiera con la Svizzera. Venne deportato ad
Auschwitz col convoglio che parti da Milano il 30 gennaio 1944 e
fu uno dei pochi che sopravvisse al campo e che riuscì a tornare
in Italia, contrariamente a sua moglie e a sua figlia. Il suo nome
era Schulim Vogelmann, tipografo a Firenze: suo nipote Shulim,
sopravvissuto di terza generazione e figlio di suo figlio Daniel
[attualmente editore Giuntina], nato nel 1948 dal matrimonio con
Albana Mondolfi, nel 1996 ha potuto visitare il luogo dove a suo
nonno venne tatuato sul braccio il numero 173484 e dove morirono
Anna Disegni e la piccola Sissel".
Il
mio strano amico Yehoshu'a: "Essendo questa un'opera di
fantasia, si vorranno perdona
re alcune inevitabili forzature storiche. Non tanto sul piano dei
tempi (essendo ormai assodato che Gesù di Nazareth nacque con
ogni probabilità nell'anno 7 a.c.), quanto nell'identificazione
del Maestro di Giustizia col rabbi Josef Ben Joeser di Zereda,
cosa che invece non è certa, e nella ricostruzione dell'abbandono
di Gerusalemme da parte dell'etnarca Archelao, figlio di Erode il
Grande: che avvenne si nell'anno 6 d.c., ma con modalità che,
nonostante il racconto fattone da Giuseppe Flavio, restano a noi
in gran parte sconosciute. Quanto all'ipotesi che Gesù di
Nazareth fosse venuto in contatto con gli esseni di Chirbet Qumran,
l'autore si è invece affidato a quanto affermato, tra gli altri,
da Alfred Lapple in Von der Exegese zur Katekese [...]. A
prescindere però da tutto questo, l'intenzione dell'autore è
stata solo quella di immaginare l'avventura di un ragazzino di
dodici anni destinato a influire tanto nella storia degli uomini e
del mondo: cercando di restituire prima di tutto, attraverso gli
occhi dei suoi amici Joachim e Sara, ultimi tra gli ultimi della
terra, il suo grande e tenerissimo Mistero".
Shalom,
Alberto, shalom alejchem.