Elogio delle azioni spregevoli, ovvero cinque anni di storie école aprile 1994 |
Vorrei,
senza fare tante
storie, raccontare una
storia. «Vorrei» nel senso che mi piacerebbe farlo, ma non la
racconterò. Non la racconterò perché, trattandosi della mia storia
di lettore forsennato, sarebbe troppo lunga. Infatti essa dovrebbe
necessariamente partire da alcune incantevolmente stregonesche
narratrici che ho avuto la ventura di ascoltare nella mia infanzia.
Inoltre dovrebbe includere la spregevole azione che ho cominciato a
compiere a sei anni. E dovrebbe altresì articolarsi nel dire
diffusamente dell' altrettanto spregevole azione iniziata a vent'anni
e poi dai vent'anni in avanti ribadita con pervicacia crescente:
crescente fino al punto di farmene un vanto. Eviterò allora di
Per dire delle mie azioni spregevoli mi servirò però delle parole
d'un altro: il direttore del «Premiato Collegio Minerva», il signor
Tobia Corcoran. Questi, come racconta Silvio D'Arzo in Una storia
così, racconto risalente alla fine degli anni Quaranta e
pubblicato ora, per la prima volta, in appendice a un importante
libretto di saggi di Paolo Lagazzi (Comparoni e l'«altro».
Sulle tracce di Silvio D'Arzo, Edizioni Diabasis, Reggio
Emilia), dirigeva appunto il «Premiato Collegio Minerva»e non aveva
nulla di strano se non questo fatto: «aveva in testa soltanto un
'idea. (E non una alla volta, intendiamoci: no, il signor Tobia
Corcoran sotto il suo vecchio cappello aveva quella e poi quella
soltanto. [...]) Ed ecco qui la sua idea: «Uno studente dai sei anni
in avanti non può compiere azione più immorale, malvagia,
spregevole, pericolosa, allarmante che leggere libri che non siano i
tre libri di testo. E a sua volta un maestro dai vent'anni in avanti
non può compiere azione più infamante, allarmante, pericolosa, spregevole,
malvagia, immorale che far leggere libri che non siano i tre libri di
testo».
Sì, dai sei anni in poi ho letto ben altro che i libri di testo. E
poi, dai vent' anni in avanti -
giacché è da allora
che ho cominciato a insegnare -
ho fatto leggere libri
che non erano proprio i libri di testo.
È così. E così innesto qui l'altra storia. Quella che non è poi
neanche una storia, ma soltanto un frammento di essa, di quella stessa
storia: per la precisione quel suo capitolo che si intitola Come e
perché un lettore forsennato cerchi di
Racconterò questo capitolo perché esso esiste, e si snoda nel mio
andare a scuola ogni giorno sempre tenendo ben presente
il convincimento che -
poche storie -
quel che più conta per
me sono le storie. Con
tanti saluti al signor Corcoran.
Certo, un ruolo decisivo nel formarsi di questo mio convincimento
l'hanno svolto quelle stregonesche narratrici -
soprattutto la
levatrice del paese - ma
poi si è via via consolidato, ed è arrivato alla misura attuale
anche per gli apporti di altri, illetterati e non, raccontastorie. Da
alcuni di essi, oltre al grande piacere che ne ho preso per le vicende
e le voci, ho anche ricavato fondamenti, per così dire, teorici. Uno
di questi, per esempio, riguarda il quotidiano di ognuno, in ogni
tempo e paese, e proviene da un racconto di Isaac Bashevis Singer, Naftali
il narratore e il Suo cavallo Sus (Salani 1992). Dice infatti Reb
Zebulun: «Quando un giorno è passato, non c'è più. Che cosa ne
rimane? Niente più che una storia».
Ma non ce n'è solo per l'umanità e i suoi giorni: ce n'è anche per
Dio. Dice infatti il commissario de La tempesta di Emilio
Tadini (Einaudi 1993): «Io credo che Dio abbia creato gli uomini
perché lui adora i racconti. Che cosa se ne farebbe, siamo sinceri,
Dio, non dico delle formule di un fisico, ma anche dei discorsi di un
professore che venisse a parlargli dell'ente o addirittura dell'essere?
Ma se qualcuno gli si alzasse da
Mille e mille
potrebbero essere le testimonianze a riprova del fatto che quello che
più conta sono le storie, ma in fondo forse potrebbe anche bastare il
pensare a Sheherazad, che salva la propria vita raccontando.
Racconterò allora una cosa che ho fatto a
scuola negli ultimi cinque anni, coi bambini
della mia classe, limitandomi a parlare
delle narrazioni che si sono lette insieme. «Narrazioni
che si sono lette insieme» significa qualcosa di molto preciso e
definito: significa libri di racconti e romanzi, soprattutto. Libri
che io, insegnante, ho letto ad alta voce ai miei alunni; non includo,
quindi, tutto quel che si è letto in classe né tutto quello che
ognuno ha letto per proprio conto, di propria iniziativa o dietro
suggerimento, mio o di altri.
E dunque noi a scuola si leggeva. E siamo stati bene, molto bene. Si
rosicchiava il tempo qui e là, ci si sedeva in circolo e io leggevo
la storia. (Uso il
tempo passato perché parlo degli
anni trascorsi, ma potrei usare il prente perché anche con il nuovo
ciclo si sta ripetendo l'attività.) Io leggevo la
Alla fine dei cinque anni ci siamo così
Quali siano i libri si può leggere nell'elenco
qui a fianco, e
potrebbe forse bastare, ma voglio aggiungere anche qualche altra
parola.
Una cosa invece potrei dire di essere «orgoglioso» di non avere mai
fatto: usare quei libri per attivare qualsivoglia esercitazione
scolare. Se ne è però parlato tantissimo, nei momenti più
disparati, e mi sembra che i bambini abbiano sempre dimostrato di
capire molto. E non ho dubbi che se avessi organizzato un qualunque
lavoro con tutte le sue brave articolazioni avrei potuto assistere a
esiti molto più banali di quelli cui ho assistito, per non fare che
un esempio, nella discussione seguìta all'affermazione molto
estemporanea di una bambina che un giorno interruppe il proprio lavoro
e mi venne vicino dicendomi che la sera precedente, prima di
addormentarsi, aveva pensato, con piacere e paura, che Silver, il
pirata de L'isola del tesoro, le piaceva molto, e si
arrovellava, perché secondo lei era contemporaneamente un
rappresentante del Male e del Bene, e aveva il sospetto che proprio
questa fosse la ragione per cui le piaceva tanto.
Dire
che questa attività è piaciuta è affermazione abbondantemente
eufemistica. Per rendere davvero pienamente l'idea avrei bisogno di
molte pagine, e dovrei dire degli sguardi, delle suppliche a non
interrompere, delle richieste di replica, delle richieste di -
«almeno una volta, ti
prego, almeno oggi» -leggere per tutto il giorno. Non tutto,
ovviamente, è piaciuto in eguale misura; ognuno ha avuto precise
preferenze che ha caparbiamente sostenuto a fronte delle allettanti
preferenze altrui.
Se dovessi dire un titolo che più di altri ha ottenuto la definizione
di «più bello di tutti» sarei abbastanza in difficoltà, ben
sapendo quanti - e
con quanta forza - si siano innamorati de L'isola del tesoro,
di Harun e il
Mar delle Storie,
di Ronja, di
Tom Sawyer; e ben sapendo anche quanti abbiano ripetutamente
insignito Cion Cion Blu della propria «menzione d'onore» con
la motivazione struggente che «è stato il primo». Sì, sarei in
difficoltà, però potrei forse dire che il «Più-più bello» sia
stato quel capolavoro piuttosto misconosciuto che è il libro di
Frances H.Bumett, Il giardino segreto.
Mi preme sottolineare che i miei alunni erano tutti bambini senza
particolari stranezze: amavano i giochi, i fumetti. la televisione,
andare al parco e quan
Voglio solo aggiungere, in conclusione, che ogni tanto mi arriva una
lettera, una telefonata: mi si racconta della scuola media, di un
braccio rotto, di una vacanza, mi si chiede un consiglio di le |